Musica nella nebbia: intervista a Filippo Gorini

In occasione del suo concerto al Festival Cristofori abbiamo incontrato il pianista Filippo Gorini. Ecco la nostra intervista

Pochi giorni fa si è conclusa la quarta edizione del Festival Pianistico Bartolomeo Cristofori, cinque giornate interamente dedicate alla musica e al suo rapporto con l’ambiente. Sono molti gli artisti e gli studiosi che con il loro contributo si sono impegnati a rendere questa edizione indimenticabile. Fra questi il giovane pianista Filippo Gorini che, con un concerto intitolato ‘Nella nebbia’, si è esibito, la sera di venerdì 17, con un programma affascinante che, attraverso ritmi e melodie, ci ha trasportati fuori dalla sala da concerto lasciandoci sospesi in ambienti sublimi.

Qualche ora prima del concerto, ho avuto il piacere di prendermi un caffè con Filippo e Francesco Parolo che, nella prima parte della serata, ha accompagnato il pianista caratese con le tecnologie della musica elettronica. Ovviamente dalla nostra chiacchierata ne è uscita un’intervista che oggi condivido con voi!

Questa sera aprirai il tuo concerto con un brano dal nome “Altra Voce” che è un omaggio di Gervasoni a Robert Schumann. Come rilegge, secondo te, Gervasoni la musica di Schumann?

Quello che a Gervasoni interessava in questo brano era osservare la musica di Schumann dalla parte delle voci interne che l’animavano. Si sa che l’ultimo Schumann sentiva voci di spiriti, angeli, demoni e diceva di sognare compositori che gli portavano melodie, temi; questa era la malattia mentale che di fatto l’aveva compromesso ma che, in qualche modo, possiamo dire sia stata una parte fondamentale del suo genio, ciò che gli ha permesso la musica e Gervasoni, con questa elettronica posizionata direttamente dentro il pianoforte, è come se cercasse di tirare fuori le voci interiori della musica del compositore tedesco. Sono riletture di cinque pezzi di Schumann in cui Gervasoni aggiunge o trascrive delle parti per elettronica con un’operazione che, secondo me, ha tanta poesia e tanto fascino ed è estremamente commovente da ascoltare.

Filippo Gorini e Francesco Parolo mentre eseguono ‘Altra voce’. Foto di Marco Dal Carobbo

Il nome del concerto di questa sera prende spunto da uno dei brani che suonerai, ossia da “Nella nebbia” di Janáček. Perché secondo te per Janáček la nebbia è così importante tanto da dedicargli un intero pezzo? Inoltre, come la evoca e che cosa ne fa nella sua composizione?

A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, la musica cosiddetta a programma, ossia ispirata in modo molto diretto a immagini, quadri, romanzi o a delle idee, delle tematiche, diventa molto importante nella tradizione della musica boema e della musica della Repubblica Ceca, basti pensare anche solo a Dvořák, in cui la presenza delle immagini provenienti dal mondo naturale e dalla tradizione popolare è fortissima. Anche in Janáček la natura ricopre una parte importante: pensiamo alle sue tre grandi composizioni per pianoforte, una è una Sonata che è ispirata a un evento sociale reale, mentre le altre due sono il Ciclo Su una sentiero ricoperto di rovi, ispirato proprio al mondo della natura, dei villaggi e della vita quotidiana nella Repubblica Ceca rurale, e Nella nebbia, che già dal nome evoca un’immagine pittorica, quasi impressionistica, dal simbolismo molto forte. Ascoltando questa composizione abbiamo proprio l’impressione di vedere dei riflessi di luce, con un paesaggio dagli elementi coperti e svelati a seconda di come si alza o si abbassa la nebbia, ed è qualcosa che poi riflette uno stato d’animo interiore estremamente ambiguo, sia dal punto di vista psicologico che poi, nel pezzo, nell’uso dell’armonia. È un brano che personalmente trovo bellissimo, Janáček fa un uso del colore, del clima, dell’armonia, che è veramente unico e che, nonostante la musica, si lega in qualche modo al tipo di scrittura del tardo Schumann, a cui si riallaccia anche il brano di Gervasoni ed è questo il motivo per cui li ho voluti avvicinare.

Secondo te, in che modo i compositori che questa sera suonerai, Schumann, Janáček e Schubert, vedono la natura?

Sono tutti compositori di fatto romantici, Janáček è del primo Novecento ma in qualche modo ha un linguaggio molto tardoromantico per quanto innovativo in maniera dirompente. La natura era quindi una componente molto importante dell’immaginario poetico e pittorico di quel tempo, ed è quella natura del sublime, dei giochi di luce impressionisti. Per cui, per questi musicisti, si fonde la visione paesaggistica del tempo con gli ambienti che hanno caratterizzato la vita di ciascuno: il Nord della Germania per Schumann, l’Austria, le valli intorno alla città di Vienna per Schubert e la campagna della Repubblica Ceca per Janáček.

Filippo Gorini. Foto di Marco Dal Carobbo

In che modo, secondo te, la liederistica di Schubert entra all’interno delle grandi forme delle sue sonate? In particolar modo all’interno della 894, che suonerai stasera.

Sicuramente questa sensibilità per l’armonia, per la capacità di scrivere bei temi, per le melodie, che solo per come cambia l’accompagnamento ci parla in modo diverso, viene dallo Schubert dei Lieder, tuttavia, quello che vediamo, soprattutto nelle ultime sue sonate, è una rinuncia alla bellezza facile dei temi che caratterizzano un Lied. Schubert inizia a concepire temi sempre più rarefatti, se si pensa anche al primo movimento di questa Sonata in Sol Maggiore, il tema si riduce a un ritmo e un accordo. Durante i venti minuti del primo movimento, sono l’uso del tempo, dell’armonia e della capacità di cambiare l’intero significato poetico di questo tema solo mutandone il contesto armonico a creare la bellezza di queste lunghe forme. Quindi è un modo di scrivere che in realtà è molto diverso da quello del Lied, nonostante poi riaffiorino, nel Trio, nel Minuetto, nella parte centrale dell’ultimo tempo o nel secondo movimento, anche dei temi dalla cantabilità molto più spiccata.

So che quest’anno ti stai dedicato a un progetto molto ambizioso dal nome “The Art of Fugue Explored”, ce ne puoi parlare?

Certo, L’Arte della fuga è un’opera straordinaria, complessa, estremamente vasta (anche di dimensioni), che mi ha affascinato fin dagli anni del Conservatorio quando ho cominciato a leggerne alcuni contrappunti. Ho continuato poi a studiarla in sottofondo durante gli anni successivi, soprattutto dopo il Concorso Beethoven, senza però mai presentarla in concerto se non a volte qualche estratto in qualche programma particolare o come bis. Quando è arrivata la pandemia è arrivato per me anche il premio del “Borletti Buitoni Trust Award” che mi ha dato un budget sufficiente a cominciare un progetto artistico. In qualche modo sentivo questo futuro lavoro essere vicino all’opera bachiana. Così, ho utilizzato il tempo di solitudine, di studio concentrato, senza concerti, senza impegni e scadenze quotidiane, a cui ci ha costretti la pandemia da marzo dell’anno scorso in poi, per focalizzarmi in modo quasi esclusivo su quest’opera concependo un progetto interessato a portare L’Arte della fuga al pubblico nel modo più vario e ricco possibile proprio al fine di incrociare l’interesse dell’uditorio più ampio che potessi immaginare. Con la squadra che mi segue in questo progetto, stiamo quindi realizzando un documentario in cui, per ogni contrappunto de L’arte della fuga, c’è una personalità del mondo culturale contemporaneo, che indaga sul significato che la musica di Bach ha per loro. Quindi l’idea è quella di vedere Bach con gli occhi di un matematico, di un architetto o di un pittore e, con grande sorpresa, hanno aderito al progetto alcuni dei pittori, registi e uomini di cultura più importanti del tempo. Questo progetto, che dovrebbe uscire nel 2022, mi sta donando tanti spunti di riflessione.

Tu stai dedicando anche una buona parte della tua carriera alla musica contemporanea. Secondo te, il compositore di oggi, svolge o potrebbe svolgere una funzione sociale di rilievo all’interno di una società tutta incentrata al consumo e non sempre molto attenta ai bisogni della natura e dell’ambiente?

È una domanda complessa… prendiamo un esempio: il compositore che suono stasera, Gervasoni, è un musicista che pone una riflessione molto forte sulla società odierna, sui suoi vizi e sui suoi problemi. La sua opera pianistica più importante è il ciclo di Prés, ossia ‘prati’, in cui ci mostra come il mondo della natura sia per lui oggetto di meditazione profonda. Dopodiché trovo che molto spesso i grandi compositori non scrivono con un messaggio politico o sociologico in modo così esplicito, non noto mai una forzatura, non è mai un messaggio così in superfice da essere eclatante, è più una visione del mondo, una sensibilità a cui vorrebbero portarti nelle loro opere e che è racchiusa nella bellezza artistica di ciò che scrivono. Quindi credo fondamentalmente che ascoltare e fare musica contemporanea possa arricchirci nel pensiero, nell’anima, nel modo di vivere e di vedere il mondo, spesso più per il valore artistico dell’opera in sé che per un desiderio diretto dei compositori che la scrivono.

Filippo Gorini. Foto di Marco Dal Carobbo

Secondo te che ruolo hanno o dovrebbero avere i giovani musicisti all’interno del panorama musicale e culturale italiano?

Secondo me c’è bisogno di idee e identità molto forti e precise oggigiorno, il modo di suonare, le idee interpretative, la scelta che un musicista fa dei brani, devono avere dietro delle motivazioni profonde e anche personali, e non il voler semplicemente costruirsi una carriera musicale, soddisfare un pubblico e cercare di avere tanti concerti in agenda. Tutta la musica che è a noi oggi possibile suonare, nasce con delle motivazioni e con un’urgenza comunicativa che è molto più profonda di queste finalità, e in qualche modo spero che noi giovani che scegliamo di proporre queste opere, lo facciamo perché davvero consideriamo come nostri i bisogni dei compositori che l’hanno scritta. Il nostro ruolo è quello di dare una voce sincera a queste opere che hanno fatto la storia e devono continuare a farla.

(Rivolgendomi a Francesco Parolo). Mi racconti del tuo contributo al concerto di stasera?

Certo, il compositore di oggi fa spesso uso delle tecnologie, se ne serve per arricchire le proprie composizioni in un modo che non gli sarebbe possibile altrimenti e, quando lo fa sapientemente, in genere arriva a segnare momenti importanti per la storia musicale. Nel corso del ‘900 l’impiego dell’elettronica e delle tecnologie ha avuto un ruolo importantissimo, inizialmente ha permesso ai musicisti e ai compositori di registrare la propria musica e di poterla quindi diffondere e farla conoscere al mondo e, successivamente, soprattutto negli ultimi anni, l’elettronica a cominciato a essere utilizzata “live” diventando parte integrante dei concerti di musica classica. Basti pensare che oggigiorno i corsi di composizione in conservatorio si servono di determinati programmi di tecnologia musicale che permettono al giovane compositore di ampliare i propri orizzonti e andare oltre ai limiti dei singoli strumenti musicali. Questa sera l’obiettivo è quello di instaurare un dialogo tra le diverse voci di Schumann: lo strumento utilizzato si chiama Exciter, ed è un dispositivo elettronico formato da un diffusore del suono che fa vibrare una membrana che si poggia direttamente all’interno della tavola armonica del pianoforte. Il risultato è che la musica preregistrata che io lancio dal mio computer uscirà direttamente dal pianoforte e andrà a dialogare con Filippo. La parte innovativa ed estremamente interessante di questo brano è proprio il dialogo tra una parte suonata dal vivo e una parte registrata lanciata in tempo reale che sgorga da un unico strumento. L’idea di far suonare una voce interiore al pianoforte non solo amplifica la poesia della composizione, ma gli conferisce un carattere molto più schumanniano: Gervasoni ha reso udibili a tutti le voci e i fantasmi interiori dell’ultimo Schumann.  

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