Diario dallo Chopin: Una giornata opaca

Il secondo giorno di finali scorre senza scaldare troppo gli animi

In un concorso capita a volte che alcune giornate siano più opache rispetto ad altre. Dopo le emozioni di ieri, attendevo con grande curiosità questa serata. Per tutta una serie di ragioni, però, non sono riuscito a scaldarmi di entusiasmo come ieri. Andiamo a vederle insieme in questo Diario dallo Chopin.

La Filarmonica di Varsavia diretta da Andrzej Boreyko ha aperto il maestoso Concerto op. 11 di Chopin con il primo concorrente della serata: J J Jun Li Bui, sul Kawai. Bui è uno dei 2004 che sono rimasti fino alla fine (il quarto, il bravissimo Yifan Hou, è purtroppo uscito in prima prova). Dei vari diciassettenni, però, Bui è quello che mi ha sempre convinto di meno. Il giovane pianista canadese suona divinamente bene, ma manca sempre qualcosa, non si sente quello spirito profondamente musicale che anima Hao Rao, oppure quel che di ancestrale che ho percepito dietro alle intuizioni di Eva Gevorgyan. JJJ suona come un fantastico e talentuosissimo studente, con un livello spaventoso per un 2004, ma senza la personalità che abbiamo sentito dagli altri concorrenti. La prima performance della serata, dunque, è parsa un po’ un clone di quella di Pacholec di ieri: tutto bene, ma anche tutto molto piatto e molto sotto tono. Certo, il suono di JJJ è molto più nitido e presente di quello del polacco, ma al contempo gli mancano dettagli che Camillo possiede. In generale tutto il primo movimento di Bui è stato poco interessante, con questo suono brillante, sì, ma senza fascino e a volte eccessivamente picchiettato e aspro. Sarà stato stanco, forse? Con Hao Rao notavo che più il pianista si stancava, più si adagiava su una brillantezza meccanica. Forse anche JJJ ha scelto di limitarsi per portare a casa il Concerto in un pezzo solo. Non che mancassero dei punti più espressivi, sia chiaro! Questi erano però sempre ottenuti più per uno scatto nervoso che con il Concerto op. 11 non trovavano veramente una giustificazione. Quando invece si andava a guardare rubato, cantabiltià, nuance, Bui trovava davvero la varietà espressiva di una piastrella. E il secondo movimento non mi ha ahimè scosso dal torpore. Sì, JJJ è riuscito ad addolcire un po’ il suono, comunque sempre bello chiaro e limpido, ma il controllo si limitava ai pianissimo e spesso dal forte in su eccedeva e forzava il Kawai su un suono aspro.

 

Suggerimenti dell’ultimo secondo di Costantino Mastroprimiano

 

E poi bisogna dirlo: grugniva come un carlino. Ma io dico, ho capito l’espressività, ma tra mugunii, sbuffi e muggiti pareva un degno rivale di Garcia McGarcia. Un toro e un toreador, la coppia perfetta! Lo so, non bisognerebbe valutare un pianista da questo, ma quando sei lì a goderti i raffinati fraseggi della Romanza non puoi sentirti il tizio che mugugna la melodia sotto e ogni volta che cresce sfiata come una teiera. Lo sentivo io che sto a metà platea, l’orchestra come caspita faceva? Questo problema è tornato anche con il terzo movimento, anche se qui si sente di meno. Tralasciando barriti e bramiti, il terzo tempo è quello che ha funzionato meglio, aveva buon carattere e il suono passava bene, ma mancava quella capacità di caratterizzare bene tutti gli elementi di una frase, tutte le componenti di una sezione per far sì che si crei una narrazione, una tensione drammaturgica, un senso architettonico. JJJ invece tiene tutto insieme con la cazzimma (la stessa di Rao ma meno variopinta) e tira dritto. Comunque bravo, sia chiaro: a 17 anni suonare così è non impressionante, di più. Certo, il paragone con gli altri due diciassettenni in finale (anche considerando le prove precedenti) è poco lusinghiero, ma ho la sensazione che a furia di nutrirci di nettare e ambrosia, anche il miele paia insapore.

 

DJ JJ is in da house. Foto di Wojciech Grzędziński

 

Prima di procedere, devo fare una piccola parentesi: l’orchestra di questa sera non era l’orchestra di ieri. Tra le ragioni dell’opacità della serata c’era la Filarmonica di Varsavia, che veramente ha suonato sotto tono. Non darei la colpa a Boreyko, il direttore davvero ce la metteva tutta, più volte ha pure colpito i cavi dei microfoni con la bacchetta per sbracciarsi e cercare di tenere su l’energia dell’orchestra. Diverse prime parti, però, erano diverse da ieri e in particolar modo la spalla era notevolmente diversa. Ieri c’era una violinista di grande piglio e carisma, molto attenta a quello che facevano i solisti, e l’orchestra ha suonato splendidamente con solo un po’ di stanchezza sull’ultima concorrente. Oggi invece c’era un primo violino estremamente parco di movimenti e impassibile, che ha affossato ancora di più la compagine. Non è molto corretto per i concorrenti, però, che oggi si sono trovati decisamente più in difficoltà con l’orchestra (con cui già le prove sono state non risicate, ma quasi inesistenti).

 

Alexander Gadjiev mentre riflette se fare o meno un bell’effettino su quella volata. Foto di Darek Golik

 

Questo è il caso di Alexander Gadjiev, che oggi non ha dato la sua prova migliore. E questo potevo immaginarmelo: Gadjiev ha suonato divinamente in prima prova, molto meno bene in seconda, magnificamente in terza, io ero qui che mi aspettavo qualcosa di apocalittico. Non so, il terzo tempo al doppio del metronomo, il Larghetto ma tutto senza pedale, i climax ma con la tensione nervosa della Settima di Prokofiev. Quasi. Ma non c’è riuscito del tutto. Già dalle prime note del Secondo Concerto (finalmente, il primo a suonarlo!) mi son messo le mani nei capelli. Tutta l’introduzione orchestrale è stata pesante e fuori fuoco e nonostante Boreyko si sbracciasse non c’era verso che l’orchestra camminasse. Poi è entrato Gadjiev, ha buttato un colpo, ha teso il primo fraseggio come ‘na fionda e ha rimesso in riga un po’ la compagine. Ma non è durato a lungo. Si vedeva che il pianista goriziano aveva un’idea del concerto mobile, con grandi cambi di timbro e di agogica, improvvisi stretti, grandi oasi liriche, mentre il fraseggio aveva sempre una sua direzione ben pensata. Anche il suono non aveva confronti con Bui: nonostante anche Gadjiev suonasse sul medesimo Kawai, il suono era ben più appoggiato, pieno, sempre nitido ma mai aspro, ricchissimo di nuances e sempre pronto a piegarsi in una cascata iridescente. Tutte queste belle caratteristiche pongono le premesse per un Concerto da brividi. E invece no! Gadjiev era sulle uova ed è parso molto nervoso (interrogato dopo mi ha detto di essere stato anzi molto rilassato e che è passato tutto in un soffio, ma all’ascolto la sensazione era diversa). Mi sembrava che, consapevole che l’orchestra non l’avrebbe ripigliato, il pianista cominciasse presto a trattenersi nel ricercare idee particolari, senza riuscire al contempo a trovare una vera intesa con la compagine e il direttore, ma perdendo un po’ di precisione (diverse le note sporche molto esposte) e senza riuscire ad arrivare veramente in fondo alla musica, come invece aveva saputo fare così bene nella Quarta Ballata e nella Seconda Sonata. Mi è stato detto che dallo streaming a livello sonoro non si coglieva questa ricchezza di timbri, ma vi assicuro che in sala, quando cercava un colore gli si apriva di fronte una tavolozza notevole. Peccato che tutte queste idee non siano riuscite a raccogliersi in un’interpretazione chiara ed efficace!

 

Nessuno ha ancora detto a Gadjiev che fine abbia fatto il suo cellulare. Meglio aspettare la fin del concorso… Saga epica di Costantino Mastroprimeme

 

Dopo la pausa è stata la volte del toreador, Martín García García. E qui ero già pronto: dai, famme diverti’. Niente anche lui un mortorio. Io non so cosa gli sia preso a tutti stasera! García dev’essersi reso conto che l’orchestra non lo seguiva e ha saggiamente optato per una interpretazione piattissima, regolarissima e noiosissima del Concerto. Ha fatto tutto eh, con anche quasi tutte le note scritte da Chopin (noioso, speravo se ne inventasse almeno un paio), ma se nelle prove precedenti ci aveva abituato ad essere una sorta di cavallo pazzo, imprevedibile e caciarone, questa volte è stato invece fermissimo. Nel confronto diretto con Gadjiev, la vuotezza del pianismo di García risaltava con limpidezza. Certo il pianista spagnolo ha sicuramente più suono e la scelta di questa sera gli ha permesso di portare avanti tutto il concerto onestamente, con successo molto maggiore di Gadjiev. Ma almeno prima c’era qualcosa da seguire, un’idea da cercare di afferrare. Sempre da menzionare, poi, i mugugnii vari, pure qui parecchio molesti, che soprattutto nel secondo movimento hanno visto di nuovo il pianista cantarsi metà frasi sopra all’orchestra. Avesse trasferito quel canto su un fraseggio ricercato e ben pensato sarebbe stato più interessante! Peraltro, questo del cantare ed emettere versi di varia natura sul palco è un riflesso inconsapevole e molto spesso completamente incontrollato, quindi quello che si canta è solo una versione accennata (e parecchio stonata) di quello che si sta suonando. Non molto confortevole. La cosa che mi è piaciuta molto di Garcìa McGarcía, però, sono state le volatine. Il pianista spagnolo ha trovato sul Fazioli un suono cristallino, appoggiato e risonante, che però è rimasto lo stesso dall’inizio alla fine. Ciò che smuoveva un po’ le acque dello stagno erano le improvvise volatine, l’unico momento in cui il pianista cambiava colore.

 

Lo sguardo di intensa preoccupazione negli occhi del toreador. Foto di Darek Golik

 

Va da sé che il discorso non è diverso da quello che facevo con JJJ. Quasi ogni caratterizzazione interna della frase veniva asfaltata con questa colata di suonone e il risultato è che il pianista ha sfoggiato la tensione drammatica di una scala a pioli. Nel terzo tempo, speravo di avere un guizzo da gran virtuoso, la zampata del leone. E qualche volta c’è stata, sia chiaro. Vi raccontavo di come García nella Terza Sonata sembrasse a volte non rendersi nemmeno conto della difficoltà dei passaggi che stava suonando. Bene, anche qui a volte ci sono state volate a rapidità vertiginose che hanno fatto impallidire la ottima disinvoltura tecnica di Gadjiev. Però finiva lì. Il resto scorreva tutto regolare, metronomico e asfaltato come una strada svizzera. Non so. Magari è una mia percezione eh. Sarà che sono italiano e a noi italiani le buche per strada ci piacciono proprio molto. Però ogni tanto, non so, un dosso, un po’ di aciottolato, qualche sterrato? No, tutto cemento. Vabbè, almeno sul cemento si corre bene e il finale brillante e col suonone ha causato il solito entusiasmo, pure con accenno di standing ovation. Qui però mi ha sorpreso: la potevo capire sulle prove precedenti, caotiche ma carismatiche, fresche, divertenti. Qui, di ragioni per esplodere nell’entusiasmo ce n’erano pochissime. E con Bruce Liu che fanno? Reggiseni sul palco? No perché io lìu mi aspetto qualcosa di fotonico, cioè se García è un pandino, Liu è ‘na jaguar. Che poi a guardarli bene García ha un che di panda e Liu un che di giaguaro. Non so. Voi che dite?

 

Diario dallo Chopin

Martin Garcia Garcia in lunetta per il tiro che deciderà le sorti della partita. Narrazione alternativa a cura di Riccardo Radivo

 

Comunque, di opacità in opacità: Eva Gevorgyan. E anche qui, che dispiacere! Dov’è la mia russarmena dal cuore di ghiaccio? Dov’è la diciassettenne che ha trasformato il Quarto Scherzo in una ballata nordica, le Mazurche op. 17 in un canto delle steppe? Eh, purtroppo in soffitta pure lei, a farsi già la ronfata della vita dopo quasi un mese di concorso. Purtroppo molto di quello che avevamo sentito nelle prove precedenti, qui non l’abbiamo sentito. Gevorgyan ha suonato bene, sia chiaro, perché questa ragazza non ce la fa a suonar male manco se si impegna, ma ha dato un’interpretazione quadrata e rigida del brano, in cui da un lato non traspariva l’umanità espressiva di una Armellini, dall’altro mancava il controllo e la fantasia di Sorita. Ma al contempo la pianista non è riuscita a trasfigurare il brano per renderlo qualcosa di suo, di unico, com’era riuscita nelle altre fasi del concorso. Se scorro i miei appunti, ritrovo un commento centrale “rimane una buona esecuzione”. Ogni tanto qualche bel dettaglio, ma si vedeva che la pianista stava cercando in primo luogo di portare a casa la prova. E c’è riuscita: anche con l’orchestra, l’esperienza di Sorita e Armellini (ma anche di Gadjiev e García) si sentiva e permetteva loro di cercare un dialogo, imporsi sul o entrare nel suono della compagine, calcolando più o meno bene quanto dare e quanto trattenere per non scollarsi eccessivamente. Eva Gevorgyan, poraccia, quest’esperienza non ce l’ha. Peraltro veniamo da due anni di pandemia e la pianista aveva 15 anni quando si è fermato il mondo. Dunque cosa poteva fare? Semplice, cercare di essere il più giusta possibile. E c’è riuscita. L’insieme funzionava, le note cadevano quasi sempre nel momento giusto, ma si fermava tutto lì. Per tutta la durata del Concerto ha tirato dritto quasi senza ascoltare, sincerandosi che le cose filassero lisce ma senza mai lasciar spazio per giocare con l’orchestra. Questo tirare dritto, ovviamente, le ha fatto perdere tantissimi dettagli. Prendiamo la Romanza: è partita bene, bel cantabile, fraseggio condotto benissimo, ma poi ha completamente ignorato il fagotto e all’arrivo della sezione centrale non ha creato alcuna differenza di timbro o di carattere. Nonostante il colore del brano cambi così tanto, lì Gevorgyan non ha cambiato passo. JJJ aveva scelto di dare di più, caricare drammaticamente. Il giorno prima, Armellini aveva invece interiorizzato una tensione angosciosa. Gevorgyan ha tirato dritto. Meglio il terzo movimento, con un bello staccato all’inizio che ha fuso bene l’elegante e il rustico, trovando anche dei momenti onestamente allegri e con buona energia, ma anche qui l’interpretazione è parsa tutta attutita. Come sempre, più suono nella coda, volata finale molto brillante.

 

Diario dallo Chopin

Eva Gevorgyan la stava aspettando, signor Bond. Foto di Wojciech Grzędziński

 

Ed è finita così la seconda giornata di Finali. Non entusiasmante come ieri, devo ammetterlo. Però succede: non l’ho ripetuto abbastanza, ma alle finali le persone sono, semplicemente, esauste. Ogni tanto, quando nell’aria si respira l’elettricità, si riesce a bucare il velo della stanchezza e ad arrivare con forza emotiva, lambendo pancia, mente, anima e orecchie della platea. Quando in giornate come questa già l’orchestra che ti circonda sembra stare per cadere preda di un attacco narcolettico, non ci si può aspettare che dei ragazzi stanchi come non lo son mai stati in vita loro risollevino le sorti della serata. Questa è anche una delle ragioni per cui arrivare alla fine ad ascoltare le ultime prove è sempre una pessima scelta. Se si vuole capire come suona veramente un musicista, la finale è il posto peggiore. Meglio seconda e terza prova, in cui la maggior libertà di scelta del repertorio e qualche energia in più in corpo c’hanno fatto capire veramente di che pasta sono fatti questi musicisti. E ora, non resta che un’ultima serata a separarci dai risultati. Ma con musicisti come Aimi Kobayashi, Bruce Xiaoyu Liu, Hyuk Lee e Jakub Kuszlik, queste finali sono ancora tutte da giocare.

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