La Traviata immersiva di Jacopo Spirei

Abbiamo incontrato il regista d'opera Jacopo Spirei in occasione del seminario "Design for Opera" organizzato dall'Università di Firenze

Firenze è da sempre, per l’Italia e per il mondo intero, uno dei centri culturali, artistici e musicali più vivi e fiorenti della nostra storia. Grandi intellettuali, artisti, poeti e musicisti sono nati o hanno operato nel capoluogo toscano: da Dante a Machiavelli, dai Medici alla Camerata ‘de Bardi. Dunque quale miglior città di Firenze per ospitare una serie di incontri sull’Opera, che lì è nata e che si è poi diffusa in tutto il mondo, rimanendo ancor oggi una delle forme di spettacolo più apprezzate di sempre. Lo scorso 13 maggio è partito infatti il seminario “Design for Opera”, organizzato dall’Università di Firenze in collaborazione con Manifatture Digitali Cinema.
La responsabilità scientifica del progetto è affidata a Debora Giorgi, docente Design al Dipartimento di Architettura, e vede inoltre la partecipazione di Luigi Formicola, architetto e Interior Design, di Renato Stasi, Fashion Designer e di Jacopo Spirei, uno dei registi d’opera più importanti del panorama internazionale, apprezzato per le sue regie sempre fresche e innovative (Spirei è stato nostro ospite, insieme con Alberto Mattioli, al #CircoloDelleQuinte, in una puntata dedicata al teatro di Händel, moderata dal sottoscritto e dal parallelo Alessandro Tommasi).
Il seminario, rivolto agli studenti del corso di Architettura dell’Università, si propone di riflettere su come il Design possa contribuire a rivitalizzare il settore dello spettacolo dal vivo, in particolare quello operistico, anche attraverso le potenzialità dei canali multimediali e delle nuove tecnologie al fine di veicolare valori, cultura, sentimenti e idee: una mission che accomuna il lavoro del designer a quello regista. Attraverso la mise in scène di una delle opere più celebri e apprezzate, La Traviata di Giuseppe Verdi, si sperimenterà la possibilità di creare un fertile e rinnovato dialogo fra teatro reale e digitale, aprendo nuovi scenari di fruizione dell’opera stessa ma creando anche nuove prospettive lavorative per i giovani designer.

Incuriositi da questa iniziativa, abbiamo deciso di incontrare Jacopo Spirei per farci raccontare più nel dettaglio il lavoro che sta conducendo coi ragazzi e per riflettere sui nuovi possibili scenari dell’opera di oggi.

 

Che scopo ha il seminario, come si articola e cosa vuoi ottenere come regista?

Il seminario è strutturato in una serie di incontri con me e con alcuni esperti di costume e di allestimenti in genere. Essendo i partecipanti fondamentalmente designer di interni, di moda e architetti, quindi gente abituata al disegno ma poco al mondo del teatro, abbiamo fatto una piccola introduzione sul linguaggio teatrale; con mia grande sorpresa ho notato che tutti sono rimasti affascinati e appassionati dall’opera. Tra l’altro il seminario ha avuto un’affluenza record, e questo dimostra che in realtà il teatro (e l’opera) ha un ascendente incredibile su questi ragazzi.
All’inizio degli incontri ho presentato il lavoro di regia e messa in scena, una spiegazione abbastanza ampia di quello che è il mio lavoro e del lavoro che saremmo andati a fare. C’è stata una prima fase di discussione dell’opera e poi una fase esecutiva in cui mettere insieme dei progetti da discutere.
Abbiamo affrontato La Traviata sotto i vari aspetti – drammaturgici, dei personaggi, delle motivazioni – e questo è stato un incontro fondamentale, perché ha fatto scattare in tutti i ragazzi l’idea che l’opera è una forma d’arte assolutamente contemporanea. È un seminario, tra l’altro, a grande maggioranza di frequentazione femminile, quindi il parlare di Violetta e delle sue motivazioni ci ha portato anche a discutere, per esempio, la posizione della donna nella società di oggi. Poi abbiamo cominciato una vera e propria fase di brainstorming, in cui abbiamo discusso un’idea di un impianto di spettacolo. Da un po’ di tempo sto portando avanti un percorso di ricerca – il quale passa anche attraverso la fondazione di una compagnia che sta per nascere – che riguarda il portare l’opera in spazi non convenzionali e con metodi di narrazione non convenzionali (opera immersiva, diffusa, spezzettata e ricomposta), fatto su titoli che abbiano grande capacità comunicativa e che siano dei capolavori, perché sono solidi e quindi “tengono botta”. Un po’ come avviene con Shakespeare per gli inglesi, ho pensato: chi meglio di Verdi per noi italiani!
Coi ragazzi, quindi, abbiamo lavorato a una drammaturgia diffusa e non lineare, ossia su un’idea di spettacolo che avvenga fondamentalmente in contemporanea: il pubblico ha la possibilità di decidere dove andare, quanto tempo rimanere dentro un atto, in che ordine vederlo (linearmente, quindi I – II – III atto, oppure in maniera casuale). Essendo un loop – ogni atto si ripete tre volte – il pubblico ha la possibilità di vedere tutto o di assistere alla stessa cosa più volte.

In che tipo di spazio è possibile realizzare questa forma di spettacolo?

Abbiamo cercato spazi non teatrali, tendenzialmente spazi industriali – che possono essere suddivisi e ricomposti – ma anche spazi di edifici che erano adibiti ad altro uso e che possono essere riadattati  creando un percorso “a labirinto”.

Lo trovo davvero molto interessante, anche perché portare l’opera fuori dal suo contesto abituale ti permette di ripensarla in un’ottica nuova, in funzione di un diverso spazio scenico.

Esatto, e in questo modo si riesce ad entrare dentro l’opera: creando i diversi ambienti in cui l’opera accade, non stai osservando la camera di Violetta ma sei in camera con lei, tutto intorno a te è la sua stanza. Hai anche il grande vantaggio di avvicinarti molto ai cantanti (questa idea naturalmente è nata prima del Covid, ma si può realizzare coi dovuti accorgimenti) e questo tipo di esperienza è, secondo me, l’ultima frontiera del teatro d’opera. Noi siamo abituati talmente tanto all’inquinamento sonoro, all’amplificazione e al suono riprodotto che un suono così potente, dal vivo e così vicino è davvero un’esperienza unica. L’opera era pensata per un pubblico che di fatto la ascoltava solo ed esclusivamente dal vivo, che aveva un orecchio affinato, mentre oggi abbiamo un problema di volume importante: ci possiamo mettere Traviata nelle cuffie a tutto volume e quindi aspettarci dalle voci una potenza sonora in realtà irraggiungibile, perché è frutto di un artificio tecnologico. Quindi, ripeto, avvicinarsi al cantante ti dà il senso dello sforzo fisico, dell’impegno, della performance vera e propria: in questo modo sei parte di un percorso sensoriale ed emozionale.
Nel seminario, su questo punto di partenza, ci siamo confrontati coi designer. Inizialmente ognuno aveva presentato delle idee, poi ho diviso i 30/35 studenti in quattro gruppi di lavoro – un gruppo che si dedicasse al primo atto, uno al terzo e due gruppi al secondo atto, dividendoli tra la festa di Flora e la parte della campagna – chiedendo loro di creare anche una versione di fruizione online, che non fosse la stessa di quella dal vivo: invece che caricare semplicemente la versione video di quello che succede sul palco, hai dei punti di vista diversi, elaborazioni grafiche differenti, hai un trattamento dell’opera pensata per il digitale.

Visto che hai toccato questo tema ti vorrei chiedere di approfondire maggiormente il lavoro che state facendo sull’opera in rapporto all’interazione tra reale e digitale. Questi due mondi verranno sfruttati per creare due diversi canali di comunicazione, ma mi chiedo anche se avete contemplato l’idea di utilizzare gli strumenti digitali nella performance dal vivo, in loco, creando in un certo senso “un’esperienza digitale al quadrato” per chi sceglie di seguire lo spettacolo in streaming.

Sì, in varie modalità. Innanzitutto chi seguirà da casa avrà la possibilità di influenzare, in un certo modo, alcune parti dell’opera: in sala ci saranno e di proiezioni fatte di commenti live degli utenti e addirittura ci saranno degli elementi legati alle varie feste, dove chi si interfaccia da casa può decidere di cambiare l’atmosfera manipolando le luci e il livello di illuminazione. Inoltre, essendo un progetto pilota, ci sarà un coro virtuale e non in presenza (anche per questioni di Covid), che potrà essere elaborato elettronicamente anche da parte di chi sarà a casa. Il modo di vedere da casa quello che succede è molto più voyeuristico, stile telecamera di sicurezza: hai tante stanze virtuali in cui ti puoi muovere e puoi decidere liberamente quanto restare, quanto scavare nella testa di Violetta. Tutto questo è nato ragionando sul come noi esseri umani ci ricordiamo le cose: la memoria funziona a flash e a cluster di elementi, difficilmente è cronologica.

E l’elemento musicale come sarà reso?

Da un punto di vista musicale costruiremo vari gruppi più ampi e più piccoli (almeno in tempo di Covid), ma ci saranno anche delle elaborazioni elettroniche – soprattutto per quanto riguarda il coro, che altrimenti risulterebbe poco interessante solo registrato e amplificato – per creare un’idea di festa particolare. Al ruolo da dare all’elettronica ho pensato mentre stavo lavorando al primo atto di Traviata, quando ho notato questa cosa incredibile che, tra l’altro, Verdi fa spesso (anche in Rigoletto): il duetto fra Alfredo e Violetta è sul ritmo della musica della festa; è come quando tu finisci nel bagno di una discoteca a parlare con qualcuno e nel frattempo senti il battere della cassa. È davvero geniale, un effetto di straniamento e cinematografico fortissimo che vale la pena evidenziare, anche perché oggi si ha meno conoscenza degli stilemi tecnici dell’epoca: non necessariamente un ascoltatore riconosce che l’inizio di Traviata è una classica musica da ballo. È un discorso di ricerca e sperimentazione teatrale, utile a capire quali linguaggi funzionano sull’opera e che ruolo ha il digitale al suo interno. Trovo che il modo in cui essa venga fruita al momento, tramite il computer o i diversi altri dispositivi tecnologici, sia un po’ troppo passiva e impoverisce veramente molto il prodotto; sono un grande amante dell’opera ma devo ammettere che faccio molta fatica a seguire tutta la rappresentazione in quel modo.

Il regista Jacopo Spirei © Alfredo Tabocchini

Tu condurrai questo esperimento in uno spazio diverso dai luoghi abituali dell’opera. Pensi sia possibile integrare efficacemente realtà e virtualità in teatro?

Io credo che in generale, ma anche e soprattutto se si segue da casa un’opera rappresentata in teatro, sia fondamentale garantire un alto livello di interattività. La cosa che non funziona, soprattutto dal computer, è che tu stai lì, seduto in una posizione abbastanza scomoda, con un audio non necessariamente eccellente, in situazioni in cui l’illuminazione può non essere adatta.
La cosa geniale di come è costruito un teatro è che ti porta dentro per gradi: arrivi, entri dalle porte, hai l’impatto del foyer, entri in sala, ti metti a sedere in una poltrona abbastanza comoda, hai tempo di vedere dove sei e gli altri che entrano, hai molti stimoli visivi (soprattutto nei teatri italiani ci sono molte pitture e sculture), hai l’effetto delle luci che si abbassano e il sipario che si apre. A casa non c’è tutto questo, ti metti seduto aspetti il countdown e poi parte.
Paradossalmente uno dovrebbe potersi fare quasi una regia propria, potendo scegliere cosa vedere e da che angolazione, magari potendo osservare anche dietro le quinte.

Potrebbe essere interessante realizzarlo anche fisicamente in teatro, magari dando agli spettatori dei dispositivi che permettano di esplorare vari punti di vista o di intervenire attivamente e partecipare alla rappresentazione pur stando seduti.

Assolutamente! Questo è un territorio vergine, si può sperimentare tanto. Io sto facendo un po’ di ricerca anche nella direzione della realtà aumentata in Norvegia, anche per capire se veramente la tecnologia serve al teatro; finché non si testa non si può capire se sia un percorso valido o meno.
Nella performance dal vivo questo è particolarmente complesso, perché l’impatto della musica, del canto e della recitazione dal vivo è talmente forte che si tende a bypassare l’elemento tecnologico. Io andai a vedere a Londra una versione de La bohème in cui mandavano l’orchestra in cuffia mixandola con l’audio in tempo reale dei cantanti sul palco; dopo un po’ che stavo lì dentro con le cuffie ho sentito il bisogno di ascoltare dal vivo le voci dei cantanti, e alla fine mi sono fatto mezzo spettacolo senza le cuffie. Voleva essere uno spettacolo immersivo, ma in pratica ha sortito l’effetto opposto.
In generale ci sono stati degli esperimenti molto interessanti e, siccome l’opera è sempre stata una frontiera di sperimentazione, ho impostato il lavoro coi ragazzi del seminario in quest’ottica.

Sicuramente stai portando una nuova prospettiva artistica, umana e, perché no, lavorativa ai partecipanti di “Design for Opera”. In che modo, invece, questa esperienza sta arricchendo te sotto il punto di vista umano e professionale?

È un’occasione di crescita fantastica, intanto perché hai a che fare con non musicisti. Da una parte abbiamo acquisito nuovo pubblico per l’opera, ora che molti si sono incuriositi, quindi abbiamo allargato il pool del pubblico per garantirci un futuro [Ride]. Poi essendo tutti ragazzi di 23/24 anni sono immersi in un mondo molto diverso dal mio, sono cresciuti con Internet, con gli smartphone; il loro modo di pensare tecnologico e digitale influenza il loro modo di vedere le cose, e di conseguenza il mio. Non avendo confidenza con l’opera o un timore reverenziale nei suoi confronti i ragazzi sono “anarchici”, hanno un punto di vista trasversale e per questo ti aprono molte porte all’immaginazione, travalicano il confine di cosa si può e non si può fare nell’opera sia dal punto di vista estetico/di design che concettuale.
Entrare a contatto con loro mi ha fatto pensare a quanto poco cambi l’essere umano e quanto invece cambino molto i modi in cui esprime le stesse cose; è uno dei motivi per cui, secondo me, l’opera è eterna: in fondo i problemi sono sempre quelli ma le soluzioni sono tante.

I lettori sicuramente si staranno ponendo la mia stessa questione: arrivati a questo punto del seminario, ora che avete presentato, discusso e alla fine approvato una serie di macroprogetti che poi svilupperete concretamente, qual è il prossimo step?

La prossima fase sarà far partire una piccola raccolta fondi per creare un progetto di fattibilità. Allo stesso tempo è il momento di riprendere in mano i progetti e dar loro una uniformità, per i quali cercherò di creare una cosa organica (essendo 4 progetti diversi i linguaggi sono a volte anche distanti). Tra settembre e ottobre dovremmo già presentare il progetto, insieme con piccoli elementi di messinscena. Una volta capito il budget, stabiliti i luoghi e la logistica ci sarà, naturalmente, la vera e propria rappresentazione.

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