L'Orfeo di Monteverdi a Ferrara: intervista a Ottavio Dantone

Il 22 e il 23 gennaio, al Teatro Comunale di Ferrara, l’Accademia Bizantina debutterà con la favola in musica de L’Orfeo di Monteverdi. Regia, scenografia e costumi saranno affidati all’abilità di Pier Luigi Pizzi, mentre la musica sarà guidata dalla bacchetta di Ottavio Dantone che, per l’occasione, abbiamo deciso di intervistare.

Il 22 e il 23 gennaio, al Teatro Comunale di Ferrara, l’Accademia Bizantina, guidata dalla competente bacchetta del Maestro Ottavio Dantone, farà vivere in scena la favola in musica de L’Orfeo di Claudio Monteverdi. Insieme alla bravura e all’esperienza registica di Pier Luigi Pizzi, i temi dello smarrimento, della perdita e del forzato distacco, mai stati così attuali, verranno raccontati con una poetica estremante commovente e coinvolgente.  

Abbiamo quindi colto l’occasione del debutto a Ferrara dell’opera per porgere qualche domanda al Maestro Dantone, il quale, grazie alle sue profonde conoscenze sulla prassi esecutiva barocca, ha fatto sì che Accademia Bizantina, che dirige ormai da quasi vent’anni, si affermasse come uno degli Ensemble di musica barocca con strumenti antichi più noti ed accreditati nel panorama internazionale.  

M° Ottavio Dantone. Foto di Giulia Papetti

Lei è stato il primo italiano ad aver ottenuto riconoscimenti a livello internazionale in ambito clavicembalistico: qual è il suo rapporto con questo fatto? Si è sentito in qualche modo investito di una certa responsabilità nei confronti dello studio del clavicembalo in Italia, oppure l’ha vissuto con molta più serenità e spensieratezza?

All’epoca, quando ho vinto i miei primi concorsi erano gli anni ’80, ed è vero che gli italiani all’estero, con quel determinato genere musicale, non si erano ancora affermati come poi è capitato invece a partire proprio da quel momento con la nascita di gruppi barocchi come il Giardino Armonico e la stessa Accademia Bizantina, gruppi che negli anni successivi sono diventati un vero e proprio punto di riferimento anche a livello internazionale. Mi ricordo che quando ero ragazzo, in Italia, venivano spesso a suonare gruppi barocchi stranieri, e questi, suonavano anche il nostro repertorio italiano: nel nostro paese, purtroppo, non esisteva ancora una scuola di riferimento dedicata la musica antica. In effetti, posso dire di essere stato il primo a ottenere riconoscimenti nell’ambito della musica barocca e rammento che all’epoca questo fu per me di grande impulso e di grande soddisfazione, però devo ammettere che l’ho vissuta anche in modo abbastanza tranquillo, questo forse perché la mia attività non è stata solo quella di clavicembalista, gradualmente mi sono avvicinato alla direzione e ho cominciato a dirigere, all’inizio degli anni ’90, piccoli gruppi e orchestre, fino ad arrivare all’Accademia Bizantina. Certamente, l’aver primeggiato in quei concorsi è stato un risultato importante, ma lo posso considerare alla pari degli altri successi che in quegli anni hanno ottenuto quei gruppi di musica antica italiani che sono oggi considerati fra i migliori ensemble al mondo.  

Ormai è da circa 25 anni che lavora con l’Accademia Bizantina: in questo lungo periodo come è mutato, se è successo, il suo rapporto con la musica barocca? 

Beh, certamente il lavorare con lo stesso gruppo per tanto tempo è stata per me una scuola fondamentale, non solo ho imparato proprio a dirigere da un punto di vista puramente tecnico, ma ho imparato proprio la gestione del rapporto coi musicisti, la capacità di arrivare a ottenere un risultato e, soprattutto, un risultato d’insieme, ossia condividere un’idea musicale ed essere in grado di esprimerla insieme in maniera convincente. Questa è un po’ la scommessa: riuscire in un gruppo, anche dal punto di vista del direttore, a trovare un’armonia, un’intesa, un’intenzione, un’estetica, un suono, tutto quello che poi comporta la possibilità di poter raccontare agli altri. Quando si ha tutti un’idea molto unitaria, molto decisa, è più facile emozionare anche il pubblico; quindi col tempo ho visto che quest’importante aspetto si è andato sempre più rafforzando, nel senso che ormai posso dire che l’Accademia Bizantina è il mio strumento e io stesso sono lo strumento dell’Accademia, siamo come un unico organismo che pensa e agisce con le stesse idee e questa è un po’ la nostra forza attuale. Ovviamente nel tempo sono anche cambiati i musicisti dell’organico, ci sono state le consuete sostituzioni generazionali, oppure è anche successo di avere all’interno dall’Accademia bravissimi musicisti ma che purtroppo non riuscivano a integrarsi all’interno del gruppo, sia a livello umano che a livello musicale, come è normale che succeda. In un gruppo è importante non tanto avere un insieme di solisti o di geni, ma avere la capacità di sapersi fondere, sapersi unire, entrare in armonia con il resto dei musicisti. 

Accademia Bizantina. Foto di Giulia Papetti

Quale è il tipo di studio e di ricerca che compie tutte le volte che si avvicina a un nuovo brano? Sia prima di proporlo all’orchestra che dopo, insieme all’orchestra. 

Beh, è quello che sto facendo in questo momento, quando ho risposto alla tua chiamata stavo proprio esaminando una partitura di un autore oggi poco conosciuto che è Geminiano Giacomelli ma che all’epoca era molto noto. Io inizialmente lavoro sul manoscritto, lo leggo e cerco di compenetrarne il senso attraverso l’esperienza che ho sulla retorica musicale e sulla scrittura dei manoscritti, e cerco di capire il significato di quello che è stato scritto cercando, al tempo stesso, di trovare la soluzione più originale, sia dal punto di vista del pensiero d’autore, che da quello della creatività; il lavoro è questo: il rispetto del testo e poi, una volta assimilato il testo, la possibilità di aggiungere l’aspetto creativo. Successivamente con l’orchestra l’operazione diventa un vero e proprio scambio: io propongo all’orchestra quello che ho studiato e le varie soluzioni trovate e, se queste soluzioni sono accolte e funzionano, lo vedo subito, anche solo dal modo di suonare dell’orchestra, se mi accorgo che una soluzione viene assimilata in modo spontaneo, vuol dire di solito che è quella giusta. A volte però può anche capitare che la mia scelta musicale non ottenga il risultato sperato, questo per diversi motivi, magari anche perché non coincide con la sensibilità di tutti i musicisti, e allora cerco subito di trovare altre soluzioni. Però, posso dire che con il tempo siamo sempre più arrivati a una sorta di unità di pensiero tale che ormai io so già quello che funziona in orchestra e i musicisti sanno già come esprimere al meglio le mie idee. In orchestra la compartecipazione è tale che il lavoro diventa sempre più facile ma sempre molto stimolante, e soprattutto, è sempre bello: trovarsi insieme a lavorare davanti a nuovi brani è un momento eccitante ed estremamente creativo.    

L’Accademia Bizantina non si dedica solo alla musica barocca, vi siete di recente messi alla prova anche col repertorio romantico: com’è andata?  

Il fatto di affacciarci ad altri repertori serve per dimostrare che la musica antica non ha affatto una collocazione temporale rigida, ormai la musica dell’800 è musica antica, è stata scritta 200 anni fa… è vero che nell’800 l’estetica è cambiata radicalmente rispetto al secolo precedente per tanti motivi che adesso è complicato spiegare: è cambiato l’uomo, è cambiata la filosofia, sono cambiate tante cose ed è cambiata inevitabilmente anche la musica, però alcuni aspetti del passato sopravvivono a prescindere, sia nel comporre che nell’eseguire: molti segni rimangono invariati, certo, abbiamo davanti sicuramente un altro modo di scrivere, un’altra sensibilità, però affrontare la musica dell’800 senza tenere conto del secolo precedente può omettere degli aspetti molto interessanti. Nell’epoca romantica esistono ancora delle situazioni, delle soluzioni e dei gesti che sfuggono al passare del tempo, per cui, musicisti come noi, che si occupano di musica antica, quando si accostano al repertorio dell’800, tengono ovviamente conto di questi aspetti e ne risulta un esito un po’ diverso, sia dal punto di vista del suono che dell’articolazione, del linguaggio e della resa finale. L’affacciarci ad altri repertori vuole appunto dimostrare che l’esperienza e la coscienza estetica del passato in un repertorio moderno, producono effetti molto interessanti e stimolanti anche per il pubblico di oggi.  

Il 22 e il 23 gennaio al Teatro Comunale di Ferrara andrà in scena l’Orfeo di Monteverdi con la regia di Pier Luigi Pizzi: durante l’allestimento dell’opera qual è stato il suo rapporto con le scelte del regista? 

Io, ogni volta che dirigo un’opera, cerco di instaurare premeditatamente un rapporto con il regista molto stretto. Sostengo che mettere in piedi un’opera sia un lavoro di equipe, spesso molti direttori e registi lavorano in una prima fase separatamente e poi cercano di mettere insieme le scelte sceniche con quelle musicali, beh… secondo me così non funziona. Per me è veramente molto importante entrare subito in buona sintonia con il regista e lavorare insieme, devo anche dire che raramente ho avuto problemi coi registi, e quando, in alcuni rari casi, ho subodorato che l’estetica registica non sarebbe stata di mio gradimento o in accordo con me, ho cancellato semplicemente l’opera. Con Pizzi mi sono sempre trovato molto bene, forse anche perché ha un’estetica puramente barocca a cui fa sempre rifermento, anche quando allestisce con uno stile più moderno. Io sono molto presente durante le prove di regia e Pizzi, prima di compiere delle scelte, mi consulta sempre proprio per vedere se la sua scelta può funzionare nel complesso e se, per esempio, qualcosa secondo me non funziona, lui è disposto a cambiarla e, allo stesso modo, io sono disposto ad accogliere le richieste registiche. Questo modus operandi lo prediligo anche quando mi trovo a lavorare con altri registi, perché lo spettacolo è un laboratorio, è qualcosa che si costruisce insieme e bisogna in ogni modo cercare di andare incontro alle esigenze dell’altro. I contrasti, la non condivisione di un’idea, vanno risolti subito perché, è solo in questo modo che lo spettacolo può realmente funzionare. Con Pizzi mi sono sempre trovato benissimo fin da quando ho debuttato al Teatro alla Scala nel lontano 2004. 

Ottavio Dantone

L’Orfeo. Foto di Zani-Casadio

Se non sbaglio, lo spettacolo è stato inizialmente pensato per lo spazio aperto del Festival dei Due mondi di Spoleto, tuttavia, l’emergenza sanitaria vi ha costretto a ripensarlo per uno spazio più limitato: quali sono state le modifiche apportate?  

Eh, in questo caso il merito è stato della bravura di Pizzi! La competenza con cui ha utilizzato lo spazio teatrale non ha snaturato in nessun modo il senso dello spettacolo, Pizzi è riuscito a trovare delle soluzioni anche all’interno che in qualche modo richiamano chiaramente allo spettacolo pensato per Spoleto. È stato molto abile, basti pensare che a Spoleto, all’aperto, avevamo delle vere e proprie mura che facevano da scenografia, qui invece l’ha dovute ricostruire. Tra l’altro, per questo allestimento, il regista ha pensato di cambiare la conclusione a lieto fine che nel ‘600 possiamo dire era d’obbligo: Pizzi mi ha chiesto se era possibile concludere l’opera con l’invettiva e il rifiuto di Orfeo verso il genere femminile e un forte senso di solitudine in scena che è un po’, diciamo, più vicina a un’estetica moderna. 

Ottavio Dantone

L’Orfeo. Foto di Zani-Casadio

Ecco, infatti, il finale del vostro Orfeo lo possiamo definire “aperto”: Orfeo esce di scena senza né essere sbranato dalle Baccanti, né salvato da Apollo. Crede che il rappresentare il protagonista chiuso nella propria solitudine, nei propri dubbi e tormenti, sia un modo anche per rappresentare l’uomo di oggi? Un uomo che dopo due anni di pandemia si ritrova ancora spaesato e angosciato nell’incertezza? 

Assolutamente. Diciamo che questo finale aperto si sposa, casualmente, con la situazione di oggi, ma c’è da dire che un finale del genere non sarebbe mai stato accettato dal pubblico dell’epoca che esigeva l’ingresso di Apollo a sciogliere ogni problema. Ci sono anche altri casi illustri, come il Tancredi di Rossini per il quale il compositore marchigiano scrisse due finali, quello tragico, il più bello a parer mio, ma che all’epoca fu fischiato e quello a lieto fine. In realtà il finale de L’Orfeo nulla toglie al senso dell’opera che è precedente, questo perché nelle opere barocche tutto quello che deve avvenire, di norma, avviene prima della conclusione. La filologia di un’opera per me riguarda il linguaggio, la poetica, il modo di esprimere la musica, non la sua struttura, questa è una mia piccola polemica al fatto che a volte facendo dei tagli, alcuni puristi gridano allo scandalo, ma questo non dovrebbe creare scalpore, perché lo facevano anche all’epoca del compositore stesso, anzi, spesso un taglio può risultare una scelta molto filologica. 

Ottavio Dantone

L’Orfeo. Foto di Zani-Casadio

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