Luganskij e la poetica dell'inverno russo

Intervista con il grande pianista russo.

Nikolaj Luganskij non ha bisogno di introduzioni. La fama del pianista russo è naturale conseguenza del totale dominio che Luganskij ha non solo della tastiera, ma anche della partitura. Avevo potuto conoscere il pianista a Verbier, quest’estate, ma il suo concerto per gli Amici della Musica di Padova è stato l’occasione di approfondire la sua visione musicale, partendo proprio dal programma: le Sonate op. 27 n. 2 e op. 31 n. 2 di Beethoven (le celebri Chiaro di luna e Tempesta), inframezzate dal Preludio, Corale e Fuga di Cesar Franck e in chiusura una selezione dalle Études-Tableaux op. 33 e op. 39 di Rachmaninov.

Si parte da Beethoven, si prosegue con Franck, si arriva a Rachmaninov. Questo programma è un viaggio dalla nascita al tramonto del Romanticismo? Beethoven è dunque un padre del Romanticismo, per te?

In realtà non mi hanno mai convinto del tutto queste suddivisioni stilistiche. In tutto avremo dai 25 ai 30 grandi geni nella storia della musica: di ognuna di queste figure, più scendiamo in profondità, più ci rendiamo conto che non apparteneva a questa o quella corrente stilistica, ma seguiva la propria stessa personalità. Ciò che invece può unire le tre figure del mio programma è molto più semplice che un’idea o una corrente: la musica di questi autori non può più essere suonata su uno strumento più antico del pianoforte. Se prendiamo un clavicembalo o un clavicordo, come ai tempi di Bach e ancora in uso a quelli di Mozart, e proviamo a suonare la Sonata op. 27 n. 2, non ci riusciamo. Dunque sono autori ‘moderni’, nel senso che usano uno strumento nuovo, ma è forse l’unica categorizzazione che farei. Dividere i compositori tra ere e stili mi sembra veramente primitivo e persino banale. Le differenze tra Mozart e Haydn sono abissali e per me questa differenza è molto più interessante, rispetto a quella tra, per dire, Classicismo e Romanticismo.

 

Nikolaij Luganskij nel ritratto di Marco Borggreve.

 

Ogni autore è dunque un universo a sé?

In un certo senso sì! Per quello spesso i grandi compositori non riuscivano ad accettare facilmente la musica dei loro colleghi, è come se non potesse credere che qualcuno oltre a lui possa scrivere della musica! L’unica eccezione, tra i grandi, è chiaramente Franz Liszt, l’unico che si è speso costantemente per promuovere la musica di autori a lui contemporanei, tra cui Chopin, Schumann, Wagner, Glinka. Poi, chiaro, ci sono delle radici in comune tra diversi autori. Tornando al mio programma, è ovvio che né Franck, né Rachmaninov avrebbero potuto scrivere la loro musica senza Beethoven, che per entrambi era una delle colonne del linguaggio musicale.

Hai detto che per Beethoven, Franck e Rachmaninov, uno dei pochi tratti in comune è l’aver scritto pensando al pianoforte. Che ruolo hanno dunque le influenze extra pianistiche?

Per queste due Sonate si assiste ad una netta maturazione del linguaggio pianistico di Beethoven. Anche qui, le suddivisioni in periodi creativi per un autore valgono fino ad un certo punto: la Chiaro di luna dovrebbe essere un lavoro tutto sommato giovanile, ma la temperatura incandescente, la passionalità accesa, si vede che ormai si va verso un altro carattere e soprattutto si capisce che Beethoven inizia a scrivere per una nuova epoca del pianoforte. Molto del primo Beethoven pianistico può essere agilmente suonato da un quartetto d’archi, con qualche accorgimento. Pensiamo alla seconda o alla terza Sonata. Ma l’op. 27 n. 2 non più. Non solo il primo tempo, ma anche il finale sono fatti e pensati sulla tastiera e per le potenzialità della tastiera. E chiaramente del pedale. Ci sono alcuni autori che al pianoforte hanno sviluppato un loro idioma personale, non trasportabile su altri strumenti: Chopin, Liszt, Rachmaninov, anche Albeniz. Chiaramente puoi fare trascrizioni di questi brani, ma operando grandi trasformazioni nella sostanza. Questa sostanza musicale, per molti lavori di Mozart o del primo Beethoven, rimane invece fondamentalmente invariata se la suonassimo con un quartetto o un’orchestra. Questo già non si può più dire di Tempesta e Chiaro di luna.

 

 

E qual è invece il cuore del linguaggio di Franck?

Per me è il rapporto con il sacro. Molti compositori hanno scritto musica sacra, molti hanno avuto intense relazioni con il sacro e con la religione, ma se penso alla musica che hanno scritto, per me sono Bruckner e Franck i compositori in cui il sacro è più importante, è più sentito. Persino più che in Bach. In Bach, la religione è una cosa di tutti i giorni, fa parte della vita. Per Franck e Bruckner è una vera passione, è un sentimento intenso per il divino, intimamente connesso con la fede cattolica. Questo aspetto emerge con chiarezza quando si suona la musica di Franck: si sente l’attenzione all’anima, si sente la ricerca per ciò che è divino e la trasformazione nel percorso verso il paradiso. Prendiamo i due grandi cicli: in Preludio, Aria e Finale c’è questo aspetto, ma qui il percorso è più chiaro, capita raramente che l’anima imbocchi la strada sbagliata. Nel Preludio, Corale e Fuga, questa ricerca è più sofferta, le forze che ti distolgono dalla via sono molte e forti, in particolar modo nella fuga, e solo alla fine l’anima trova la strada per un “oltre”. Il risultato è molto drammatico e l’effetto sul pubblico è grandioso: non a caso questo è un grande pezzo da concerto. Ma queste caratteristiche le troviamo in gran parte della produzione di Franck. Da giovane suonavo molto la sua musica da camera, intorno ai 14 anni suonavo spessissimo la Sonata per violino e il Quintetto. E anche qui questo tendere verso il Bene è molto importante, questo conflitto maggiore/minore, il viaggio dall’oscurità alla luce, dal peccato alla purezza. Con Rachmaninov, ovviamente siamo in un altro mondo, ma era anche di un’altra confessione!

 

Luganskij fotografato da Nikita Larionov

 

Qual è l’universo delle Études-Tableaux?

Ogni studio in realtà è un po’ un mondo a sé. Per questo, pur potendoli suonare come ciclo, non è necessario come è, ad esempio, per i Preludi op. 28 di Chopin. Qui, ogni Étude è un frammento di Russia, della natura russa, della vita russa. Pensiamoci: cosa rende così diversa la Russia dall’Italia? Non la politica, non il senso di democrazia e di autorità, no, è la natura, che trasforma radicalmente non solo l’economia, ma proprio il modo di vivere e di percepire il mondo. Ad esempio, in Russia le differenze tra stagioni sono molto marcate. L’Italia è forse il Paese più bello del mondo, ma cos’abbiamo noi che qui non c’è? Beh, la sensazione fisica che tutto stia morendo. Già a novembre questo sentimento è fortissimo, man mano che guardi la natura che ti circonda. Certo, l’inverno può anche riservare grandi gioie: penso a quando abbiamo un inverno normale, intorno ai -10 gradi, cade tanta neve e puoi sciare, puoi giocare, puoi goderti la neve. Ma appena osservi gli alberi, è tutto spento, è tutto morto. Poi, a marzo, inizi a sentire la vita che torna, è una sensazione fisica, davvero! Certo, anche in Scandinavia ci sono cose simili, ma lì c’è il mare. Forse solo in Canada ci sono alcuni punti in cui puoi trovare la stessa atmosfera che trovi in Russia, ma solo in alcuni posti. E le Études-Tableaux attingono a questa atmosfera e la trasformano in musica utilizzando unicamente le risorse del pianoforte solista. Non si possono veramente pensare per altri strumenti. Anche se il tuo compatriota, Ottorino Respighi, ne ha orchestrati cinque!

E funzionano!

Certo, perché Respighi era un genio!

Non è solo questo: certo, Rachmaninov scriveva magnificamente per pianoforte, ma c’è sempre una ricerca di colori, una densità quasi orchestrale nel modo in cui tratta lo strumento, pur senza mai allontanarsi da una scrittura perfettamente ritagliata sui tasti e sulle mani dell’interprete.

Questo anche perché Rachmaninov, quando scrive le Études, ha già pubblicato alcuni dei suoi principali capolavori orchestra, come la Seconda Sinfonia, l’Isola dei morti e la cantata Le Campane. Ma già se guardiamo all’orchestrazione del Terzo Concerto ci troviamo di fronte ad un capolavoro. D’altronde, però, è più facile trovare tanti colori quando scrivi per un’orchestra sinfonica, che non con solo un pianoforte. Un autore meno geniale di Rachmaninov avrebbe senza dubbio più successo a scrivere per orchestra, anche perché il tipo di genialità che serve è estremamente specifica e richiede di essere veramente dentro le possibilità dello strumento. Non ce ne sono molti nella storia della musica e li ho citati prima: Chopin, Liszt, Rachmaninov, ma anche Metner e Skrjabin e ovviamente Albeniz, che aveva un suo linguaggio pianistico personalissimo.

 

 

Hai menzionato Albeniz già un paio di volte. È un autore che ti è particolarmente caro?

Non so se potrei dire che mi è caro, ma sicuramente lo includo in quel ristretto gruppo di grandi geni di cui ti parlavo prima. E quando parliamo di storia del pianoforte, allora Albeniz è veramente importantissimo.

Perché?

Perché è stato capace di trovare dei colori strumentali che nessuno aveva anche solo potuto pensare. Pensiamo a Rachmaninov, chi avrebbe potuto immaginare che un purissimo accompagnamento potesse essere così ricco, così bello? E prima di Albeniz, queste intuizioni timbriche, queste influenze chitarristiche che, è assurdo, funzionano incredibilmente bene al pianoforte, nessuno avrebbe potuto pensare che si potessero realizzare questi effetti. E poi ovviamente il pedale, che ognuno dei musicisti che ho citato ha immaginato in un modo radicalmente diverso. Questo è perché, ovviamente, tutti gli autori che ho menzionato erano in primo luogo pianisti anch’essi e queste intuizioni nascono direttamente dal contatto con la tastiera, attraverso una connessione fisica e logica tra l’autore e il suo strumento. E in questo sta un’altra differenza tra Beethoven e, ad esempio, Rachmaninov: in Beethoven ogni tanto si percepisce chiaramente che alcune idee nascono dall’astrazione e poi trovano la loro strada sulla tastiera.

 

Nikolai Lugansky, sempre dietro l’obiettivo di Marco Borggreve

 

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