Un Fidelio in gondola

Il capolavoro di Beethoven inaugura la Fenice

Il Teatro La Fenice inaugura la sua nuova, bella stagione (con tutti gli scongiuri del caso) mettendo in scena Fidelio di Ludwig van Beethoven, affidato alla bacchetta del direttore più amato dalla Fenice, Myung-Whun Chung. L’opera ha aperto le danze il 20 novembre, ma di questa produzione ho assistito all’ultima recita, il 30 dello stesso mese. Che Chung sia amatissimo dal teatro e dai suoi avventori lo si capiva d’altronde fin dall’ingresso del direttore e dagli scroscianti applausi che hanno preceduto e seguito la Leonore n. 3. Questa era posta in luogo dell’ouverture Fidelio scelta da Beethoven per la versione del 1814 dell’opera, quella utilizzata per questa recita, una scelta personale ma decisamente non senza precedenti. L’orchestra veneziana reagisce sempre benissimo sotto le mani di Chung, il suono è imponente e sagomato e pur senza suonare estremamente tedesco, il respiro sinfonico di questo di poema d’apertura era ben chiaro. Urla e cori di “bravo” prima ancora che si alzasse il sipario.

 

Chung durante la generale di Fidelio.

 

Il resto dell’opera, però, non ha mantenuto le promesse. Partiamo dal primo impatto: la regia. Joan Anton Rechi ambienta l’opera nella Valle dei Caduti, monastero costruito dai prigionieri politici dopo la guerra civile spagnola. Un’idea di per sé anche buona, se non fosse che con difficoltà si coglieva senza andare a recuperare il libretto di sala (che ricordo essere a pagamento). Al centro del palco capeggiava la grande testa di una scultura parte dei lavori in corso al monastero, ma che faceva pensare di più ad un sito archeologico e che intralciava notevolmente i goffi movimenti sulla scena, costretti a inseguirsi sui lati o schiacciati sul proscenio. Meglio quando, roteando, il collo della testa si trasformava nell’ingresso per i sotterranei, dando al contempo la possibilità di far entrare o uscire i personaggi di scena. Molto meglio le prigioni, molto di impatto e ben realizzate. In generale, però, l’intera regia non arrivava al dunque e in diversi gesti sembrava addirittura abbozzata. Faccio un esempio: il finale era molto suggestivo con il faro alle spalle di coro e solisti, ad illuminare la platea, ma quando tutti i personaggi si allontanano per lasciare Leonora sola per il finale, la luce del faro si fa accecante e dev’essere spento. L’effetto è di un climax mancato, perché proprio sul finale la luce viene a mancare e si torna alla generica illuminazione precedente. Questo si potrebbe ovviare in molteplici modi, magari proprio giocando sulle luci, ma l’idea sembrava proprio buttata un po’ lì in chiusura, senza pensarla bene fino in fondo. Ciò che però mi ha più disturbato è stata proprio l’interpretazione del regista.

 

Leonore/Fidelio di fronte alla grande testa.

 

Quando entra in scena Don Fernando, momento finalmente pacificatore e risolutore, la prima cosa che Rechi gli fa fare è ordinare un pestaggio selvaggio di Don Pizarro, con successiva condanna a morte. Scende pure un cappio a fondo scena, con un gusto un po’ dubbio. Come potrebbe Don Fernando, simbolo di giustizia, mai comportarsi così nella visione di Beethoven? È questo uno dei principali rischi di ambientare l’opera in un contesto storico, che può forse spingere il regista a vedere in Don Fernando i suoi lati oscuri. Ognuno abusa del suo potere, dipende solo da che lato ti trovi della storia. Peccato che in Beethoven questi personaggi siano incarnazioni di puri ideali, non personaggi storici, già a partire da Leonore/Fidelio, senza ovviamente considerare lo stesso Florestan, il nobile che combatte per la verità. Questo aspetto è stato completamente ignorato nella lettura di Rechi, che non ha brillato nel dare una forte caratterizzazione ai personaggi.

 

La scena finale, con l’inquietante cappio che scende per giustiziare Don Pizarro

 

Personaggi che non hanno brillato anche per il cast non eccelso. Oliver Zwarg è un buon Don Pizarro, vocalmente funziona abbastanza bene, ma poi non trova il carattere del personaggio, sembra volerne dare una lettura quasi isterica, ma poi non porta fino in fondo quest’idea, rimane piuttosto in superficie, canta la sua parte. Un po’ meglio Bongani Justice Kubheka, il cui nome centrale era particolarmente adatto per il ruolo di Don Fernando e che infatti funziona, fa il suo dovere e e con bella voce, ma nelle poche battute a sua disposizione non scende in profondità nello spessore morale del personaggio. La Marzelline di Ekaterina Bakanova migliora scaldandosi, ma parte un po’ in difficoltà sulla parte e non precisa come intonazione, mentre molto bene il Jaquino di Leonardo Cortellazzi. Molto in difficoltà il Florestan di Ian Koziara, che semplicemente non ha le note. La celebre (e infame) aria di Florestan che apre il secondo atto era partita con un bellissimo crescendo sul primo “Gott!”, ma poi peggiora rapidamente e la voce si rompe impietosamente sulle ultime note, spinte fuori con enorme fatica. Le parti successive sono meno esposte, ma il risultato complessivo non salva l’esordio.

 

Fidelio

Florestan nelle segrete

 

Buona la Leonore di Tamara Wilson, non molto sottile nelle agilità, ma dotata di uno strumento potente. Forse anche troppo potente, portato troppo spesso fino al limite, anche quando ben meno volume sarebbe stato necessario, a favore di maggiori sfumature umorali, saltando dall’intimo all’eroico. Veramente ottimo, invece, il Rocco di Rilmann Rönnebeck, il migliore di tutta la serata. Il suo Rocco le aveva tutte, era accorato, onesto, un uomo pratico, buono ma che in fondo deve pur sempre fare i conti con la realtà di tutti i giorni. Tra i battibecchi amorosi di Marzelline e Jaquino e lo scontro di ideali della coppia Florestan/Leonore e Pizarro, Rönnebeck è riuscito a creare un ponte, permettendo anche allo spettatore in sala di identificarsi nel personaggio. Bene i due prigionieri, Dionigi D’Ostuni e Antonio Casagrande.

 

Fidelio

Lo scontro Pizarro-Leonore, mentre dietro assiste Rocco

 

A completare l’impressione poco entusiasmante di questo Fidelio lo stesso Myung-Whun Chung, che dopo la buona Leonore d’apertura si concentra sull’omogeneità dell’orchestra (ben riuscita), ma non si spinge molto più in là. Plateali poi gli scollamenti tra palco e buca, che nel finale si fanno particolarmente pesanti quando, in un vorticoso accelerando, il coro cerca da un lato di seguire il direttore, dall’altro di pronunciare tutte le parole e incespica rimanendo gradualmente sempre più indietro. Peccato perché il coro diretto da Claudio Marino Moretti ha invece dato una splendida prova, con particolare attenzione al coro maschile, segno dell’attento lavoro fatto dal direttore sul coro nel corso degli ultimi anni. Applausi per tutti (alcuni più convinti di altri), quasi una standing ovation per Chung e Moretti, ora si attendono Le baruffe di Battistelli, in prima rappresentazione assoluta a febbraio.

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