'Pagliacci' di Ruggero Leoncavallo: verismo oppure no?

Un'attenta analisi del linguaggio del Pagliacci di Leoncavallo ci può far comprendere che non si tratta di un'opera propriamente verista

Si è soliti identificare un compositore della Giovane Scuola come un compositore di opere veriste. Il caso più comune è senza dubbio Pietro Mascagni con la sua Cavalleria rusticana. In realtà solo poche opere di musicisti come Leoncavallo, Giordano e Puccini possono dirsi effettivamente veriste.

Se si pensa a Pagliacci, e in particolare al prologo dell’opera, si ha la forte impressione di essere calati nella corrente letteraria di cui Verga fu il massimo esponente. Tuttavia, il linguaggio di quest’opera, soprattutto, può indurre a pensare che non sia propriamente verista. Da una parte c’è Tonio, che, autoproclamandosi “Prologo” in persona, allude al tranche de vie che l’autore intende portare sulla scena, un fatto di vita autentico, a cui lo stesso da bambino aveva assistito («Un nido di memorie in fondo a l’anima / cantava un giorno»), in un contesto assai umile, quale il paese di Montalto nella Calabria di fine Ottocento. Dall’altra c’è il linguaggio utilizzato nel corso dell’opera, come le parole di Nedda durante il primo atto, parole dalla forte reminiscenza leopardiana:

Stridono lassù liberamente

lanciati a vol come freccie, gli augel. […]

Ma i boemi del ciel seguon l’arcano

poter che li sospinge… e van!… e van! (I,2)

oppure come nell’ultima aria di Canio alla fine del secondo atto:

Ma il vizio alberga sol ne l’alma tua negletta;

tu viscere non hai… sol legge è ’l senso a te!

Va’, non merti il mio duol, o meretrice abbietta. (II,2) 

Il linguaggio di cui si serve Leoncavallo per mezzo dei suoi personaggi non sempre rispecchia i costumi verbali di un italiano meridionale di ceto sociale basso alla fine del XIX secolo. Non si può sicuramente affermare che l’operazione linguistica operata da Verga trovi un riscontro in Leoncavallo.

D’altra parte, il rapporto testo-musica già presente nel prologo fa sì che le intenzioni veriste dell’opera finiscano comunque in primo piano, come accade quando Tonio canta:

Poiché in scena ancor le antiche maschere

mette l’autore, in parte ei vuol riprendere

le vecchie usanze, e a voi di nuovo inviami.

Tonio si è presentato in proscenio con il costume da Taddeo e ora manda al pubblico un riferimento lampante alla commedia dell’arte («le antiche maschere»). Il personaggio è incaricato di avvertire il pubblico che la vicenda a cui si sta per assistere è puramente una finzione. Subito, però, il prologo intraprende un’altra direzione:

Ma non per dirvi come pria: “Le lacrime

che noi versiam son false! Degli spasimi

e de’ nostri martir non allarmatevi!”

Dunque, viene messo in chiaro sin da subito che la vicenda non appartiene alla commedia dell’arte. O meglio, quest’ultima diventa uno strumento prezioso di cui Leoncavallo si serve nel corso del dramma per paragonare le vicende di Pagliaccio e Colombina a quelle di Canio e Nedda, tra le differenze che separano realtà e finzione, attori e personaggi. Se, dunque, nella finzione Pagliaccio si sarebbe vendicato, nella realtà la storia finisce diversamente, poiché, come lo stesso Canio sottolinea, «il teatro e la vita non son la stessa cosa» (I, 1).

Tonio annuncia implicitamente quale sarà il finale dell’opera: «Dunque, vedrete amar sì come s’amano / gli esseri umani; vedrete de l’odio / i tristi frutti. Del dolor gli spasimi, / urli di rabbia, udrete, e risa ciniche!». Quello che omette di dire è che egli stesso è responsabile delle sorti della vicenda. Non a caso Leoncavallo vuole che durante il prologo esso sia vestito da Taddeo: il personaggio della commedia dell’arte che Tonio interpreta è, nella tradizione, lo scemo che conosce i fatti ed è in grado di manipolarli. Difatti, è proprio grazie a Tonio che il finale dell’opera si realizza, sarà lui a far sapere a Canio della relazione extraconiugale di Nedda e ad influenzarlo. Alla fine, sarà sempre lui a dare a Canio il coltello per uccidere la moglie e l’amante, e a pronunciare le ultime parole dell’opera: «La commedia è finita», tradizionalmente, però, enunciate dall’omicida.

Tonio è, dunque, un regista, una sorta di Dr. Hinkfuss, che però manda avanti la vicenda, non la interrompe.

Nonostante momenti calati nell’atmosfera fin de siècle, come il duetto di Nedda e Silvio (I,3), o il lessico a tratti decisamente elaborato, l’opera sembrerebbe comunque inserirsi nel contesto verista.

L’autore ha cercato invece pingervi

uno squarcio di vita. Egli ha per massima

sol che l’artista è un uom e per gli uomini

scrivere ei deve. Ed al vero ispiravasi.

C’è però da dire che le melodie ampie e maestose tradiscono lo «squarcio di vita» che Leoncavallo stesso intendeva portare in scena. Ad esempio, la conclusione del coro iniziale del secondo atto, sulle parole «Ah! S’alza la tela! / Silenzio! Olà!» (II,1), è caratterizzata da una grande dilatazione del tempo musicale e la parola «silenzio» viene cantata in modo trionfalistico e poco veritiero. Dal momento che Leoncavallo avrebbe potuto dare una conclusione più netta, seguendo il senso della parola, ma decide di non farlo, è possibile che avesse volontariamente portato in scena un sinfonismo ancora tardoromantico in un’epoca di crisi del melodramma.

In questo senso, la musica di Pagliacci non è oggettiva come quella di una Carmen di Bizet. È evidente che in Pagliacci c’è, non solo nella musica, ma anche nel libretto, l’intervento dell’autore, dunque l’opera nel complesso non sempre risulta impersonale. Pagliacci non è un’opera che, per dirla con Verga, sembra «essersi fatta da sé». Ciò risulta estremamente chiaro a partire proprio dal prologo, quando Tonio/Taddeo narra la vicenda prendendo chiaramente le distanze dall’autore, e in parte anche dal suo personaggio. L’autore viene nominato, come viene menzionato il processo creativo che ha portato all’opera. Leoncavallo fa sì che l’opera venga presentata da uno degli attori che è in procinto di metterla in scena, scelto in base alla simbologia legata al suo personaggio. Quella del prologo sembra più una riflessione fatta a posteriori dall’attore stesso.

La mano dell’autore, dunque, è presente, ma riporta gli eventi di un soggetto verista in modo tradizionalistico per l’opera. Il soggetto, il «nido di memorie», è ripreso da un fatto di cronaca, ma viene narrato in modo non impersonale. Si tratta, dunque, di una sperimentazione letteraria-musicale in un contesto che troppo ancora risente della tradizione.

Luca Pergolotti

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