Frederic Rzewski, raccontato da chi lo ha conosciuto

Le testimonianze di amici e colleghi per un grande musicista

Quando ho incrociato per caso la notizia della morte di Frederic Rzewski sui social network ho avuto quella brutta sensazione che si ha quando muore un parente lontano al quale ci si sente però molto legati. Le incisioni della sua musica sono un caposaldo di come si “sta al pianoforte” nella musica contemporanea: ho letteralmente consumato il cofanetto di Igor Levit con le sue Variazioni su El Pueblo Unido, accostate alle Goldberg e alle Diabelli in una scelta audacemente simbolica. La sua presenza a Roma e in Italia ha rappresentato un unicum nella musica contemporanea del nostro paese.

Ho un solo ricordo di Rzewski vissuto in prima persona, ma è paradossalmente esemplificativo della sua personalità: la vigilia del suo ultimo – splendido, tra l’altro – concerto alla IUC di Roma era stata salutata da una conferenza organizzata dall’Università La Sapienza. Durante un incontro piuttosto altrimenti privo di particolari sussulti, un incauto professore – non ricordo chi fosse, purtroppo – domandò a Rzewski con tono da grande occasione cosa fosse stato a spingerlo a comporre le sue celebri variazioni sul tema di “El Pubelo Unido”, che ne hanno consacrato la fama, un pezzo dal forte valore simbolico. Rzewski lo guardò, e con candore infantile e in perfetto italiano rispose “i soldi della commissione”, destando un inevitabile sgomento dei presenti.

Disprezzava e temeva la retorica come la morte, ma era sincero nel credere nei suoi ideali politici, tendenti all’anarchismo. Era di estrazione umile ma non era affatto preoccupato dall’arricchirsi, la sua musica l’ha caricata quasi tutta su IMSLP, potete controllare. Se Pousseur non gli avesse offerto un posto come docente a Liegi, difficilmente avrebbe mai avuto incarichi stabili, per intenderci. In definitiva chi lo ha conosciuto e lo ha ricordato in questi giorni concorda nel dire che era una persona molto buona e molto vera.

Rzewski si è formato in un periodo in cui la musica e l’appartenenza politica avevano stretto legami profondissimi. Racconta il compositore Luca Lombardi che Rzewski partecipava, sia in Italia che in Germania – Repubblica Federale e Repubblica Democratica – alle manifestazioni dedicate alla musica politicamente impegnata, portando all’interno di esse un punto di vista, musicale e politico, innovativo, che fungeva da fermento attivo e conduceva spesso a soluzioni inaspettate.

Non è mai stato una persona venale, tantomeno ricco, tanto da non risultare neppure come autore delle sue celebri Variazioni, bensì arrangiatore. Questa è una stranezza che dipende anche dal modo in cui viene gestito il diritto d’autore negli Stati Uniti, ma poco importa. Fin dagli esordi il nostro ha sempre vestito il suo “personaggio” di un anarchismo contraddittorio, senza sentire mai bisogno di cambiare abito.

Al di fuori della terra nativa americana, il legame più forte probabilmente lo aveva stabilito proprio con l’Italia. Una tappa fondamentale della sua formazione sono stati gli studi con Dallapiccola, a Firenze. E altrettanto importante era stato il suo successivo passaggio a Roma, dove con Alvin Curran e altri compositori aveva fatto nascere il collettivo “musica elettronica viva”, di cui era stato un vero e proprio animatore sul finire degli anni ’60 e con cui si era gradualmente affermato.

Il suo interesse per l’elettronica era stato poi gradualmente superato da quello per l’improvvisazione e per la commistione musico-teatrale che permea gran parte della sua produzione pianistica. È frequente trovare momenti di vera e propria recitazione richiesta ai pianisti che affrontano le sue partiture, talvolta addirittura pensate per uno “speaking pianist” a cui vengono affidati i compiti più disparati, che vanno dal fischiettare linee, melodie, parlare o declamare testi.

“Negli Anni Sessanta, prima di composizioni come “Coming together”, “Attica” e poi le famose variazioni sull’altrettanto famosa canzone di Sergio Ortega, Rzewski, oltre a essere attivo come pianista, era interessato soprattutto all’improvvisazione, che era un modo di reagire in modo anarchicamente dissacrante, al perbenismo e all’accademismo di tanta musica contemporanea, diventata epigona di se stessa. Parlare con lui era stimolante, perché era critico, ironico, paradossale, con un approccio ingenuo, in realtà profondamente filosofico, alla realtà, di cui metteva a nudo e demoliva quelli che venivano generalmente accettati come assiomi”.

La vera costante delle sue composizioni è il granitismo, termine utilizzato in una definizione molto felice di Nicolas Slonimsky, che di lui parlava come di “un pianista tecnico e prepotentemente granitico, capace di depositare enormi massi di materia sonora lungo la tastiera senza però rompere lo strumento.” La musica di Rzewski in effetti ha una caratteristica fisicità, che è qualcosa di più di quella da cliché. In tutte le sue pagine pianistiche c’è un elemento fisico tanto a livello percettivo, quanto per lo sforzo che richiede al malcapitato pianista che si trova ad eseguire le sue pagine. Spesso il malcapitato era lo stesso Rzewski, che ha continuato ad eseguire le sue partiture fino ad ottant’anni suonati ed oltre. Racconta il pianista Emanuele Arciuli del suo un innato istinto, sempre vivo nonostante trascorresse relativamente poco tempo col suo strumento. “La sua routine di studio prima di un concerto era semplicemente l’esecuzione del brano dall’inizio alla fine, una o due volte, senza bisogno di soffermarsi sul perfezionare questo o quel passaggio più impegnativo. Le cose sarebbero andate poi al loro posto.”

A proposito di Arciuli, Rzewski e granitismo. Non manca proprio nulla, in questo video

Altra cosa singolare è il fatto che non abbia “inventato” molto, anzi quasi nulla, rispetto ad altri come Ligeti, Cage, Stockhausen che lavoravano nello stesso periodo. Il suo pianismo era molto più legato alle gestualità di Beethoven, Liszt o Bartòk, Ives al più, che non ai suoi contemporanei. E a proposito di contemporanei, Lombardi custodisce un aneddoto che spiega in maniera significativa il legame ma al tempo stesso il distacco dal mondo dell’avanguardia a lui contemporanea. “Essendo uno stimatissimo pianista, Rzewski veniva spesso richiesto come esecutore di nuovi brani, come nel caso della prima esecuzione del Klavierstück X di Karlheinz Stockhausen nel 1962 al Festival di Palermo, un brano che prevede molti cluster e glissando. Per scivolare meglio sulla tastiera, Rzewski aveva adottato la soluzione di cospargersi, nelle ampie pause tra una sezione e l’altra della composizione, le mani di talco, con il risultato di sollevare, durante l’esecuzione, nuvole bianche. Sui giornali apparvero recensioni sarcastiche sulla decadenza della musica contemporanea, che faceva ricorso a questi ridicoli coup de théâtre e lo stesso Stockhausen non apprezzò particolarmente la cosa…”.

Un’altra differenza sostanziale che pose Rzewski sempre in una posizione ben distinta rispetto alla scena musicale che gli si è sviluppata attorno: il desiderio di arrivare al pubblico. “Rzewski si è sempre preoccupato molto della comunicatività della sua musica,” racconta di nuovo Arciuli, “perché era convinto di avere dei messaggi da far passare, e ci riusciva benissimo. Alcuni ritenevano questa cosa un semplicismo, ma non credo che gliene importasse molto, anzi. Riusciva a mantenere vivace il suo fervore intellettuale senza bisogno di farne sfoggio.” E senza retorica, naturalmente. E possiamo affermare oggi che questo atteggiamento ha pagato.

Lombardi osserva che “Rzewski, musicista costituzionalmente dissacrante, all’inizio spiazzò il pubblico della musica contemporanea con le sue variazioni su “¡El Pueblo unido, jamás será vencido!”, che sono un pezzo di impianto tradizionale, sia pure “radicalmente” tradizionale; ma quello che da un altro compositore non sarebbe stato accettato, e sarebbe stato giudicato conservatore e rétro, da Rzewski, grazie al suo carisma, venne invece accettato, tanto che il brano è stato eseguito anche in rassegne dedicate specificamente alla musica sperimentale. Forse perché c’era l’alibi dell’impegno politico e l’afflato politico e “nazional-popolare” della composizione? Non so, sarebbe una questione da approfondire. E comunque questo non toglie nulla all’importanza musicale e ideale delle Variazioni, che sono un monumento alle aspirazioni di cambiamento politico, sociale ed etico che animavano tanti di noi in quegli anni”.

Come ho avuto di dire per Luigi Nono che, se avesse scritto anche solo “Il canto sospeso” andrebbe ricordato come un grande compositore, così Rzewski è grande anche solo per le sue variazioni”.

 

 

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