Le fiabe in musica di Valčuha

Il primo concerto dell'anno solare per l'Accademia Nazionale di Santa Cecilia, guidata da Juraj Valčuha, è stato all'insegna del fiabesco.

L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ha aperto le danze per la sua nuova stagione con un concerto “a programma”, dedicato alle fiabe, interpretando in maniera originale lo spirito natalizio della stagione, in aperto contrasto con il clima montante di insicurezza di questi giorni. Onore al merito, anzitutto. La curiosa transizione poi tra il Villaggio di Natale che gli spazi esterni dell’Auditorium Ennio Morricone stanno offrendo e un raffinatissimo inverno musicale offrono una panoramica straniante ma significativa. È la musica però ad essere innegabilmente il piatto forte: in programma Ravel, Stravinsky e Prokofiev con l’orchestra affidata a Juraj Valčuha, volto noto in Italia per il suo ruolo al Comunale di Bologna prima e al San Carlo di Napoli poi, ed acclamato interprete del repertorio franco-russo di inizio Novecento.

Ad aprire le danze è il Menuet Antique di Ravel, un brano straordinariamente avulso da qualsiasi collocazione cronologica. Composto nel 1895 in versione pianistica ed orchestrato ben trentaquattro anni dopo, il Minuetto raccoglie le suggestioni modali, antiquarie del Ravel dei primordi unendolo alla raffinatezza timbrica che ne contraddistingue tutta la produzione sinfonica. L’Orchestra dell’Accademia, incredibilmente al suo debutto con questa partitura, trova immediatamente il giusto affiatamento con la musica del compositore francese, maturato in tanti anni di direzione di Pappano: Valčuha si lascia prendere per mano in un incipit sognante e lieve e accompagna gli spettatori verso il clou del primo concerto del 2022 di Santa Cecilia.

Il tratto saliente che accomuna le due partiture fiabesche della serata è quello del lirismo, declinato secondo le due differenti sensibilità dei compositori.

Il direttore slovacco ha subito affrontato la questione Stravinsky in modo molto personale. Ma prima di provare a capire il perché di questa scelta sostanziale occorre fare un passo indietro e contestualizzare “Le Baiser de la Fee” all’interno della produzione e della poetica dell’autore del Sacre. Quando compose il balletto nel 1928, Stravinsky era già affermatissimo compositore ed era stato scelto da Ida Rubinstein per comporre un brano in omaggio a Tchaikovsky, di cui ricorreva il trentacinquesimo anniversario dalla scomparsa. La committente, ballerina e mima fuoriuscita dalla compagnia di Diaghilev, aveva dato carta bianca al compositore nella scelta del soggetto da mettere in musica e nelle musiche di Tchaikovsky da cui attingere: così Stravinsky scelse di prendere dalla produzione pianistica e vocale gran parte del materiale su cui si basa il balletto, mentre la storia è frutto di una rilettura della Vergine di Ghiaccio di Andersen. Dal punto di vista musicale la partitura che ne deriva è al tempo stesso essenzialmente stravinskiana, con tutte le spigolature e le ambiguità ritmiche che lo caratterizzano, pur risultando fortemente filtrata dalla materia prima di derivazione romantica. Ed è importante sottolineare che questo è l’ordine delle priorità, per distinguere questa operazione creativa da quella di Pulcinella. Se con la musica di Pergolesi – e dei suoi coevi – Stravinsky ha fatto un lavoro di tinteggiatura, nel caso di Tchaikovsky l’effetto d’insieme è più sospeso, l’omaggio più sottile e meno letterale. Nell’interpretazione di Valcuha – che pure è acclamato interprete dell’opera di Tchaikovsky – si sente eminentemente lo spirito novecentesco di Stravinsky, mentre gli omaggi vengono filtrati attraverso scelte più squisitamente direttoriali: privilegiare la stereofonia degli ottoni nei passaggi “corali”, dare risalto ai momenti più intimi per recuperare la dimensione cameristica della materia prima, esaltando al contempo scelte coloristiche che mai probabilmente Tchaikovsky avrebbe compiuto. Cosa importante e ben riuscita poi, perché l’orchestra tutta dava l’impressione di divertirsi davvero molto durante l’esecuzione.

Valčuha

Valčuha in azione – © Musacchio, Ianniello e Pasqualini

La storia raccontata da Prokofiev è invece quella classica di Cenerentola raccontata da Perrault. Il periodo in cui venne composta è singolare, però: la gestazione di Cenerentola ebbe luogo tra il 1940 ed il 1944, mentre tutt’intorno infuriava il conflitto mondiale. La produzione del compositore russo-sovietico non fu naturalmente esente dall’atmosfera che si viveva nel periodo. Di quegli anni sono la Marcia Sinfonica e i Sette Canti Popolari, entrambe composizioni di stampo patriottico, oltre ad una prima embrionale stesura di Guerra e Pace. Accanto a questo impegno creativo a sostegno dello sforzo bellico dei suoi compatrioti, Prokofiev cercò di mantenere vivo anche un proprio spazio più intimo e personale in cui mandare a briglie sciolte la sua creatività. Nacquero così il Romeo e Giulietta e la stessa Cenerentola. Il linguaggio che informa i due balletti è immediatamente riconoscibile ed ascrivibile al personalissimo neoclassicismo che il compositore coltivava; lo spirito di “esattezza” nella notazione lascia un margine di intervento relativamente ridotto all’interprete, nonostante i grandi slanci lirici. Nella sua ricomposizione della partitura, Valčuha sceglie di seguire la traccia della prima delle tre suite che Prokofiev ricavò dal balletto, integrandola poi con alcuni brani più “romantici” tratti dalla terza. Il risultato interpretativo è quello di un insieme che si sussegue senza strappi o interruzioni sensibili, privilegiando la dimensione narrativa e la plasticità classica, laddove in Stravinsky era prevalso invece l’aspetto timbrico e coloristico.

 

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