FuturStage. Saper guardare oltre il domani

Intervista a Jeffrey Schnapp e Paolo Petrocelli, coordinatori del manifesto del metaLab di Harvard

Una settimana fa abbiamo pubblicato la prima traduzione italiana di FuturStage, nuovo manifesto coordinato dal metaLab di Harvard che si interroga sul futuro delle arti performative, indagandole sotto molteplici livelli e con particolare attenzione al ruolo delle (ormai non più così) nuove tecnologie. Quinte Parallele sta dedicando, ogni settimana, uno spazio per commentare e discutere uno o più punti di questo manifesto, interrogandoci su quale sia il futuro del nostro settore e guardando “oltre l’oggi e il domani”, per citare i due coordinatori del progetto Jeffrey Schnapp e Paolo Petrocelli. Proprio con Schnapp e Petrocelli ho avuto modo di fare qualche chiacchiera su FuturStage, approfittando della loro presenza a Milano per presentare il manifesto al Master in Performing Arts Management dell’Accademia della Scala.

 

Dunque, è di nuovo tempo di manifesti?

JS: Grande questione. Per me sì. Io sono anche uno studioso delle avanguardie e il manifesto è uno degli strumenti più interessanti a disposizione della comunicazione artistica, uno strumento che ha avuto esiti anche molto positivi nell’ultimo secolo. Io credo che un manifesto serva sempre, soprattutto a mettere insieme più voci. Nel nostro caso, siamo riusciti a unire quasi trenta persone, con un’area di expertise molto ampia, da chi si esibisce su un palco a chi organizza le tournée, da chi sta dietro alle quinte a chi si occupa di tecnologie del presente e del futuro per la comunicazione culturale. Se prendessimo tutte queste figure e le mettessimo in una stanza, non riusciremmo a scrivere un libro insieme. Però possiamo aprire un dibattito costruttivo, una riflessione che sia speculativa ma anche critica. Questo tipo di intervento, più leggero e a tratti persino provocatorio, fa parte del manifesto, insieme ad una compattezza che permette di coinvolgere un’audience che magari un volume scientifico non lo leggerebbe. Abbiamo scelto il format del manifesto anche perché l’ambizione non era di risolvere ogni problema delle pratiche e le forme emergenti di performance, ma costruire una piattaforma di riflessione. L’obiettivo di questo manifesto è stimolare, provocare, sollevare e sollecitare. E per questo penso che sia decisamente tempo di manifesti.

 

Come e perché è nata l’idea di FuturStage?

PP: È nata durante la pandemia, dalla necessità di avviare un confronto tra tanti professionisti di settori diversi, intorno ad un’idea che fosse veramente futura. Durante la pandemia, tutti noi ci siamo confrontati con la tecnologia e abbiamo appurato come questa possa rappresentare un’opzione di produzione e fruizione artistica e culturale. Ma ci siamo anche resi conto della necessità di parlarne e di farlo a livello globale. Molte soluzioni per il futuro delle arti performative cui stiamo pensando in Europa funzionano solo per noi, non sono risolutive per contesti lontani e diversi come i paesi africani o il medio oriente. Persino gli Stati Uniti hanno visioni distanti e parliamo di esperienze diverse non solo in ambito artistico o organizzativo, ma proprio nella vita quotidiana. Volevamo dunque creare una piattaforma nuova, internazionale che si dedicasse alle performing arts ma non fosse chiusa solo a quel settore. Così è nato FuturStage, con grande entusiasmo ma non poche difficoltà, sorte ovviamente proprio dal mettere insieme tante menti importanti con visioni diverse. Siamo però riusciti a rendere questo manifesto un punto di partenza e di incontro, cercando di trarne un risultato che potessimo condividere con la collettività. Ora l’obiettivo è proseguire in questo cammino di dialogo anche con l’esterno e in particolar modo con i giovani che oggi stanno studiando per divenire i protagonisti del domani. È fondamentale lanciare loro la sfida e invitarli a non pensare solo all’oggi e al domani, ma allo scenario di qui a 30 anni, con cui necessariamente dovranno confrontarsi. Sarebbe importante che quantomeno si pongano delle domande, su questo scenario. Poi vogliamo approfittarne per portare un po’ di questa provocazione nelle istituzioni più consolidate, come la stessa Accademia della Scala in cui ci troviamo oggi.

JS: Vorrei aggiungere una cosa su questo: è fondamentale, per innovare, spostare l’uditorio da una postura difensiva (“dobbiamo difendere la cultura e le forme tradizionali”) ad una propositiva, in cui nuovo e vecchio non siano in opposizione. FuturStage serve anche a garantire che questa discussione non partisse con il piede sbagliato, pure inserendo un aspetto più ludico, come la sezione sulle professioni, in cui ci siamo divertiti a inventare tutti i nomi, ma facendo così passare un’idea di professioni che potremmo effettivamente avere, in futuro.

 

Il logo del manifesto FuturStage

 

Quali sono dunque i prossimi passi?

PP: Vogliamo condividere riflessioni con pezzi di società, in particolare i giovani di cui parlavo prima, per raccogliere feedback e input così da ampliare i contenuti di FuturStage. Secondo me occorre fare un vero lavoro di monitoraggio delle idee: si parla di molte realtà nuove, ma in cosa consiste questa innovazione? Stiamo davvero cogliendo l’occasione per creare nuovi modelli, nuove visioni? Purtroppo, la maggior parte delle grandi istituzioni sono concentrate sull’oggi, sul vendere biglietti, sul tenere in piedi la struttura, tutte cose fondamentali ovviamente. Ma persino la politica fa fatica a ragionare su strategie di medio-lungo periodo. Che però servono. Noi, nel nostro piccolo, vogliamo provare a guardare oltre. Nel 2022 vogliamo proseguire in questo confronto con la società, poi dal ’23, vorremmo metterci alla prova come piattaforma, organizzando sperimentazioni di sistemi e modelli.

 

Ad esempio?

PP: Nel manifesto abbiamo toccato molto aspetti dello spettacolo dal vivo, da quello concettuale a quello organizzativo. Uno di questi aspetti è come si possa rendere il teatro, in Europa, un luogo vivo e aperto non solo durante lo spettacolo. Siamo a Milano, prendiamo la Scala: è una struttura incredibile, ma viene aperta al pubblico per una manciata di ore al giorno. Questo potrebbe cambiare, lo spazio potrebbe diventare più vivo, più vissuto. Chiaramente ci sono questioni di organizzazione del lavoro, ma è un passaggio importante da compiere.

 

In Europa abbiamo una concezione piuttosto sacrale della cultura e in Italia questa dimensione è particolarmente accentuata: la Scala viene spesso descritta come il tempio dell’opera. È un ostacolo all’innovazione?

JS: Questa è una delle grandi questioni, che va necessariamente affrontata di contesto in contesto. Per questo, al fine di confrontarci con la società, abbiamo pensato ad una tournée mondiale, anche virtuale, che stiamo organizzando con il gruppo che ha prodotto FuturStage e che ci porti in tutte le varie realtà dei firmatari. Bisogna espandere la conversazione su questo tema, anche perché, come anticipava Paolo, non è una discussione che si trovi di frequente negli ambienti gestionali delle istituzioni culturali, non c’è tempo, non c’è la possibilità, a volte non c’è proprio la capacità di pensare a questo tema.

PP: Parlando di ostacoli, è stato interessante e curioso notare che molti degli aderenti al progetto, nonostante l’interesse e l’entusiasmo, fossero i primi a sostenere che “tanto non cambierà mai nulla”. Poi si sono ricreduti, ma è stato necessario dimostrare che è possibile lavorare insieme, anche quando in una call uno dice una cosa e nell’altra si dice tutto il contrario. Sembra tutto troppo complesso, per quello le cose non cambiano e di fronte a queste difficoltà nessuno vuole veramente prendere in mano le redini della questione, dunque tutto si fa come è sempre stato fatto.

 

 

 

FuturStage, come ogni manifesto, dà una visione più generale, che poi va declinata di caso in caso. Avete dei casi da consigliare? Ci sono dei punti di riferimento?

PP: Su questo lascio la parola a Jeffrey, che di innovazione è un esperto, ma vorrei fare una piccola premessa: si innova diversamente in base a dove sei. In Italia abbiamo numerose esperienze innovative, ma quando le paragoni al mondo, per esempio, degli USA, non sembrano poi così coraggiose. Ognuno, però, deve relazionarsi al suo contesto per innovare.

JS: Secondo me ci sono molti esperimenti, su ogni livello, che stanno portando nuove visioni. Durante la pandemia abbiamo visto la nascita di forme di spettacolo che difficilmente avremmo potuto immaginare prima. Mi viene in mente Tiny_Theatre, un esperimento di Rachel Burttram e Brendan Powers che hanno ambientato i loro closet dramas in un vero e proprio armadio, allestito a piccolissimo palco e programmando spettacoli live con un sistema di abbonamento. Ne ho seguiti diversi e si tratta di spettacoli concepiti a tutti gli effetti per questo spazio digitale. La pandemia e in generale la nostra condizione ci può permettere di reimmaginare i format, pensando allo streaming non come ad un canale B da accettare forzatamente e come stampella, ma come un nuovo mezzo di comunicazione.

PP: Questo è un grande tema. Durante la pandemia, molti teatri hanno semplicemente preso l’esperienza dello spettacolo in scena e l’hanno trasferita tale e quale in streaming. Ma è ovvio che così funziona solo fino ad un certo punto. Pensiamoci, un conto è assistere ad uno spettacolo di tre ore in teatro, un altro è passare quelle tre ore di fronte ad uno schermo. Mi sembra che su questa differenze, però, non ci sia molta presa di consapevolezza da parte dei teatri.

 

È stato più volte segnalato che, soprattutto in pandemia, i progetti più interessanti sono usciti dai Teatri di Tradizione più che dalle Fondazioni Lirico-Sinfoniche. È vero che un grande teatro ha una struttura più estesa e pesante da muovere, ma ha anche una potenza di fuoco impareggiabile. Cosa serve per riuscire a portare più innovazioni nei teatri più grandi?

PP: Non si può fare nulla finché non si ripensa la propria identità. Dove sta scritto che la Scala deve essere solo ciò che è stata da 250 anni? Bisogna riconquistare il piacere di essere creativi, di ritornare protagonisti del presente e non solo con le produzioni, ma con tutte le attività che una Fondazione Lirico-Sinfonica mette in campo. Gran parte delle nostre istituzioni culturali, dai musei ai teatri, non è al centro della vita comune ma parla ad una piccola parte di comunità, tenendo fuori gli altri. Questo deve cambiare.

JS: Aggiungerei solo questo al discorso di Paolo: bisogna necessariamente pensare al prodotto come qualcosa di molto più ampio. L’idea che il prodotto sia solo uno spettacolo, rigorosamente consumato in una forma tradizionale, è per me troppo povera rispetto alla ricchezza di ciò che lo spettacolo può essere. Si possono trovare nuove modalità di fruizione, pensiamo all’entusiasmo dimostrato spesso dal pubblico quando può assistere alle prove, al processo di montaggio di uno spettacolo. Dobbiamo continuare ad aprire le quinte, sfruttare i processi di produzione come parte del prodotto, anche per riprendere pubblici che ormai, soprattutto parlando di grandi istituzioni, ci abbandonano. Bisogna saper prendere dei rischi e sperimentare, anche nel contesto delle istituzioni più prestigiose, che finora si sono troppo spesso limitate al ruolo di guardiani della tradizione.

 

Non c’è il rischio di togliere questa sacralità e perdere ciò che ci rendeva unici? Di scendere nell’arena dei grandi eventi e poi non poter competere con il mercato, perché il nostro spettacolo non è stato concepito per essere speso in questo mondo digitale?

PP: Io non credo tanto nello stravolgimento di come progettiamo un’opera del repertorio storico. Quel repertorio va esplorato in ogni dimensione, ma già lo si fa. Non credo però che un teatro debba fare solo quello. Torno sul concetto dello spazio: alla Scala non devi entrare solamente per vivere l’esperienza classica. Proviamo a fare un esempio e prendiamo il caso di musei e teatri affittati per portare eventi e linguaggi inizialmente non pensati per appartenere a quel luogo. È evidente che se fai questo tipo di collaborazioni solo sporadicamente, allora il pubblico non capisce e la società rifiuta l’idea della sfilata di moda nel grande teatro. Ma se tu crei dei processi graduali e con il mondo della moda ci dialoghi in modo strutturato e continuativo, allora anche la sfilata rientra nell’orizzonte di ciò che un teatro può fare senza desacralizzare il luogo.

 

 

Un’ultima domanda: Come si possono formare i giovani per questo futuro? Prendiamo il caso dell’Accademia del Teatro alla Scala. È un’accademia prestigiosa, in cui hai modo di imparare direttamente da chi nel teatro ci lavora, prima di cominciare tirocini che di nuovo ti portano a confrontarti con il personale di un teatro. E giustamente ti insegnano come loro hanno fatto le cose fino a quel momento. Non si viene a creare un loop in cui non c’è spazio per l’innovazione?

JS: La mia risposta potrà sembrare paradossale: è proprio il contrario! Per innovare bisogna conoscere a fondo la realtà per cui lavori, il territorio, il contesto in cui ti muovi. Avere una mentalità aperta all’innovazione, avere il gusto per la sperimentazione non basta, se ciò che fai non è radicato nella tua area operativa. Tradizione e innovazione non sono in contraddizione. Semmai ciò che manca sono gli stimoli, ossia il fatto di poter andare oltre rispetto ad una formazione tradizionale e ben consolidata. Ma se non si approfondisce, l’innovazione non attecchisce e ogni sforzo sarà inutile.

PP: La sfida, soprattutto per le nuove generazioni, è non fermarsi solo ad imitare ciò che già si fa, ma avere il coraggio di portare le proprie idee e la propria visione. Solo questo potrà aiutare a risolvere problemi che abbiamo oggi e che noi stessi non riusciamo a risolvere perché ci manca un certo tipo di competenze, di capacità, di apertura mentale. Dunque è fondamentale che i nuovi organizzatori imparino cosa fare, ma non ambiscano a farlo esattamente allo stesso modo, guardando al futuro con lungimiranza.


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