Gustavo in maschera

L'esperimento (riuscito) del Festival Verdi di Parma.

Venerdì 1 ottobre, ho avuto modo di assistere alla seconda recita de Un ballo in maschera/Gustavo III al Festival Verdi di Parma, nello splendido Teatro Regio. Forse lo saprete, si tratta di una produzione molto discussa, in primo luogo per le scelte di promozione, ma anche perché si tratta dell’ultimo progetto cui Graham Vick si stava dedicando, prima della sua prematura scomparsa. Procediamo con ordine.

A sollevare un polverone, come dicevo, non era tanto la produzione in sé, che ancora doveva andare in scena!, ma le scelte di comunicazione del Festival Verdi, a partire dalla tanto discussa locandina con Verdi in abiti da donna. Posto che queste operazioni hanno colto nel segno, si è trattato di tattiche ben ponderate e ben riuscite per coinvolgere pubblici diversi, peraltro coerentemente con l’approccio che da anni il Festival Verdi ha coraggiosamente messo in campo. Tutto questo insistere sulla tematica dell’identità di genere, però nell’opera in sé poi non c’è davvero entrata. L’operazione del Festival su Un ballo maschera è partita invece dalla scelta di reintegrare il libretto originale con l’edizione critica a curia di Ilaria Narici, quando ancora Riccardo era Gustavo e tutto si svolgeva alla corte di Svezia e non a Boston. È questa una scelta che può far storcere diversi nasi, in primo luogo perché si tratta un’azione di manomissione abbastanza marcata: da un lato la prima versione del libretto, dall’altra la versione definitiva della partitura, già a censura avvenuta. L’effetto però ha retto bene la prova del palco e questo anche per una certa concomitanza di spinte.

Il completamento e la realizzazione della regia di Vick sono stati affidati a Jacopo Spirei, che del grande regista inglese è stato per anni collaboratore, e l’intesa raggiunta da Spirei con Roberto Abbado, alla guida di una Toscanini in splendida forma, ha reso l’intera operazione molto più convincente di quanto non ci si aspettasse. Il libretto del Gustavo III è più aspro e diretto rispetto alla versione censurata (e fin qui), ma su quest’impronta più cruda e schietta si sono orientate anche le forze artistiche in campo. Anziché levigare, regista e direttore hanno scelto di sottolineare le asperità di un’opera spesso di complessa interpretazione. Ne sono esempi perfetti la caverna di Ulrica, con gli accordi iniziali taglienti e sferzanti, oppure la violenza dei dialoghi tra i personaggi. Ad esempio quello tra moglie-marito, il Conte Gian Giacomo/Renato e Amelia (questa rimane Amelia) non ha bisogno di niente sul palco, bastano due sedie, sempre più distanti nello spazio così come ormai incolmabile è la distanza tra il Conte e la moglie. Sullo sfondo, solo la tomba di Gustavo, unico elemento scenico presente dall’inizio alla fine, memento mori impassibile per tutta la durata dell’opera. Che gran peccato che Verdi non ci mostri anche il post! Dopo la morte di Gustavo, cosa succede? I due hanno davvero modo di ricominciare da capo?

 

Il Conte, Amelia (qui ancora la Pirozzi dalla prima) e i due congiurati, convenientemente disposti sulla futura tomba del Re Gustavo III. Foto di Fabrizio Beggi.

 

Tornando alla tomba, questa dava uno sfondo monumentale che si rispecchiava anche nella direzione di Roberto Abbado, il quale ha esaltato la componente più sinfonica della partitura, in cui l’orchestra si fa con sempre maggiore chiarezza un personaggio vero e proprio, una natura algida e impassibile che opprime i protagonisti senza lasciar fiato. Questo, a volte, si è tramutato anche in un eccesso orchestrale, che ha coperto eccessivamente i solisti e soprattutto lo sfortunato coro, confinato in alto a causa delle regole covid. Molto bello da vedere, in realtà, con tutto il coro appollaiato come corvi (o come osservatori di un teatro scientifico). Non molto bello da sentire: la grande distanza con la buca ha causato alcuni scollamenti negli attacchi più rischiosi e va da sé che, almeno dalla platea, molto spesso il peraltro ottimo Coro del Teatro Regio, veramente ben preparato da Faggiani, è stato soffocato dall’orchestra non sempre accorta. Orchestra che, ribadisco, ha dato in generale una splendida lettura del brano, dimostrandosi solida e ben centrata, con un bel suono di sezione per gli archi e ottimi soli (sia quello per violoncello che i vari per fiati, in particolar modo oboe, e per arpa).

Passando ai solisti. Ho apprezzato il lavoro, veramente tangibile, che i cantanti hanno fatto per costruire un’interpretazione che non solo fosse tridimensionale, ma ben coerente con regia e direzione. In questo l’esempio perfetto è, per me, Anna Maria Chiuri, una Ulrica aggressiva, contorta e con un sincero vibe da Baba Yaga. Chiuri ha lavorato non solo sul volume, davvero notevole, ma anche e soprattutto sul carattere tagliente dato alla strega, che si sposava alla perfezione con la freddezza quasi russa di Roberto Abbado. Questo trovava un’ulteriore convergenza con l’idea registica di Vick/Spirei, che ha trasformato la caverna di Ulrica in un luogo di perdizione, ma forse anche di libertà, in cui ogni segreto, ogni altare viene svelato e le convenienze sociali perdono definitivamente di significato. Unico rischio, oltre a qualche instabilità di intonazione, è che proprio questa asprezza poi rendesse complessi i pezzi d’insieme, in cui è certamente bello sentire i concertati psicologici alla Verdi, in cui ogni personaggio viaggia per conto suo, ma devono comunque funzionare per insieme e precisione.

 

Anna Maria Chiuri e la sua Ulrica a luci rosse (letteralmente). Foto di Fabrizio Beggi.

 

Belle idee anche nel Gustavo III di Piero Pretti, che però è risultato più volte molto affaticato e incespicava dietro la bacchetta di Abbado. Si coglieva l’idea di un regnante in bilico tra magnanimità e leggerezza, eroismo e facezia, con qualche strizzata d’occhio ad Oscar, ma senza insistere poi molto sul tema dell’omosessualità di Gustavo, anzi. Sarebbe però servita più disinvoltura, più baldanza per riuscire veramente a centrare il personaggio, vocalmente e attorialmente. Si può fare un discorso simile per l’Oscar di Giuliana Gianfaldoni. L’idea che mi è sembrato di percepire voleva il personaggio generosamente propendere verso l’ambiguità sessuale che d’altronde caratterizza il brillante paggetto en travesti, ma sarebbe servita un’interpretazione rutilante di energia giovanile, per poter contrastare con i toni oscuri dell’opera e dunque rendere efficace la polarità tra sfarzosa eleganza e grezza espressione. Più convincente la Amelia di Maria Teresa Leva, ripresasi dopo aver dovuto cedere la prima ad Anna Pirozzi, che ha non solo dato una buona prova vocale, scaldandosi di scena in scena, ma anche di rendere una Amelia combattuta, contraddittoria, tetra nella sua pulsione di morte e autodistruzione.

Le ovazioni che hanno accolto ogni apparizione di Amartuvshin Enkhbat, Conte Gian Giacomo Anckastrom/Renato, rendono bene la sua magnifica prova. Anche lui senza problemi di volume, la tenuta e l’omogeneità vocali sono splendide e ben si piegano al totale controllo del baritono mongolo. È più complesso però riuscire ad avere un’immagine chiara di quale idea questo fantastico strumento tecnico serva. Enkhbat sembra sempre un po’ ingolfato, quasi immobile sul palco, impassibile in volto, la sua espressività vocale è notevole, ma sempre un po’ generica. Che sia Nabucco, Don Carlo di Vargas o il Conte/Renato, non si va veramente al cuore del personaggio, la vocalità non si piega volentieri allo scavo drammatico e drammaturgico delle diverse pulsioni, il carattere accorato è un generico carattere accorato, il triste è un generico triste e così via. Resta comunque l’impressionante vocalità, sia chiaro, che giù da sola è capace di riempire il teatro e far venir giù il loggione.

Prima di chiudere queste libere riflessioni, una menzione va fatta alle splendide luci di Giuseppe Di Iorio, abilissime nel contrappuntare la drammaturgia in scena.

Insomma, tutto sommato Un ballo in maschera ben riuscito, godibilissimo, con alcune felici intuizioni e il segno di alcune infelici restrizioni, un lavoro necessariamente composito a causa della scomparsa di Vick, ma che riesce poi a trovare una sua direzione e non si disperde in un omaggio al grande maestro fine a se stesso.

 

Questa l’ho già messa come foto di copertina, ma è talmente bella che rincaro la dose. Foto sempre di Fabrizio Beggi.

Articoli correlati