Diario dallo Chopin: L'Ascesa del Corsaro

Al primo giorno di Stage II, Kyohei Sorita leva l'ancora e si dirige dritto in Finale.

Rieccoci. Vi è mancato il Diario dallo Chopin in questo giorno di pausa? A me no. In questo momento non so cosa non darei per potermi fiondare a letto dopo una prima giornata di secondo stage intensissima, ma in qualche modo devo fissare ciò che ho visto oggi, prima che il sonno in qualche modo cancelli la meraviglia.

Come al solito, portiamo indietro il taccuino e procediamo con ordine. In questa fase del Concorso i nostri aitanti pianisti dovevano portare: un brano scelto tra Scherzi, Ballate, Barcarolle, Fantasia e Polonaise-Fantasie; un Valzer dal carattere brillante (opp. 18, 34 nn. 1 o 3, 42, 64 n. 3); una Polacca (op. 22 Andante spianato incluso, entrambe quelle dell’op. 26, oppure op. 44 o op. 53). Oltre questo, repertorio libero fino ad avere tra i 30 e i 40 minuti di repertorio.

Comincia Arseni Mun sullo Yamaha con il Rondò à la Mazur op. 5, brano dal fulminante virtuosismo, che il pianista affronta con quel carattere nervoso che già lo aveva caratterizzato a Mosca nel 2019. Questa generale atmosfera tesa e nervosa, Mun se l’è portata dietro anche sul Valzer op. 18, che non ha trovato la brillantezza elegante pure nell’elevata velocità. In realtà Mun sembrava abbastanza godersela, ma la sensazione è che fosse più guidato da un piacere fisico e digitale, che da un attento ascolto dei fraseggi nervosi e dei respiri mozzati. Più convincente il suono sul Primo Scherzo, ma anche qui non ci si è sollevati da quello scatto nervoso, al punto che ad una certa mi sono chiesto se fosse direttamente in apnea. Non particolarmente centrato il carattere del trio, veramente una parentesi prima del ritorno al turbinio. Ciò che non mi sarei aspettato però è che questo nervosismo potesse arrivare addirittura alla mano sinistra dell’Andante spianato, mentre lo squillo esuberante chiama a raccolte le truppe per una Polacca brillante dal bel carattere polacchio, che un po’ troppo spesso veniva soffocato da ribattuti sovraeccitati che nemmeno Skrjabin.

 

Arseni-co e vecchi merletti, interpretato da Costantino Mastroprimiano.

 

Szymon Nehring con lo Steinway 479 ha dato una prova migliore della prima, ma ancora sonnacchiosa. L’Impromptu n. 3 ha mostrato subito un altro spessore di interprete, dal bel carattere musicale poi confermato dalla Polonaise-Fantasie. Qui, altri timbri sarebbero però stati da cercare e Nehring non è riuscito a risollevarsi da un carattere un po’ spento, che non trovava un legato ben appoggiato per il cantabile o un gioco di sfumature ricercato per i lunghi pedali. Persino i trilli, suonati con colore veramente superbo, non funzionavano poi nel flusso generale, in cui erano quasi inseriti a forza. Molto ben confezionato il Valzer op. 64 n. 3, dal bel carattere elegante e con una sinistra ben fraseggiata, mentre una nuova interpretazione dell’Andante con spianata e Grande Maionaise brillante ha confermato la differenza con Mun. Su una sinistra rilassata, il canto della destra ha trovato bei colori, un fraseggio dolce ma non melenso e ben condotto. La Polonaise è cominciata con tono un po’ sommesso, ma gradualmente Nehring si è lasciato andare sulle volate agili e un trio centrale bello gagliardo, dal bel carattere polacchio. Ben inteso: polacchio è il carattere di polacca. Bene la ripresa ed efficace il finalone strappapplausi. È quasi garantito che il vincitore del Rubinstein (peraltro pure polacco) passi tranquillamente questa prova: sarà interessante vedere se sulla Terza Sonata saprà pienamente ritrovare concentrazione e spirito. Daje Simone.

 

Szymon Nehring doveva bussare quella volta. Elaborazione di Costantino Mastroprimeme.

 

Viet Trung Nguyen ho dovuto recuparlo dallo streaming (al solito confrontando con l’ascolto fuori porta), perché al solito ero di preparazione di uno degli Chopin Talk più interessanti fatti finora (con Aimi Kobayashi e un’esperta di cultura giapponese per parlare delle ragioni della popolarità di Chopin in Giappone!). Il pianista polacco-vietnamita era uno dei preferiti del primo round e devo dire che ha mantenuto alto il livello. Il Preludio op. 28 n. 13 in apertura non mi ha convinto pienamente, pur nella limpidezza musicale che contraddistingue Nduja. Meglio la Barcarola, con ottimo fraseggio della sinistra e il suono morbido e al contempo brillante dello Steinway 479. Molto belle le sfumature di colore, ma meno riuscito il crescendo e il grande apice. Il Valzer op. 34 n. 3 è partito bello squillante, ma qualche acciaccatura non precisa e un finale non perfetto ne hanno un po’ depotenziato l’effetto. Altra scelta particolare: il Notturno op. 48 n. 1, onnipresente in prima prova. Presentarlo qui è stata una mossa furba, indebolisce il confronto diretto e il brano è sembrato di colpo meno frusto e più interessante. Anche perché era suonato veramente bene, con uno splendido cantabile sul regolare incedere della sinistra, grande consapevolezza drammaturgica, delle fantastiche ottave nel ritorno ad A e un’ottima chiusa, non condizionata da un paio di note svizzere molto esposte. Ottima la Polacca op. 53, con suono sempre appoggiato e diversità di attacco del tasto. In particolare, pur in un’atmosfera che a volte sapeva un po’ di maniera, ho apprezzato il carattere nobile, il fraseggio brillante, la bella polifonia del trio e le rapide ottave, giustamente non fatte turbinare con roboanza lisztiana. Veramente ottimo il ritorno alla prima sezione, mentre la varietà di fraseggio e colore non ha mai frammentato il discorso. Non è stata una Polonaise op. 53 trascendentale, ma decisamente una degna conclusione di un’ottima prova.

 

Osokins si siede basso. Molto basso. Riccardo Radivo immagina modi eleganti in cui risolvere il problema in fase di post produzione.

 

Il successivo è stato il candidato che ho preferito in tutta la mattinata e pure tutto il pomeriggio fino ad un certo punto e non ci crederete ma è proprio lui: WannabeTrifonov, il lettone Georgijs Osokins sullo Yamaha. La Polonaise-Fantasia ha trovato subito un bel colore sugli arpeggi ascendenti, dimostrando un buon istinto musicale nel connettere i fraseggi, ma soprattutto donandoci una prima ventata di reale tensione espressiva. Osokins trova un’idea, spesso originale, e ha la forza per portarla avanti e strutturarla architettonicamente. E incredibile, ci riesce anche senza teatralizzare ogni cosa a posteriori. Salvo la manina lì per aria dopo ogni volata, ma quella è lì per il fotografo e posso farmene una ragione. La scelta successiva è stata assai particolare, la Polacca op. 70 n. 2, un po’ memore dell’op. 70 n. 2 che portò Bozhanov nel 2010 (e il paragone tra i due, l’ha già scovato la solita Antonella D’Orio, commentatrice professionista di concorsi pianistici internazionali). La ben più giovanile Polacca postuma ha ricevuto una cura sonora molto adatta, insieme ad una splendida eleganza e alcuni problemi di definizione e nitidezza che già erano presenti nella Polacca-Fantasia. Altra scelta originale: Osokins si è anticipato le mazurche, così, giusto per farci annusare l’aroma polonico (sperando non sia radioattivo pure questo). L’op. 30 n. 4 ha trovato subito il carattere giusto, fiero ma sempre elegante, con piccoli ripiegamenti intimi. Ovviamente, anche qui, la manina per aria è d’ordinanza. La Mazurca op. 50 n. 3 partita con un colore candido e sospeso, quasi un paesaggio innevato, su cui del fraseggi mai scontati, ma mai confusi hanno unito il carattere di danza con la miniatura pittorica. Il Valzer op. 34 n. 3 ci ha offerto un diverso approccio alla danza, brillante e un po’ frenetico. Anche Osokins si è cimentato con l’eroica Polonaise op. 53, infilata senza fiato dopo il Valzer ma con grande differenza di tocco, maestosa ma non esagerata. Il trio non troppo di fretta ha concesso di tirarne fuori lo sfolgorante carattere militare, forse con qualche rigonfiamento di pedale eccessivo, ma comunque benissimo. Il ritorno alla prima sezione non è stato fantastico, ma per il resto, salvo qualche imprecisione, ha chiuso molto bene una prova di grande spessore.

 

Osokins sa quali tasti toccare. Riflessione di Costantino Mastroprimiano.

 

Meno interessante la prova di Evren Ozel, partito con l’Impromptu n. 1 un po’ nervoso nel fraseggio, ma con una buona gestione dell’andamento rapsodico del brano. Meno riuscita la Polacca op. 44, il cui fraseggio non è sempre risultato ben pensato e seguito. L’elemento di marcia mancava di differenza timbrica e dopo la varietà di colore di Osokins si sentiva particolarmente. Molto bella la transizione ad A’, più sicuro e appoggiato, bene anche la coda conclusiva. Il Valzer op. 34 n. 1 ha trovato un suono più pieno e brillante di Osokins, con grande gusto ma meno varietà di tocco. Mancava però quel senso di vertigine che questi valzer possono dare e che Osokins era riuscito a far intuire. A preparare la conclusione della sua prova, il Secondo Impromptu, in cui veramente bisogna iniziare a trovare un po’ di diversità di colore, timbro, tocco, qualcosa che scuotesse questo Ozèl di bosco dal suo ramo e desse una bella scrollata alla sala. La Quarta Ballata invece ha confermato i colori un po’ opachi della prova, con un fraseggio piuttosto statico sia della singola frase che delle sezioni più ampie. Bene però l’inizio della coda meno sparato e roboante e più intenso e interiore.

Mi ha un po’ tradito le attese Camillo, invece. Il polacco Kamil Pacholec mi era piaciuto parecchio in prima prova, ma in questa è apparso fin troppo cauto, al punto da soffocare molti slanci. La Polonaise op. 44 è apparsa un po’ spenta e pur trovandoci sullo Steinway 479 come Ozel, il suono passava molto meno e tendeva a compattarsi in un unico blocco pesante. Bello il carattere popolareggiante nello splendido Trio, costruito su fraseggi interessanti e non ripetitivi. Il Secondo Impromptu è andato bene, soprattutto nella sezione centrale, ma il suono continuava a non essere variegato e convincente fino in fondo. Agile il Valzer op. 34 n. 3, ma mancava di brillantezza e un calo di concentrazione ha causato un piccolo vuoto. Pacholec ha poi deciso di rifarsi il salotto e al valzer obbligatorio ha aggiunto anche quelli op. 64 n. 1 e 2. Da un musicista che decide di dedicare tutta questa attenzione ad un genere, mi aspettavo in realtà più gusto e penetrazione nel linguaggio del valzer chopiniano, mentre Camillo è rimasto lì, con gradevole melanconia, non troppi timbri, un carattere un po’ stinto. Sottotono anche l’inizio dello Scherzo n. 2, che non ha trovato un approccio ‘da scherzo’ rimanendo su un suono un po’ generico. Il Trio centrale ha dimostrato che il nostro Camillo si trova particolarmente a suo agio sulle mezze tinte, che però è difficile assaborare se non c’è stacco, contrasto con qualcosa di più sgargiante. In generale tutto suonato bene, ovviamente, ma iniziamo ad essere ad un punto del concorso in cui “suona bene” non basta: bisogna andare oltre.

 

Camillo si gode la sua acclamazione, nelle parole di Costantino Mastroprimiano.

 

E parlando di “oltre”… Hao Rao. Finalmente, ero così contento di risentirlo! Rao è phaortito con la Ballata n. 3, suonata con grande controllo e suono definito, ma ancora un po’ bloccato. Speravo che si aprisse prima della fine, ma è solo sul Valzer op. 34 n. 1 che ha iniziato a mettere di più la testa nella prova. Il Valzer per Hao Rao è elegante, ma anche un po’ retrò, odora di cipria e canfora e si nutre di volatine fotoniche e rubato marpione. Sconsigliato a vecchiette deboli di cuore. Molto bello il fraseggio della Barcarola, con splendida polifonia interna. Sembrava davvero che il pianista si fosse studiato tutte le voci interne in funzione del canto, come se accompagnasse un solista. Quando invece cercava di portare questa polifonia in superficie, ecco che non sempre riusciva a portare fino in fondo la sua idea. E comunque, ancora fin qui era tutto fatto magnificamente e con molti spunti, ma non era quel qualcosa in più che avevo sentito sul Secondo Scherzo al primo round. Quel qualcosa in più è arrivato all’ultimo brano, l’Andante spianato e Grande Polonaise brillante. Già dal tappeto di seta che la sinistra ha steso per il cantabile della destra si capiva che sarebbe stato qualcosa di notevole. E la Polacca vera e propria è confermato e portato ancora più in alto. Rao ha messo l’accento sul “brillante”, inteso non solo come lucentezza e virtuosismo, ma come sfrenata eleganza, che in questa Polacca ha veramente fatto faville. Non che mancasse il suonone, quando le ottave o gli accordi più rigonfi lo chiedevano, ma era nelle volate, agili, eleganti, fraseggiatissime, che si nascondeva lo spirito del diciassettenne cinese, del cui gusto centratissimo, ad un’età simile, rimarrò sempre allibito. Andate ad ascoltarvi quest’op. 22, davvero. Pur con qualche robetta da sistemare qui e lì e l’ovvia necessità di approfondire ulteriormente l’aspetto più emotivo (ma questo lo vedremo nell’eventuale terza prova con la Terza Sonata), ci troviamo di fronte ad un musicista di enorme potenziale, solo in parte espresso.

 

Hao Rao accasciato prima di salire sul palco. Foto di Wojciech Grzędziński

 

Il dietro le Quinte della foto di Hao Rao. Foto di Vivian Li.

 

Dopo questa prova, temevo molto per Sohgo Sawada, il giapponese dotato apparentemente di giornate da 48 ore per poter preparare lo Chopin nei ritagli di tempo dal tirocinio in ospedale a Nagoya, dove studia medicina. Dr Sohgo, invece, ha tirato fuori i muscoli e tutta l’intensità emotiva repressa di cui un giapponese è capace per rilanciare la posta, peraltro partendo proprio con l’Andante e Polacca che Rao aveva letteralmente appena terminHaoto. Senza poter contare sulla stessa raffinatezza timbrica, nell’Andante dr Sohgo ha puntato di più su una diversa maturità espressiva, un tono più ponderato e intenso, meno arabeschi e più riflessioni intime. La Polonaise ha trovato un suono più maestoso e, pur senza contare sulle galanti volatine di Hao Rao, Sawada ha insistito su un suono scuro e più appoggiato, che ha beneficiato del meraviglioso Kawai su cui si è esibito. Il Valzer op. 34 n. 3, poi, l’ha staccato ad un tempo rapidissimo, con bel carattere. Peccato per il finale un po’ buttato, ma il resto splendido. Bel respiro e poi via nella Barcarola op. 60, con suono scuro, caldo e profondo. Tra nuances magnifiche e ottimo fraseggio polifonico, ha iniziato a farsi largo un po’ di stanchezza, che ha depotenziato un po’ il crescendo e il grande climax, che sono risultati pesanti e poco direzionati verso la conclusione. Anche qui, Secondo Scherzo (la sessione pomeridiana non ha brillato per varietà di repertori…). Iniziato benissimo, con suono profondo, ha iniziato a vedere qualche nota sporca in posizione molto esposta, che in alcuni casi ha rotto la naturalezza del fluire musicale. Se c’è una cosa che apprezzo, però, di Sawada è che è un pianista che si prende dei rischi. Poi magari canna il passaggio, si stanca, non trova quello che cerca, però cerca, ci prova, si butta, vuole dire qualcosa.

 

Dr Sohgo in tutto il suo sfrozo sovrumano. Foto di Darek Golik

 

Aristo Sham me lo sono dovuto rivedere anche in streaming causa Chopin Talk (se volete vedervi un approfondimento con Hyuk Lee, in vista della sua prova tra qualche giorno, io e Rachel riempiamo ogni intervallo del Concorso con le nostre conversazioni!). Sono però riuscito a seguirlo abbastanza bene già da fuori sala, anche perché il pianista di Hong Kong ha un suono pieno che corre e non bastano un paio di porte per fermarlo. La Barcarola ha beneficiato di questo suono profondo per sostenere con chiarezza le belle frasi lunghe e soprattutto riuscire finalmente a reggere il grande crescendo e successivo climax che finora ancora non avevo sentito fatto così bene. Nel Secondo Scherzo (sì, anche lui), Calzino Boy ha condotto bene il fraseggio cantabile, ma non ha dato il suo meglio, causa una certa eccessiva staticità. Sham è un pianista molto ordinato. Il suo modo di suonare cataloga e divide, senza però rinunciare all’impeto e allo slancio. Nel Secondo Scherzo, però, è rischioso dividere troppo, perché si rischia di mostrare le nette cesure tra sezioni e far sedere il discorso, che è un po’ quello che è successo qui, pur nella splendida esecuzione generale. Il Valzer op. 42 è corso rapidissimo e con qualcuni gradevoli passaggi senza pedale, ma ancora meglio l’Andante e Polacca (sì, anche lui.), che se ancora era un po’ affannoso nell’Andante, ha costruito un bel suono massiccio per la Polacca sullo Steinway 300, con qualche inflessione di nobile aristocraticità che ho davvero molto apprezzato. Ah, perché Calzino Boy? Guardate lo streaming e lo saprete. E soprattutto leggete i commenti delle persone uscite pazze per i calzini di Aristo Sham. Da domani mette in vendita la sua nuova linea di intimo, state a vedere.

 

I fantastici calzini di Aristo Sham. Foto di Wojciech Grzędziński

 

Brava anche Miyu Shindo, che però è risultata veramente un po’ schiacciata tra le personalità della serata. La diciannovenne giapponese è partita con una Prima Ballata un po’ sentimentale, tecnicamente non trascendentale e un po’ arruffata, ad esempio nella coda. Coda di cui però erano notevolissime le scale ascendenti. Per l’Andante e Polonaise (sì, anche lei..), Shindo ha sfoggiato un bel suono dolce e tenue, perfetto per l’eleganza perlacea dell’Andante spianato. La Polonaise è stata agile, ma poco polacchia e soprattutto un po’ ripetitiva. Forse proprio per questioni tecniche: Miyu Shindo tende a cominciare molti fraseggi (specie quelli dopo una pausa) sempre con il polso in posizione altissima e in punta di dita, un vezzo che le dà una bella leggerezza, ma ovviamente ha i suoi limiti. Bello agile il Valzer op. 42, ma non all’altezza del vorticoso Calzino Boy. La Barcarola (mioddio questa sessione pomeridiana tutta uguale) non ha risollevato la prova. C’erano ovviamente molte cose belle, a partire dai trilli, il suono ben appoggiato nel cantabile della destra, ma tanti dettagli non avevano ricevuto la stessa cura e spesso la linea della frase si è spezzata.

 

Il ditino di Miyu. Foto di Darek Golik

 

Molto bella invece la prova di Talon Smith, che non mi aveva convinto fino in fondo al primo round e qui invece ha tirato fuori un suono cristallino pazzesco. Partendo proprio dalla Barcarola, perché non ci facciamo mancare nemmeno una possibile ripetizione. Sullo Steinway 300, Smith ha trovato un caleidoscopio di colori. Si prendano i guizzi brillanti che saettano nella mano destra sull’incedere scuro e attutito della sinistra. Come spesso per il pianista statunitense, è quando la dinamica cresce che iniziano i problemi e infatti il climax non è rimasto al livello del resto della Barcarola. Ma cosa il pianista furbo? Sceglie il repertorio giusto. La Berceuse (quanto è bella!) di Smith è stata semplicemente spettacolare, delicatissima, partita come un carillon e proseguita con una polifonia perfettamente studiata e traslucide sonorità. Davvero fantastica! Nel Valzer op. 64 n. 3 Smith ha cambiato bene sonorità, riuscendo a cambiare atmosfera dopo l’incantevole Berceuse. Qui però lo scegliere repertorio troppo affine ha iniziato a mostrare la sua fatica: un valzer più esuberante avrebbe aiutato a staccare ancora di più e rendere più efficace il tutto. Ma come dicevo, proprio sull’esuberanza Smith non si trova a suo pieno agio. Basti vedere l’Andante e Maionaise. Sull’Andante siamo sempre in area Berceuse, quindi benissimo, ma già lì i primi accenni di tensione si trasformavano in irrigidimento. Questo è peggiorato con la Polacca, agile e tersa nelle volate, ma un po’ frenata come slancio e, soprattutto, gli accordi ribattuti che fanno subito polacchio non hanno mai trovato quella dimensione galante eppure maestosa. Comunque, una Signora Prova anche qui.

 

Talon Smith in attesa di salire sul palco. Foto di Wojciech Grzędziński

 

E infine ci siamo arrivati. Mentre osservavo Kyohei Sorita farsi la sua passeggiatina sul palco, la mia mente vagava su futili pensieri. Tipo, non so perché ma per la sua attitudine Sorita mi sa un po’ di pirata galantuomo. Non saprei bene, tipo Corsaro dei Mari dell’Est, qualcosa del genere. Ce lo vedo benissimo su una barca a solcare gli oceani col vento in poppa. E mentre mi dilettavo con amenità simili non avevo idea che quello stesso Corsaro mi avrebbe di lì a due secondi sparato una delle esecuzioni da concorso più folli che abbia mai sentito. Attacca il Valzer op. 34 n. 3, subito suono pieno e squillante, poi verte su una chiara agilità e chiude col turbo. Stacca sul Rondò à la Mazur, con un carattere che tradiva una consapevolezza culturale vastissima. Il brano giovanile non è certo ancora ai livelli delle mazurche, nello stilizzare la danza popolare polacca (le tre danze popolari polacche, in realtà). Non è nemmeno al livello dei finali dai Concerti. Però già si sente che quella è la direzione e, a bella posta, Chopin si sente in dovere di farcire il rondò di ogni diavoleria post Biedermaier che gli viene in mente. Ecco, Sorita ha preso e ha confezionato un brano dal virtuosismo travolgente, senza un solo secondo perdere la bussola di un’eleganza primo ottocentesca, con tanto di meravigliosa parentesi nel breve passaggio in progressioni, veramente una parentesi di espressività. Non pago di aver fulminato il pubblico con una mitraglia di note elegantissime, il Corsaro Kyohei prende e stacca una Seconda Ballata da brividi. E non è un’iperbole, ce li ho avuti davvero i brividi. Inizia con un suono radicalmente diverso rispetto al Rondò (com’è giusto che sia), tono cullante, intimo, dolce, una grande varietà di carattere organizzata con infallibile senso drammaturgico. Ed ecco, coup de théâtre, il Presto con fuoco, con scatto nervoso e tensione sottocutanea, ma senza mai esagerare col suono. E poi un fraseggio splendido anche dei dettagli, supportato da un suono sempre coerente. Si prenda come esempio la transizione dal tempestoso B al cullante ritorno di A, trainato dalle macchie di colore della sinistra, sugli accordi discendenti della destra. E poi di nuovo il Presto con fuoco, che si lancia, questa volta sì, verso una coda dalla grande gestualità, perfettamente definita in ogni dettagli, emotivamente esplosiva, volevo esplodere in un boato di applausi appena l’ultima, soffusa nota ha chiuso come un ricordo la Ballata.

 

Il Corsaro Kyohei revisiona i ferri del mestiere. Rilettura di Costantino Mastroprimiano

 

Ma ancora mancava, indovinate, proprio lui, l’Andante spianato e Grande Polonaise brillante! Attacca sul suono dolce ed etereo che aveva inaugurato con la Ballata, ma molto più leggero e trasparente. Ad un certo prende e sugli accordi tira fuori un pianissimo così pianissimo eppure talmente nitido che nel mio taccuino c’è una riga scritta in maiuscolo perché non ci volevo credere. Poi via, di nuovo nei liquidi arpeggi, fino allo squillo di tromba che apre la Polacca. Sulla Polacca Sorita ha trovato un equilibrio tra galanteria civettuola e sgargiante e appassionata maestosità veramente mirabile, il tutto mentre continuava a sciorinare volate palesemente senza conoscere freni. Io cercavo, perché vi assicuro che lo cercavo, un appiglio, un qualcosa che mi sembrasse fuori posto. Magari era troppo perfetto, troppo preconfezionato. E invece no, tutto scorreva con una naturalezza musicale e uno slancio espressivo innegabili. Magari era superficiale! E invece no, riusciva sempre a trovare quella sfumatura in più, quel qualcosa d’oltre. L’unica cosa che ho trovato, ad una certa, è stato un po’ di fatica, per cui le volate erano lievemente meno nel tempo. Questo non gli ha impedito di non sporcare fondamentalmente manco una nota nell’intera prova, ma non solo, anche nelle volate più intorcolate, la linea melodica e, fino ad un certo punto, anche la precisione del ritmo hanno tenuto, dimostrando il prodigioso equilibrio espressivo tra dettaglio e struttura del ventisettenne giapponese.

Scusatemi, mi sono fatto prendere la mano dall’entusiasmo. Ma qui sono le due di notte e ancora, al ripercorrere con la mente la prova del Corsaro Kyohei mi rendo conto di quale tesoro questi ci abbia regalato. E il pubblico, esploso finalmente in roboanti applausi e grida, ha dimostrato di aver apprezzato. Una standing ovation ci sarebbe stata tutta.

 

Sorita al pianoforte. Si meritava una seconda foto, direi. Credits a Darek Golik

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