Più che’l mestier poté la vocazione. Un ricordo (personale) di Antonio Rostagno

di Emanuele Franceschetti

Due settimane fa se n’è andato Antonio Rostagno, docente di Musicologia e Storia della musica all’Università La Sapienza di Roma. Difficile – e forse non così utile, in questa sede – proporre un bilancio della produzione scientifica di Rostagno e delle sue attività di accademico e ricercatore. E, più che esaustivo (umanamente e, per l’appunto, ‘curricolarmente’), è stato il ‘ritratto’ offertone dalla professoressa Susanna Pasticci e radiotrasmesso all’indomani della scomparsa di Rostagno. Quanto scelgo di affidare alle pagine di «Quinte Parallele» è, invece, un ricordo di getto, deliberatamente personale e quindi scarsamente sistematizzante, e al contrario volutamente rapsodico e marcatamente soggettivo.
Antonio Rostagno, oltre ad essere stato mio docente nel biennio di specializzazione musicologica, è stato uno dei miei amici più cari. L’avevo conosciuto nei primi giorni dell’Ottobre 2014. Dopo un triennio di studi letterari e linguistici nelle Marche (la regione da cui provengo), avevo deciso di tentare la strada del musicista a tempo pieno (in ambito jazzistico), che in qualche modo percorrevo già da anni, in virtù di qualche capacità tecnica in tal senso. Un fallimento mal rielaborato nella realizzazione di tale progetto mi aveva suggerito per la prima volta la possibilità di incontrare ‘la Musicologia’. Conoscevo tre o quattro opere a memoria, mi occupavo di poesia e letteratura, continuavo a praticare quotidianamente gli studi chitarristici e la pratica dell’improvvisazione jazzistica. Ma non avevo mai conosciuto le seduzioni dell’estetica musicale, della drammaturgia, della filologia, degli studi culturali applicati alla musica. In quel giorno di Ottobre, Rostagno mi aveva accolto per un colloquio preliminare nel piccolo studio dei musicologi, al quarto piano del palazzo di Lettere e Filosofia della Sapienza, a Roma. Cordiale, misurato, concentratissimo e sorridente.
La consapevolezza di avere (per una volta) azzeccato una mossa arrivò per me poche settimane dopo, quando scelsi di seguire un suo corso per gli studenti del triennio: drammaturgia musicale del Novecento, da Puccini ai Pink Floyd. L’aula Pirrotta era sempre strapiena, e chi conosce le geometrie del ‘piano alto’ del palazzo di Lettere sa bene che ‘strapiena’, in quel caso, significa spazi impraticabili, scontri rugbystici tra gli ingressi e la biblioteca, corpi affastellati.
Ascoltare Antonio, in quei mesi, fu rivelatorio. Nel raccontare i lavori operistici di Puccini, Strauss, Britten, Ligeti (etc.), Rostagno dimostrava una capacità comunicativa ed affabulatoria fuori dal comune. Riusciva a convincerci, con un’energia rarissima, che quelle strutture così complesse attraverso cui il linguaggio musicale (a sua volta complesso e scarsamente decifrabile per molti studenti digiuni di musica) e letterario si fanno ‘azione’ e ‘teatro’ non erano soltanto lo scheletro nascosto di un accadimento scenico: ma erano, al contrario, i mezzi con cui ‘velare e rivelare’ i segreti delle emozioni umane, le contraddizioni degli affetti, il dramma della solitudine e dell’incomunicabilità, le aspirazioni segrete di un’epoca e le ombre feroci della storia. Sedeva in cattedra solo per cambiare le slides al pc o ‘mandare in onda’ video da youtube. Era (bonariamente) nevrotico, iperattivo, entusiasta. Si appoggiava un istante al pianoforte, si rialzava, si muoveva nei centimetri liberi dell’aula, apriva un libro, ne leggeva un passo, si avvicinava ad uno studente, tornava al pianoforte, si rialzava. Voleva costantemente sincerarsi che i ragazzi capissero, che riuscissero ad orientarsi anche di fronte ad espressioni come ‘rondò’, ‘passacaglia’, ‘serie dodecafonica’, ‘intervallo di settima’. Ma soprattutto desiderava conoscere le loro (nostre) reazioni, capire quale fosse il nostro background personale e culturale, quali emozioni provassimo di fronte ad una donna (Tosca) che pur consapevole della propria fine imminente continuava a cantare (a ‘dire’, secondo il plurisecolare paradosso operistico) i propri sogni di gloria e gioia, assecondando un meccanismo nevrotico di delegittimazione del reale perfettamente compatibile, in un certo senso, con la mentalità tard’otto-primonovecentesca, ed altrettanto spiegabile alla luce delle coeve acquisizioni degli studi psicoanalitici. Per Antonio la musica era questo: un mare profondissimo ricco di segreti e misteri, da cui riemergere dopo averne decifrato i segni per tentare, poi, di renderli significanti e comunicabili, particelle di una storia universale, affascinante. In questo modo, per lui, ricerca e insegnamento, analisi e divulgazione potevano e dovevano collaborare produttivamente, anche per disinnescare la reticenza impaurita (verso lessico, forme e strutture musicali) degli appassionati ‘non praticanti’.
Io sono rimasto lì, al quarto piano del palazzo di Lettere. Ma questo è un ricordo di Antonio: e come era successo per me, decine e decine di studenti hanno continuato ad innamorarsi della musica grazie alle sue lezioni, non di rado scegliendo poi di accettare la sfida della specializzazione musicologica, e di mestieri ed iniziative (editoriali, didattiche, accademiche, performative) legate alla musica.
Temo che non farei un grande onore alla memoria di Antonio Rostagno limitandomi a ricordarlo come l’istrionico e amatissimo protagonista de L’attimo fuggente. Ma, ripeto, non spetta a me ricordarne per intero le pubblicazioni, le iniziative ufficiali, gli incarichi ricoperti e le collaborazioni (numerosissime) con enti ed istituzioni musicali. Rostagno era uno specialista dell’Ottocento e del Novecento: ha scritto su Schumann, Donizetti, Verdi, Martucci, Puccini, Malipiero, Petrassi, Berio, Ligeti, Rihm, Kurtàg. Gli amori viscerali, quelli sì, meritano di essere ricordati: quello per Giuseppe Verdi, ereditato dal suo maestro (‘quasi un padre’) Pierluigi Petrobelli e quello per Robert Schumann (di cui il volume Kreisleriana, recentemente ristampato, reca preziosa traccia). In entrambi Rostagno amava la dimensione di una tragicità consapevole e contraddittoria, interamente umana, interamente consanguinea alla storia da loro abitata. Nonostante il profilo ‘settentrionale’, compostissimo e sobrio, Rostagno era ben consapevole del potere delle emozioni: che per lui, come per la Nussbaum, erano una profondissima forma di intelligenza. La curiosità, in lui, era un’emozione dominante, talvolta quasi pericolosa, non di rado capace di portarlo ad intraprendere contemporaneamente una quantità spericolata di progetti, che pure riusciva – talvolta non senza difficoltà, talvolta affidandosi coraggiosamente all’energia dei suoi studenti più brillanti – a perseguire con successo. Antonio ha avuto un rispetto profondissimo del ruolo dell’insegnante, che ha portato avanti ogni giorno con inesausta vocazione, e spesso al prezzo di profondi sacrifici personali. È per questo che, più che ricordarne la splendida monografia schumanniana o quella sulla musica strumentale dell’Ottocento, il mirabolante saggio sulla funzione drammaturgica della passacaglia novecentesca o quello (altrettanto fondamentale, a mio avviso) sull’ Otello verdiano come specimen di una civiltà al tramonto, sono altre le immagini che vorrei affidare con gioia (commossa) ai lettori di «Quinte Parallele» e agli studenti che non avranno la fortuna di conoscerlo. L’immagine di Antonio che sacrifica il proprio (scarso) tempo libero partecipando a tutti gli appuntamenti di una rassegna ‘multidisciplinare’ organizzata dal sottoscritto ed altri studenti in una piccola libreria romana, interagendo entusiasticamente con poeti, storici, drammaturghi e giovani ricercatori; l’immagine di Antonio che accompagna settimanalmente i suoi studenti al Teatro dell’Opera, preparandoli adeguatamente con lunghissime sinossi inviate via mail in improbabili orari notturni; l’immagine di Antonio che partecipa entusiasticamente all’atto di nascita della rivista (inizialmente un sognante progetto di giovanissimi spericolati, sottoscritto compreso: attualmente una delle più solide realtà, in Italia, nell’ambito della musica classica) che ospita queste mie parole; l’immagine di Antonio che, al mezzogiorno di una domenica freddissima, accetta di accompagnarmi ad una mostra sulla fotografia degli anni della ricostruzione post-bellica, a piazza Navona, annuendo (memorabile la sua mimica facciale) come chi assecondasse costantemente una memoria o una suggestione improvvisa; l’immagine di Antonio che, insieme al sottoscritto e ad Alessandro Avallone (un altro degli amici ed ex-studenti a lui più cari) accetta di organizzare un ciclo di incontri divulgativi in un lussuoso bar popolato da ricchissime e distratte (e, talvolta, ‘datate’…) creature degne del miglior immaginario sorrentiniano; l’immagine di Antonio che, dopo una full-immersion di analisi musicale ‘hard’ nell’annuale convegno riminese (era la notte del mio ventisettesimo compleanno) si intrattiene fino alle quattro del mattino con un pittoresco soggetto, da me presentatogli, che l’avrebbe costretto ad ascoltare le sue teorie sull’esoterismo (ed anche lì, con indomita pazienza, il nostro tentava di dire la sua…); l’immagine di Antonio che mi costringe a seguirlo a cena nell’ennesimo (e non di rado improponibile) ristorante vegano per ricordarmi, ancora una volta, di quanto la disciplina musicologica necessitasse più che mai di dialogare con la filosofia e la letteratura e la sociologia (e…) contemporanee, convincendosi solo in tarda serata di quanto fosse più salutare, dopo le 22.30, dedicarci ad immaginazioni felicemente estranee alla musicologia; l’immagine di Antonio che, per sms, mi rimprovera in tedesco per averlo salutato provocatoriamente con un dannunzianissimo eja eja, alalà!, salvo poi scusarsi di non aver preso parte ad una festa di compleanno cui l’avevamo invitato, ma il quarto convegno nell’arco di una settimana – unito ad un’insonnia ormai cronicizzata – l’avevano impedito. Avrebbe recuperato anche quell’assenza, come faceva sempre: amava la vita e le relazioni umane così come amava, visceralmente, la musica ed ogni forma d’arte. Che si trattasse di Gadda o Pat Metheny, dell’adorato Dante o dei giovani compositori contemporanei, di Villa-Lobos o Berio, nulla sfuggiva alla sua luminosa curiosità.
Pur nel pieno della malattia, Antonio non aveva accettato di interrompere la propria frenetica progettualità, di seguire le tesi dei suoi studenti, di mostrarsi loro vicino e partecipe. E visto che questo, come annunciato all’inizio, è un ricordo strettamente personale, non posso non concluderlo con una memoria ‘sonora’: il ricordo della sua voce che, pur resa flebile ed incerta dalla malattia, non esitava ad incoraggiarmi, quotidianamente, a non mollare e a resistere alle difficoltà che sarebbero inevitabilmente sopraggiunte nel tentativo di perseguire i miei obiettivi accademici. Proprio in quei giorni, infatti, conseguivo il titolo di Dottore di ricerca, e proprio in quei giorni gli avevo inviato, purtroppo virtualmente, il mio ultimo libro di poesie. Non sono certo che sia mai riuscito a leggerlo per intero: ma, leggendone faticosamente la bella prefazione dallo schermo del telefonino, che oramai guardava con estrema fatica, mi aveva scritto: ottimo, Emanuele… ma io tutto questo lo sapevo già. Sei un eccellente poeta tragico!

 

Molti di noi hanno perso un amico prezioso, molti studenti hanno perso un riferimento imprescindibile, e – ahimè – molti dei giovani che verranno non avranno la fortuna, grandissima, di conoscerlo, di ascoltare le sue lezioni, di guardarlo arrivare in moto con uno zaino comicamente stracarico di libri e spartiti, di lasciarsi offrire innumerevoli caffè ed aperitivi, di chiedersi (e chiedergli) dove accidenti trovasse il tempo di leggere tutti quei libri. Di scoprire, grazie alle sue parole, che la storia della musica è anche la nostra storia. Una storia di tutti.

 

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