Corrispondenze n. 8: Non un silenzio

"I suoni rispondono ai colori": il carteggio tra Andrea Liberovici e Gianfranco Vinay

Dopo aver viaggiato a lungo attraverso il laboratorio creativo di Andrea Liberovici, portati per mano da una guida di prim’ordine come Gianfranco Vinay, la corrispondenza tra i nostri due protagonisti si chiude nelle note di “Non un silenzio” e nel ricordo del musicologo Giovanni Morelli, beau père del compositore. Nel decennale della sua scomparsa la Fondazione Ugo e Olga Levi, la Cà Foscari e l’Associazione Morelli dedicheranno un concerto del Quartetto Prometeo preceduto dai ricordi di Nuria Nono Schoenberg e Fortunato Ortombina.

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Gianfranco caro,

eccoci all’ultima corrispondenza. Ultima? Conoscendoci, sicuramente, no. Credo che la scelta di condividere le nostre mail, magari modificandole un po’ perché consapevoli che proprio personali non sono, sia stata una scelta giusta. Non voglio autocelebrarci ma, fra i tanti feedback che mi sono arrivati, la parola più ricorrente per definire le nostre riflessioni in pubblico è stata una parola importante e, a quanto pare, antica: generosità. Rispetto a questo complimento, che fa sempre piacere, la cosa che più mi ha colpito è stata lo “stupore“… ma come non avete preso dei soldi? E poi il dubbio sotterraneo a volte confessato a volte no: ma allora per quale ragione avete utilizzato il vostro tempo? Direi per la stessa ragione per cui se vedo una vecchietta per strada con due borsoni della spesa pieni e pesanti le chiedo in automatico: serve una mano? Senza pormi il problema se questa azione “ripagherà“, in qualche modo, l’utilizzo del mio tempo prezioso. Ma questa attitudine non mi sembra possa esser definita come generosa ma come l’a-b-c del vivere. Credo sia assolutamente naturale e, soprattutto, salutare condividere le proprie idee perché, nella condivisione non mediata dal denaro o da un qualsiasi tornaconto personale ma dal semplice piacere della ricerca, nascono spesso idee nuove e di qualità. Sono sempre più convinto che ricercare il valore delle relazioni fra esseri umani sarà una sorta di “manifesto“ di questo nuovo millennio proprio grazie al suo opposto. Alla violenza di questo muro di tecnocratico, populista e idiota che ci appare, in questo momento, come invalicabile. Il titolo “Non un silenzio“, del brano musicale che chiude le nostre corrispondenze, chiude anche “Scenari della lontananza, la musica del Novecento fuori di sé“ libro di Giovanni Morelli. Raccolta di saggi sulla musica del Novecento e sul suo allontanarsi e sparire nel nulla. Giovanni ci dice che questo nulla in cui ci è dato di vivere non è muto, non è assenza ma catalogo di incognite. E quindi ci abbandona in questo cambio di paradigma che però, come lui stesso scrive in un altro saggio contenuto negli scenari e anch’esso dedicato a Kurtág, non è cancellato: (…) la conferma di come nessun paradigma sia mai (del tutto) cancellato dal suo superamento.   

In questo ambito, per me molto complesso sia musicalmente che affettivamente, ho optato per una scrittura musicale dichiaratamente novecentesca. Rinunciando volutamente ad indagare il presente ma restando all’interno del libro. Ho quindi prelevato alcuni concetti di Scenari della lontananza provando ad utilizzarli come una sorta di libretto da musicare. Libretto senza cantanti ma con 17 voci. Le voci  di Yuri Bashmet e dei Moscow Soloists.

Ti allego quindi il programma di sala della prima esecuzione di Non un Silenzio, per Viola, Orchestra d’archi e Celesta eseguita da Yuri Bashmet e i Moscow Soloists e tenutasi alla Fenice di Venezia il 12-03-2014 e un piccolo trailer di 6 minuti di quella serata, oltre alla partitura.

Un abbraccio A.

Corrispondenze

 

Non un silenzio

 

Un accordo indecifrabile perché difficile, raggrumato, ed anche perché proveniente da uno strumento a suoni totalmente risonanti, di timbro in timbro differentemente estinti, nel tempo della sparizione della sonorità nell’aria che quella sonorità ha generato e che quella sonorità spegne. Quindi nient’altro, perché è giusto che nella rappresentazione di quel che resta, oltre la lontananza, e dopo la sua perdita materiale ci sia solo, e proprio solo, il profondo nulla. Non un silenzio.

 

Con queste tre parole: non un silenzio, Giovanni chiude il libro Scenari della lontananza del 2003, raccolta di saggi sulla musica occidentale del secondo ‘900. Questa minuscola frase di tre parole è, a mio avviso, uno dei suoi tanti momenti di genio, non soltanto perché arriva al termine di un’approfondita indagine sulla dissolvenza incrociata, lenta e lontana fra il profondo nulla e le grandi musiche d’arte del ‘900, abbandonandoci poi all’improvviso davanti a una porta spalancata sul vuoto e rimettendo, di fatto, tutto in discussione, ma perché, trattandosi di musica utilizza una parola legata all’ascolto: silenzio, che come sappiamo, dopo il ’900 è di fatto parola inattiva. La perdita materiale del suono non è un silenzio semplicemente perché il silenzio, come ci dicono sia la fisica contemporanea che Cage, non esiste. Ora sappiamo che lo spazio è vibrazione e quindi “suono”. Siamo dentro a un “suono“ più grande, viviamo in questo suono, ma la nostra protettiva soglia di udibilità, non è tarata per udirlo. Ho avuto la grande fortuna di nascere e crescere in una famiglia molto poco silenziosa. Mio padre Sergio (compositore), mia madre Margot (musicista, regista e potrei continuare con una parentesi lunghissima vista la sua strabordante creatività) e Giovanni. Sono cresciuto con Giovanni e mia madre da quando avevo due anni e Giovanni ne aveva ventidue e forse è anche per questa ragione e per la quantità di musica che si ascoltava e si produceva in casa, che ho sempre pensato intimamente che anche noi, la nostra famiglia, tutti gli esseri umani e i gatti i criceti e le foglie del giardino fossimo “corpi sonori” come gli strumenti che vedevo in casa, chitarre, violoncelli ecc. e di conseguenza avessimo un vuoto in cui tutto nasceva e risuonava. Così il giorno che alle elementari hanno tentato di spiegarci il significato della parola anima l’ho naturalmente interpretata come sinonimo di suono. A ognuno il suo o i suoi. Imprendibile e inudibile come il suono dell’universo sconosciuto al nostro ascolto a meno che non venga abbassato o alzato elettronicamente alla portata del nostro udito.

 

L’anima dell’uomo
è simile all’acqua:
Dal cielo viene
al cielo sale,
e di nuovo giù
sulla terra cade
variando in eterno.

 

Così inizia il Canto degli spiriti sopra le acque di Goethe musicato da Schubert. Ho immaginato nel mio lavoro preparatorio di sostituire la parola anima con la parola suono e da questo azzardo è iniziata l’elaborazione del dispositivo armonico e formale (che illustrerò più avanti) per questo brano dedicato a Giovanni e alla dolce e dolorosa presenza della sua lontananza.

 

Travestimento

 

Edoardo Sanguineti, con cui ho avuto l’onore di collaborare per quindici anni fino alla sua scomparsa nel 2010, indica una strada precisa agli uomini di lettere che credo possa essere applicata agevolmente anche a chi s’appresta a scrivere musica oggi: il travestimento. Non c’è nessuna nota/suono, temperato o stemperato, che non sia già stato messo in scena. Nel momento stesso in cui viene udito vuol dire che è già stato rappresentato e nell’attimo in cui si decide di reinterpretarlo (e quindi reinventarlo attraverso l’arte della scrittura) inevitabilmente lo si tradisce/traveste. La prassi di Edoardo, applicata alla parola, nettamente agli antipodi del postmodernismo del copia-incolla tende, e ci riesce egregiamente, a una sorta di rifondazione stessa del linguaggio attraverso la poesia. Poesia estremamente personale in cui però, se si vogliono proprio cercar le fonti dei tradimenti/travestimenti, c’è solo l’imbarazzo della scelta da Dante ai Sex Pistols e oltre. Modus operandi peraltro molto simile a quello applicato da Giovanni in relazione alle musiche. Utilizzate per le sue ricerche in modo libero dalle gerarchie accademiche o di mercato (alto e basso vecchio e nuovo ecc.) e analizzate e ripensate come un unico grande flusso della storia sociale e antropologica dell’uomo. Due grandi umanisti. Tratto fondante della loro eredità.

 

Impronte

 

Ma veniamo alla musica. La letteratura per viola e orchestra, soprattutto dopo la generosa spinta propulsiva di un gigante come il M° Bashmet è molto cresciuta durante il ’900. Come affrontare quindi una scrittura in un terreno già così ricco di possibili saturazioni grammaticali? Per me, l’unica modalità è quella del travestimento di cui sopra, guidato, non dalla ricerca di ulteriori sintassi (il discorso che parla del discorso) ma unicamente dal sentimento di profonda gratitudine che ho per Giovanni. Così ho strutturato il brano, evitando di riferirmi frontalmente a lui (non credo gli sarebbe piaciuto), utilizzando come guida tre dei suoi disegni/quadri del 1968 facenti parte di un ciclo molto più ampio dedicato a mia madre. Sono sorprendenti per vitalità, profondità e delicatezza. Acquerelli misto chine coloratissimi che nel tratto assolutamente consapevole (Giovanni è stato fra le altre cose professore all’ Accademia di Belle Arti di Bologna dal 1965 al 1978) risultano essere, visti in prospettiva, quasi delle impronte di una scrittura a venire. Impronte o partiture a cui dar voce? Credo entrambe le cose.

 

Da e per Giovanni

 

Così ho individuato le note nel suo nome e cognome: G (sol) A (la) E (mi) e ho pensato a Rameau (autore a cui Giovanni ha dedicato molto) e al suo trattato d’armonia secondo i principi naturali in cui si considerano validi per il comporre corretto solo i primi otto armonici naturali di ogni nota. Ho optato per utilizzare i successivi otto armonici, all’epoca disgracieux à l’oreille oggi ampiamente acquisiti. Ho elaborato quindi tre differenti scale ottofoniche (una per ogni nota/lettera) e, rispetto alla forma ho suddiviso il brano rigorosamente in tre. Un movimento per quadro a cui ho applicato le scale (come materiale creativo) seguendo l’ordine “d’entrata in scena“ all’interno del nome e cognome di Giovanni e quindi assommandole. Riguardo alla forma ho tratto ispirazione dalle forme brevissime di Kurtàg a cui il testo di Giovanni in apertura fa riferimento. Sono quindici frammenti (il caso vuole che 15 siano le lettere che compongono il nome e cognome di Giovanni) 13 come le lettere che compongono Non un silenzio con l’aggiunta di un preludio e un postludio. Alritorno di alcune lettere, come per esempio la lettera N, corrisponde un ritorno trasfigurato del movimento musicale della precedente N. Semplificando la struttura:

1 – Non (in G) (preludio+3 frammenti)

2 – Un (G+A) (2 frammenti)

3 – Silenzio (G+A+E). (8 frammenti + postludio).

Giovanni mi ha accompagnato al Conservatorio per l’esame d’ammissione al corso di viola. Ero terrorizzato davanti all’autorità del Maestro che scrutava le mie manine fra le sue per capire se sarebbero diventate le mani di un violista. Giovanni percepita la mia paura mi ha lanciato una rapida occhiata invitandomi a rivolgere lo sguardo verso le scarpe del Maestro. Erano scarpe da tennis uguali a quelle che portavo io e la cosa finalmente mi tranquillizzò. Non un silenzio è solo uno dei tanti grazie che continuerò a dirgli.

 

Andrea Liberovici ottobre 2013

Corrispondenze

Andrea Liberovici e Yuri Bashmet

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Caro Andrea, nel decennale della scomparsa di Giovanni Morelli, offrire come testimonianza del tuo affetto un omaggio musicale da te composto nel 2013 mi pare un bel modo di omaggiare la memoria del tuo «beau père». Quando si crea dietro ispirazione di una persona cara è sempre difficile mantenere la testa lucida in modo da evitare eccessi retorici e concentrarsi sugli aspetti propriamente compositivi. Tu ci sei riuscito prendendo spunto poetico e ancorando la composizione del lavoro ad una frase, che si legge alla fine di un suo bellissimo volume sulla musica del Novecento vista dall’ottica della lontananza: Scenari della lontananza. La musica del Novecento fuori di sé. Anch’io avevo tratto ispirazione dal titolo del libro intitolando a mia volta la raccolta dei saggi di vari autori a lui dedicata, pubblicata nel 2015 (con il sostegno dell’Istituto italiano di cultura di Parigi e dell’Università di Paris 8): Giovanni Morelli, la musicologie hors d’elle. La musicologia «fuori di sé» nel senso che il suo approccio quanto mai pluridisciplinare alla musica era ben fuori delle categorie della musicologia intesa in senso accademico.

Se ti ricordi, avevo intitolato il mio saggio pubblicato in questo libro «Le ‘Gai Savoir’ de Giovanni Morelli. Odyssée ‘digressives’ et ‘mélancolie du Savoir comme Scission». Orbene, l’ultimo capitolo degli Scenari della lontananza è un bell’esempio di «odissea digressiva». Un’odissea che compie un periplo attorno alla «comunicazione lirica, paradigma della lontananza», sottotitolo di questo capitolo conclusivo che si intitola FERNE in caratteri maiuscoli. Sarebbe lungo l’elenco dei diversi episodi di questa odissea, che del resto tu ben conosci. Si parte da un’elencazione di «gesti lirici» (undici in tutto) e da considerazioni circa la tavola della storia di San Giorgio di Paolo Uccello inteso come specimen di «’portatore sano’ della ‘genialità di un lirische Ich romantico antelettera», per giungere all’elencazione degli Inni della monodia cristiana in relazione agli uffici liturgici, circumnavigando poi il pelago wagneriano per riscontrare nel Lied di Brangäne dal secondo atto del Tristan «una memoria acustica squisitamente lontana, lontana anche là dove nasce». E approdare infine ad una ….quasi una cadenza…. introdotta da considerazioni circa Und Pippa tanzt! di Gerhart Hauptmann (del 1906) per concludere con una cadenza finale che chiama in causa un accordo della Musik für Streichenistrumente di György Kurtag :

«Un accordo indecifrabile perché difficile, raggrumato, ed anche perché proveniente da uno strumento [la celesta] a suoni totalmente risonanti, di timbro in timbro differentemente estinti, nel tempo della sonorità nell’aria che quella sonorità ha generato e che quella sonorità spegne. Quindi nient’altro, perché è giusto che nella rappresentazione di quel che resta, oltre la lontananza, e dopo la sua perdita materiale ci sia solo, e proprio solo, il profondo nulla. Non un silenzio».

Dalle tre parole conclusive di questa odissea morelliana sulla «Musica del Novecento fuori di sé» osservata attraverso la categoria della Lontananza, «Non un silenzio», hai tratto sostanza musicale e poetica componendo un brano di una quindicina di minuti per viola, orchestra d’archi e celesta, che venne eseguito da Yuri Bashmet e dalla sua orchestra da camera al Teatro La Fenice di Venezia il (?) ottobre del 2013. Parole conclusive che però, attraverso la negazione, potrebbero anche intendersi, in effetti, come una sorta di riapertura. Hai spiegato in un testo pubblicato per l’occasione in che modo hai articolato la forma e la struttura armonica delle diverse sezioni del brano (15 come le lettere del nome e cognome di Giovanni, e della frase NON UN SILENZIO -13- più un preludio e un postludio). E poiché lo dici tu non vi tornerò più su.

Ma a queste specificazioni circa l’architettura generale vorrei aggiungere qualcosa riguardo al modo con cui articoli la forma dal punto di vista dell’immagine musicale complessiva, derivata dalla combinazione dei diversi elementi (armonici, melodici, ritmici, dinamici, timbrici, contrappuntistici). Il principio generale è sostanzialmente quello ereditato dalla musica seriale (ma non solo) della drammatizzazione degli intervalli, cui, secondo il caso e la necessità poetica, attribuisci caratteri diversi: lirici, drammatici, estatici, etc. L’altro principio è quello della condensazione e della rarefazione della trama contrappuntistica che, soprattutto in connessione con figure di movimento, può originare episodi più o meno meccanici e concitati, secondo anche i livelli dinamici. Quando questi livelli sono bassi (e cioè piani o pianissimi indicati con diversi p, come nell’episodio corrispondente al secondo N di NON) si crea come una sorta di brulichio sonoro; quando invece sono alti (e cioè forti o fortissimi indicati con diverse f, come nell’episodio S di Silenzio) si crea una sorta di motorismo di ascendenza bartokiana o lighetiana. In una sola occasione gli intervalli sono combinati in modo da dare origine ad una melodia vera e propria: all’inizio della sezione Z di SILENZIO, non a caso sottolineata dall’indicazione «cantando dolcemente». Anzi due, perché all’inizio della sezione O sempre di SILENZIO, la melodia, prima esposta dalla viola in forte, è adesso ripresa in pianissimissimo (ppp) da due violini in unisono di ottava. Ed è proprio questa alternanza di piani e forte, di rarefazioni e addensamenti, che allude con il linguaggio puramente significante della musica al significato sibillino dell’espressione verbale di Giovanni. Ma, trattandosi, comunque di silenzio, affermato e negato, bisogna che mi soffermi un poco su questo principio in musica, e soprattutto nella musica moderna e contemporanea.

Come tu sai bene, il silenzio in musica è una nozione poetica che ha ispirato tanta musica del Novecento perché è un concetto limite e paradossale. Celebre è la posizione di Cage per il quale, dopo aver sperimentato che nella camera anecoica ascoltava ancora suoni fisiologici, corporei (il battito del cuore, la pulsazione del sangue, il respiro) elaborò il principio per il quale il silenzio, non esistendo nella realtà fenomenica e umana, silenti sono tutti i rumori ambientali che contengono, che accolgono i suoni musicali propriamente detti. La sua dimostrazione-performance più celebre è quel 4’ 33’’ in cui il musicista (spesso un pianista) si astiene dal suonare di fronte ad un pubblico che ascolta il silenzio circostante, ivi compresi i rumori che il pubblico stesso produce. Ma poi vi sono tanti altri silenzi: il silenzio di Sciarrino  (e anche dell’ultimo Nono), che consiste nell’abbassamento della soglia di udibilità con l’utilizzazione di suoni appena percepibili; il silenzio determinato da lunghissime pause («silence» è il nome della pausa in francese); il silenzio come atmosfere sonore più rarefatte e sospese rispetto ad episodi più vivaci, etc.etc.

Lo stile di silenzio utilizzato nel tuo brano appartiene piuttosto a quest’ultima categoria. Episodi con deboli volumi sonori e sonorità più rarefatte per via di armonici iperacuti risultano più silenziosi rispetto ad altri. E poi vi è il Postludio finale in cui interviene la celesta e le dinamiche sono indicate con tre o quattro p. Le interpunzioni accordali della celesta mi fanno pensare a Rotkho Chapel di Feldman, anch’esso brano funebre con viola concertante, capolavoro di un grande cultore di musica silenziosa.

Riflettendo alla presenza della categoria del silenzio nella poetica e nella prassi musicale del Novecento (ed ora anche nel nuovo millennio), penso che ciò che ne ha stimolato l’emergenza sia qualcosa che ha a vedere con un’altra categoria: quella della fragilità. Categoria per altro costitutiva della musica. A ben vedere, fra tutte le arti, la musica è quella che reca più in sé le stigmate di una realtà fondamentale dell’uomo e del suo desiderio di riscatto nei confronti della sua fragilità costitutiva. Per millenni la musica è stata tramandata oralmente, affidandosi alla memoria collettiva. L’invenzione della notazione ha poi risolto solo in parte i problemi legati alla sua fragilità: gli elementi più importanti per l’esecuzione e l’interpretazione delle opere (tempo, agogica, dinamiche, etc) sono talmente sottili da non poter esser fissati con precisione. L’avvento della registrazione audiovisiva ha certamente contribuito a superare questo impasse, ma solo in parte. Fra le tante registrazioni di uno stesso brano musicale qual è quella più fedele all’originale, alle intenzioni dell’autore? E poi la fruizione musicale, affidata com’è alle capacità di attenzione e di memorizzazione degli ascoltatori, è per sua natura fragile.

Questa fragilità della musica è croce e delizia degli interpreti e dei musicofili, perché espone gli uni e gli altri, con una diversa responsabilità, ad un’esperienza fondamentale: in un tempo limitato ma densissimo, compatto, si sperimenta la fragilità della condizione umana. I suoni nascono, si combinano fra loro e muoiono nel silenzio, pregni di affetti allegri e tristi: come la vita umana. È forse per questo che Nietzsche diceva che la vita senza la musica sarebbe un errore: perché la musica ci pone di fronte alla nostra stessa natura: impietosamente, imperativamente. Ogni opera musicale è come una tranche de vie che si consuma in un tempo che ci fa dimenticare il tempo esistenziale e quello oggettivo: quello psicologico e quello misurabile, il tempo scandito dalle fluttuazioni emotive e il tempo degli orologi,  Chronos. E in questo tempo della musica viviamo tutte le dimensioni temporali: il presente dei suoni che ci investono, il passato della memoria di questi suoni e il futuro di quelli che ci attendono e ci sorprendono. Ma basta uno sbaglio, una distrazione dell’interprete o una disattenzione dell’ascoltatore per distruggere l’essenza di questa vita sonora. Un’ulteriore prova della fragilità della musica.

L’uomo è l’unico animale che ha coscienza della sua natura e che può assecondarla e rendersi degno di essa e della sua umanità. Charles Baudelaire (ancora lui! ma si merita ben queste rievocazioni, tanto più nel bicentenario della nascita: né le 9 avril 1821, à Paris) termina il poema «Les phares» sugli artisti che sono diventati i fari dell’umanità con questi versi:

Car c’est vraiment, Seigneur, le meilleur témoignage

Que nous puissions donner de notre dignité
Que cet ardent sanglot qui roule d’âge en âge
Et vient mourir au bord de votre éternité.

La nostra dignità, in quanto esseri umani, è di accettare questa fragilità come un’essenza costitutiva dell’uomo e renderla, per quanto è in nostro potere, intensa e sopportabile, a sé e agli altri. Questa consapevolezza, che dovrebbe farci più umani, accende invece spesso desideri di riscatti mondani o ultraterreni che, indotti anche dalla paura di tutto (dell’esistenza, delle malattie, della povertà, della morte, etc) su cui speculano i demagoghi di tutti i tempi e di tutte le sponde, provoca disastri individuali e collettivi che scandiscono la storia del genere umano: conflitti, guerre, intolleranze, atrocità, totalitarismi…

In mezzo a questa catastrofe in cui viviamo quotidianamente, l’arte è come una sorta di eden, di giardino fiorito, paradiso terrestre nel senso più vero dell’aggettivo (qui ed ora, non poi e di là) che ci permette di sopravvivere nonostante tutto. È una vita nella vita, un’esistenza nell’esistenza, e le opere che costellano la nostra storia sono come isole nell’oceano procelloso della storia. Baudelaire contrappone all’eternità di un dio distante, indifferente, ipotetico, questo atollo di opere d’arte formatosi nel corso della storia («questo singhiozzo ardente che si snoda di età in età»). È come una catena che, costituitasi di epoca in epoca, ci può salvare dal naufragio. È come un’ancora di salvezza che ci può restituire, qui e adesso, la nostra dignità. Ancora una volta un pensiero, di Nietzsche, ci offre uno spunto importante di riflessione: « Was uns nicht umbringt, macht uns stärker». Pensiero famosissimo e perfino usurato. Penso che la sua attualità non derivi soltanto dall’esperienza esistenziale che tutti noi abbiamo provato in qualche momento della vita: l’aumento di energia vitale che deriva dal superamento di una profonda crisi, fisica e/o psicologica. In una civiltà come quella occidentale contemporanea, che tende a occultare l’esito definitivo della nostra condizione di esseri viventi ‘fragili’ – la morte – il confrontarci con essa ed uscirne rinforzati e non depressi è il più grande risultato di questo riscatto energetico. Le tragedie del «secolo breve» pare non ci abbiano insegnato un granché, ma qualcosa forse sì. La pandemia, un virus che mette in ginocchio tutta l’umanità, servirà a farci prendere coscienza di questa realtà, della nostra fragilità costitutiva: presa di coscienza che potrebbe mutare la storia dell’uomo e riconsegnargli un mondo più umano?

Giovanni Morelli, medico oltreché cultore di tante altre arti e discipline fra cui la musica e la musicologia, in scritti di grande profondità e ironia ha messo tante volte in rilievo il rapporto fra la musica e le malattie. A riprova di ciò che prima dicevo del riscatto artistico della fragilità: di come la debolezza si può trasformare in forza creativa. Ma lui stesso era la dimostrazione vivente di questa verità. Nonostante i suoi problemi di salute che lo condussero ad una morte prematura, dimostrò una straordinaria energia nella produzione di un numero notevolissimo di opere saggistiche, letterarie ed artistiche, nella promozione di attività culturali di gran prestigio collaborando con molte istituzioni.

Ma una delle sue più straordinarie qualità umane era questa : riconoscere la debolezza fondamentale della natura umana, dei suoi simili, fossero essi politici, mecenati, colleghi, bidelli o studenti, e anziché approfittarne per incrementare il suo potere, cercare soluzioni conciliatorie per il bene di tutti. Sempre e con chiunque. Mi ricordo che una volta si era sfogato con me di un’ennesima lite fra due suoi colleghi. Ed era al tempo stesso affranto, desolato e incredulo che due persone colte e per altri versi stimabili potessero cadere in tali bassezze.

Nella mia vita non ho mai incontrato santi acclarati e patentati, ma Giovanni è stata la persona che più si avvicinava a ciò che corrisponde a un ideale di santità: un santo laico, laicissimo, puramente umano, umanissimo.

 

Corrispondenze

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Carissimo Gianfranco,

non siamo i soli. Anche l’amico e sodale di molte avventure musicali Mario Messinis, scomparso purtroppo da poco, sosteneva che Giovanni fosse un santo. Per fortuna Giovanni non ha mai sentito questi pareri, almeno lo spero, perché da buon materialista storico non gli avrebbero fatto un gran piacere. Ciò che ho verificato, in questi ultimi 10 anni, è che, le persone che l’hanno conosciuto, frequentato o anche solo incontrato per pochi minuti, ne hanno un ricordo vivido e straordinariamente intenso. Come se Giovanni, spesso con i suoi silenzi, fosse riuscito a toccare qualcosa di molto profondo. Giorgio Busetto, il direttore della Fondazione Ugo e Olga Levi a cui sto donando il Fondo Morelli, libri, documenti, video ecc. nel primo zoom fatto con l’Associazione Morelli ha ribadito, per tre volte consecutive, che Giovanni era buono. Cosa che tutti sapevamo ma che nessuno, soprattutto in un incontro “ufficiale“, aveva mai dichiarato in modo così chiaro e inequivocabile. Ma cosa vuol dire essere buoni? Quella che chiamiamo bontà, per Giovanni, era un manifesto politico e una prassi che si rinnovava ad ogni incontro, e con chiunque, attraverso una disciplina sempre più inusuale e potenzialmente rivoluzionaria: l’ascolto. L’ascolto dell’altro. Ognuno di noi credo percepisca immediatamente se il nostro interlocutore ci sta ascoltando o sta fingendo d’ascoltarci. Chi ha avuto la fortuna di parlare con Giovanni sapeva d’esser ascoltato profondamente ma non solo, sapeva anche che avrebbe ricevuto, come risposta un dono. Un dono che poteva arrivare immediatamente, con un’ironica o preoccupata alzata di sopracciglia così come poteva esser recapitato, inaspettatamente dopo mesi e anni. Perché Giovanni, da grande professionista dell’ascolto, teneva a memoria le istanze, i problemi, i dubbi e le ironie dei suoi interlocutori e cercava quindi di rispondere nel modo più appropriato attraverso un gesto che potesse rinnovare le riflessioni condivise. Un cd inaspettato, un bigliettino, un fax, la fotocopia di una pagina di un libro antico, una bottiglia di vino, una versione dell’Internazionale in lingua tibetana, il ritrovamento di una partitura rara ecc. Era generoso Giovanni. Si, certo, ma perché fedele alla sua visione di mondo: no copyright. Tutti ma proprio tutti avevano e hanno il diritto di accedere gratuitamente allo studio, alla cultura, alla bellezza. Quindi, per tornare all’idea di Giovanni santo, mi sento di dire che no, non era un santo ma piuttosto un uomo e un’artista rinascimentale e quindi piuttosto inconsueto, per questo tempo, ma straordinariamente necessario. Più necessario, a mio parere, dell’uomo digitale.

Un abbraccio a te, a tutte le persone che ci hanno seguito e a tutte quelle che ci seguiranno in… futuro… in rete resta tutto… per ora!

Colgo l’occasione per segnalarvi che domani, su quinteparallele sarà condivisa un’iniziativa dedicata a Giovanni Morelli da parte di Cà Foscari, Fondazione Ugo e Olga Levi e Associazione Morelli in cui accanto ad un meraviglioso concerto del Quartetto Prometeo ci saranno gli interventi di Nuria Schoenberg e Fortunato Ortombina e tanti altri amici!

Maggiori informazioni a breve!

Alla prossima

Andrea

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