"Qui nella torre" di Daniele Carnini: raccontare in musica gli Hikikomori

Intervista al compositore Daniele Carnini, autore di "Qui nella torre", atto unico dedicato al mondo degli Hikikomori in scena al Teatro Torlonia

Martedì 30 novembre andrà in scena presso il Teatro Torlonia di Roma Qui nella torre, la nuova opera di Daniele Carnini su libretto di Renata Molinari, proposta all’interno del 58° festival di Nuova Consonanza. Al centro dell’opera in un solo atto per voce femminile, pianoforte e violoncello c’è la tematica degli Hikikomori, persone che decidono di abbandonare i contatti con il mondo esterno per ritirarsi in isolamento. L’esecuzione sarà affidata all’Hemisphaeria Trio, formato dal soprano Damiana Mizzi, il violoncellista Roberto Mansueto e il pianista Marcos Madrigal. Per l’occasione abbiamo incontrato Daniele Carnini, curiosi di conoscere più a fondo l’intero progetto. 

Daniele, le tue opere musicali toccano quasi sempre temi civici: la sopraffazione dell’uomo sulla donna ne La stanza di Lena (2013), la guerra in Un eroe (2015), o le vicende connesse al personaggio di Aldo Moro in Un’infinita primavera attendo (2016). Questa volta hai scelto di raccontare in musica gli Hikikomori, adolescenti o giovani adulti che volutamente si allontanano dalla vita sociale. Cosa ti ha condotto alla scelta di questo soggetto?

In primo luogo, l’idea è nata grazie al mio rapporto con gli interpreti dell’ Hemisphaeria Trio e la librettista Renata M. Molinari. I tre musicisti del Trio, molto affermati sia singolarmente che nell’insieme, mi hanno chiesto di scrivere un brano per la loro formazione. Inizialmente pensavo a qualcosa che si legasse ancora al tema della violenza o della guerra, poi Renata Molinari mi ha proposto gli Hikikomori come soggetto di una storia. L’idea mi è piaciuta subito, eccellente e perfetta per l’organico: un solo personaggio, pochi strumenti, scena unica…

Non si parla di guerra, è vero, ma il tema della violenza non è assente dalla storia.

Infatti, perché nonostante Andrea (nome scelto appositamente per indicare sia una persona di sesso maschile che femminile) viva chiuso nella sua camera, è travolto da pulsioni di aggressività e prevaricazione verso l’altro che si espletano nella sua partecipazione ad una sorta di videogioco online: il questo modo, il rapporto con la realtà virtuale si ripercuote sul personaggio reale, generando ancora una volta una storia di violenza. Tipiche del pensiero della Molinari sono questa dialettica del ‘dentro-fuori’, la tendenza al mito e a generare una storia che possa essere a suo modo valida per tutti. La vicenda di Andrea va letta andando oltre la realtà del singolo.

La collaborazione con la scrittrice e drammaturga Renata Molinari è, del resto, una costante della tua produzione legata all’opera.

Si, questa è la nostra terza collaborazione. Il nostro lavoro è maturato negli anni, anche se siamo molto diversi. Lavoriamo molto bene insieme perché sappiamo di procedere verso la stessa meta, anche se partendo da versanti opposti. Renata è una persona di un intelletto superiore, ha aperto una ricchissima biblioteca teatrale a Bagnacavallo in provincia di Ravenna, intitolata la Bottega dello sguardo. Proprio lì abbiamo parlato di quanto entrambi non possiamo fare a meno del teatro.

 

 

Torniamo a Qui nella torre. Cosa caratterizza l’opera dal punto di vista musicale?

Si tratta innanzitutto di un lavoro in un solo atto, una rappresentazione semi-scenica che dura circa mezz’ora. La musica si muove attraverso quattro scene che sono intervallate da due intermezzi, che rappresentano una pausa più musicale che teatrale. La vocalità è al centro di Qui nella torre: musicalmente, mi interessa un pensiero più direzionale e orizzontale che non statico o verticale. Credo che il canto possa ancora essere il fulcro dell’opera musicale, il vettore di una storia senza risultare oggetto da museo. Ma, chiaramente, escludo qualsiasi operazione di nostalgico recupero.

Passiamo adesso al libretto dell’opera. Leggendolo, mi risulta chiara la contrapposizione tra la solitudine di Andrea, che interagisce con il mondo esterno solo attraverso la competizione spietata di un videogame online, e la vita in gruppo dei suoi coetanei, fatta di passeggiate e tempo libero. È la rappresentazione di quella dialettica del ‘dentro-fuori’ a cui hai accennato prima, che si fa ancora più attuale soprattutto considerando il vissuto della pandemia negli ultimi due anni …

Premetto che l’opera è stata concepita ancor prima della pandemia, è una creazione indipendente da questo evento. Forse, però, niente avviene per caso… mi sembra che la pandemia abbia infatti solo accelerato dinamiche già esistenti nella nostra società, toccate anche in Qui nella torre. Uno dei danni più gravi lasciatici dalla pandemia, specialmente nei primi mesi del 2020, è stata la compromissione del senso di comunità. Ricordo di aver scritto dei pezzi per coro in quel periodo, proprio per esigenza di ribellarmi a questo scenario. La comunità è un equilibratore: se non ci confrontiamo con l’altro rischiamo di perdere la misura di chi siamo. La società esiste per non essere lasciati a noi stessi al punto da non sapere più che cosa è bene o male… da questo punto di vista, la vicenda di Andrea è purtroppo attuale e dolorosa, non c’è dubbio.

Forse, andando più a fondo, la ‘torre’ di Andrea rappresenta l’aspetto estremo di una società in cui gli alti livelli di competizione, in ogni campo della vita, potrebbero spingerci tutti ad essere – per riprendere Hobbes – «homo homini lupus», ciascuno dalla sua ‘torre’… è possibile intravedere nell’opera anche questo tipo di messaggio?

L’idea di Hobbes come allegoria della condizione attuale funziona, ma ammetto che non ci è venuta subito. Più che la diffidenza, ad ingannare Andrea è il suo fallace senso di autosufficienza: la sua superba rinuncia alla comunità, il suo sentirsi di vivere una vita più intensa e meno banale nascondono infatti un grande pericolo, che non riguarda solo gli adolescenti. I traguardi immaginari che ci poniamo di continuo nelle nostre vite possono essere, specialmente su delle menti non strutturate a sufficienza, pericolosissimi: sono quindi pienamente d’accordo su questa lettura dell’opera estesa al contesto della nostra società attuale.

 

 

 

Vorrei farti adesso qualche domanda sul presente dell’opera musicale, che credo sia il genere compositivo da te prediletto. Hai detto che «i principi della tradizione operistica sono ancora vitalissimi per fare teatro in musica», e che «l’opera può ancora raccontare con i suoi mezzi peculiari la realtà». Secondo te, come si rapportano proprio quei mezzi peculiari dell’opera alla realtà dell’ascoltatore contemporaneo? Mi spiego meglio: oggi siamo abituati ad avere accesso in pochi secondi ad un enorme patrimonio musicale, scegliere di saltare da una traccia all’altra, e forse in questo eccesso anche la nostra modalità di ascolto è cambiata rispetto al passato…

Innanzitutto, la mia sfida è provare a raccontare una storia attraverso le dinamiche tipiche dell’opera, quindi con un tempo che si dilata o abbrevia a seconda delle esigenze della voce. Oggi abbiamo a disposizione cantanti che hanno studiato per riprodurre le vocalità dell’opera di tradizione, capaci di fare meraviglie, e credo che il loro patrimonio tecnico possa essere ancora funzionale ai nostri giorni.Tuttavia, sorge un problema: di fronte a questo grande potenziale canoro, si sceglie o di allontanarsi dall’opera stessa, percorrendo la strada rispettabilissima di un teatro in musica che adoperi, ad esempio, voci recitanti ed elettronica – strada che, nonostante gli ottimi risultati storicamente raggiunti, non sento mi appartenga – , oppure spesso ci si rifugia in uno stile troppo tradizionale, più commestibile ma difficilmente referente della società che ci circonda… nel mio caso, tento di fare l’opera del presente con i suoi mezzi peculiari. Ovviamente non sono il solo a pensarlo, ma credo che il canto possa essere adoperato in maniera che non paia rétro.

Cosa è veramente imprescindibile, in questo tuo processo creativo?

Cerco di dire sempre cose che mi stanno particolarmente a cuore. Ad esempio, nel caso di Un’infinita primavera attendo non mi interessava solo parlare della storia di Moro, ma rendere anche l’ambiguità della parola, della comunicazione. Non mi interessano solo i temi civili, ma anche il loro portato universale, come abbiamo prima detto a proposito di Qui nella torre.

Come ti sembra che reagisca il pubblico a queste scelte?

Credo che se gli autori di un’opera avvertano l’urgenza di trattare un tema che li riguardi personalmente come uomini o esseri umani, come cittadini o componenti della società, e se lo esprimano in maniera plausibile, allora troveranno del pubblico. Come diceva il grande musicologo e amato maestro Pierluigi Petrobelli, «Il teatro in musica è quella cosa da cui, una volta entrati, non si può più uscire». In tutte le generazioni, anche quelle giovani e quelle future, si trova un nocciolo di persone privilegiate che hanno saputo o sapranno entrare nel labirinto: dal quale non uscirebbero per tutto l’oro del mondo.

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