Corrispondenze n. 6: Shakespeare & Funari

"I suoni rispondono ai colori": il carteggio tra Andrea Liberovici e Gianfranco Vinay

“Sonetto” e “500.000 leoni” sono i due lavori – l’uno ispirato a William Shakespeare e l’altro interpretato da Gianfranco Funari – che vengono ricordati nel sesto episodio della corrispondenza tra Gianfranco Vinay e Andrea Liberovici.

 

Caro Andrea,

mi ricordo che quando avevo ascoltato Sonetto quasi un quarto di secolo fa assieme a Marianne mi (ci) sembrava nato dalla costola di Rap. E mi ricordo anche che avevo (avevamo) interpretato questa permanenza del rap in un contesto ben differente, assieme a certi episodi rock, come una tua intenzione di «casser la baraque» del teatro tradizionale, espressa del resto in un manifesto che avevi pubblicato nello stesso anno in un libretto a firma tua e di Sanguineti, il cui titolo era tratto dal «travestimento» (per usare un termine a lui caro) di un sonetto shakespeariano: Il mio amore è una febbre e mi rovescio. Nella sua interezza la versione italiana del sonetto che è all’origine del travestimento, il centoquarantasettesimo («My Love is as a fever, longing still») è recitato da Ottavia verso la metà del lavoro (a 22’45’’ su una durata complessiva di 46’42’’).

Riascoltandolo oggi, Sonetto, mi sembra che il trattamento dei frammenti dei poemi di Shakespeare, letterario (da parte di Sanguineti), musicale (da parte tua), interpretativo (da parte tua, di Ottavia Fusco e di Gassman alla fine – la cicliegiona [sic!] sulla torta) costruisca un mondo abitato da tante voci, da tanti affetti, da tanti registri che ricostruiscono de-costruendolo il mondo dei sonetti shakespeariani e il gioco erotico implicito e soggiacente. C’è un registro basso-somatico (i sospiri, le risa, i baci gli starnuti, i colpi di tosse, la ‘gallinizzazione’ delle voci) e c’è un registro alto-vocale (la recitazione, il canto). Il registro alto è poi a sua volta articolato in diversi registri affettivi-espressivi (la lettura prosastica delle lettere, l’intonazione lirica, drammatica, erotica, epica).

L’utilizzazione di «loop» già impiegati in Rap realizzano una continuità in una struttura sostanzialmente e volutamente frammentaria, in cui si alternano climax sonori e momenti di stasi e di ristagno, addensamenti e rarefazioni foniche, sussurri e grida. Una condensazione polifonica e eterofonica, a guisa di climax riassuntivo, precede l’intervento di Gassman (a 42’ 21’’) che recita la versione italiana del bellissimo e terribile secondo sonetto («When forty winters shall besiege thy brow,/And dig deep trenches in thy beauty’s field,/Thy youth’s proud livery, so gaz’d on now,/Will be a tatter’d weed of small worth held…..») in cui sono messi a spietato ma lucido confronto giovinezza e vecchiaia (che allora iniziava a quaranta’anni , cinque anni dopo il «mezzo del cammin» dantesco! ). Conclude Ottavia con la recitazione di «conviene al sottile spirito dell’amore ascoltare con gli occhi», ultimo verso del ventitreesimo sonetto. Sonetto quanto mai teatrale, che inizia con quell’immagine del pessimo attore che dimentica la parte o recita in modo troppo enfatico, così come lui, lo scrivente, Shakespeare, si comporta nei confronti della persona amata, che prega voglia accogliere  i suoi versi come muti messaggeri del suo amore («O learn to read what silent love hath writ!/To hear with eyes belongs to love’s fine wit»).

Ascoltare con gli occhi : espressione che, proferita oggi, all’epoca nostra, apre la metafora barocca a una miriade di possibili e inattesi significati allusivi alle sfere più diverse: estetica, letteraria, drammaturgico-teatrale, neuroscientifica, etc.etc.etc. Il vero amore è sempre apertura, non solo passionale. Tanto più quando è espresso da un sommo poeta.

Liberovici

Ph. Alessandra Vinotto

––––––––––––––––––––––––––––

Carissimo Gianfranco,

Sonetto, il secondo lavoro realizzato con Sanguineti, aveva cominciato a far germinare in me alcune riflessioni sulla musica e il teatro tanto da fondare, con Edoardo e Ottavia Fusco, un gruppo di lavoro chiamato Teatro del Suono. Forse non te lo ricordi ma questa definizione l’aveva inventata tua moglie Marianne durante una telefonata tra me e lei in cui le chiedevo aiuto. Trovare una sintesi chiara per questo progetto non era semplice ma Marianne risolse il problema nel giro di pochi minuti. Eravamo, mi diverte dirlo perché sembra siano passati migliaia di anni, alla fine dello scorso millennio e i potenti semi della globalizzazione stavano crescendo rapidamente innanzitutto sul terreno della cultura.

Per arrivare al nostro presente la musica a Noi contemporanea, che ha ben poco a che vedere con ciò che chiamiamo ancora musica contemporanea, intendendo ovviamente le musiche del ‘900, dicevo la musica a Noi contemporanea è profondamente sedotta da quello che chiamo, per facilità: supermercato digitale. Ognuno di noi, ogni compositore o presunto tale, può acquistare o rubare, i materiali sonori più eterogenei che gli sono utili per organizzare il proprio progetto. Per materiali utili intendo, ed è per questo che utilizzo la metafora del supermercato, dei materiali già organizzati e precotti che basta infilarli nel microonde, in questo caso il computer, per ridargli una parvenza di vita. Migliaia di pattern da riscaldare e poi, nel miglior caso, rivendere o “condividere“ in questa sorta di bulimia sonora che pervade ogni luogo pubblico e privato (ma esiste ancora la privacy?) in cui transitiamo, dalle stazioni dei treni al nostro smartphone. Fra i compositori a noi contemporanei, estremizzando, c’è la figura del DJ, quello che organizza attraverso il montaggio dei precotti la “drammaturgia“ delle serate danzanti  e, sul lato opposto, o meglio su uno fra i migliaia dei lati e generi opposti, qualche contemporaneo nostalgico dei contemporanei dello scorso millennio.

Il punto è sempre quello della funzione. A cosa serve un compositore? Ammesso che sia utile a qualcosa? Il compositore di questo nuovo millennio, per esser utile a qualcosa o meglio a qualcuno, credo debba trasformarsi in una sorta di esorcista d’illusioni tossiche. Per illusioni tossiche intendo tutto il junk food di cui il nostro immaginario si nutre sia consapevolmente ma soprattutto inconsapevolmente. Per tentare questa strada, come sai, ho studiato e praticato il teatro come disciplina fondante di tutte le arti. Per le ragioni di cui abbiamo già parlato, il teatro è una grande medicina per la socialità esattamente all’opposto dei cosiddetti social che fungono da mediazione, illusoria, fra le solitudini. Il teatro è, a mio avviso, il metodo per imparare a comporre musica, ma anche per imparare qualsiasi forma espressiva e soprattutto per tentare d’imparare a vivere con l’altro. Ovviamente sono felice delle straordinarie potenzialità delle tecnologie, il computer in primis è un nuovo strumento musicale. Così come sono felice della pluralità, in progress, della moltiplicazione dei generi musicali, se non diventano nicchie autoreferenziali ma colori aggiuntivi alla propria tavolozza. Un esempio chiaro di come l’utilizzo del teatro sia la grande medicina per ridare vita ad altre discipline artistiche rivolte al proprio ombelico e non alla relazione fra esseri umani è stato, nel secolo scorso, il Tanztheater di Pina Bausch. In un epoca in cui i generi della danza erano in qualche modo delle fortezze inespugnabili divise fra cigni bianchi e avanguardie, Pina Bausch, grazie al teatro come disciplina del meticcio, è riuscita a metterli in profonda relazione. Ti scrivo queste cose anche perché, durante il trasloco in atto ho ritrovato quel libretto cui tu accennavi, scritto da Sanguineti e dal sottoscritto “Il mio amore è come una febbre e mi rovescio“, edito da Bompiani nel 1998, con i testi di Rap e Sonetto, la trascrizione di una nostra chiacchierata e un “pomposo“ manifesto  scritto da me in cui però, al di la dei limiti del mio spirito giovanile ed incendiario, ci sono in nuce molte idee che sto ancora approfondendo e praticando. Te lo allego a seguire in una versione ampiamente sforbiciata.

Ti invio inoltre il cortometraggio 500.000 Leoni, su meravigliosi testi di Aldo Nove e con la magistrale interpretazione di Gianfranco Funari di cui ho fatto musica e regia per rivelarti sostanzialmente una cosa (ma non dirla a nessuno) i miei Maestri di composizione (oltre ai miei molti e meravigliosi genitori) sono stati innanzitutto Sergei Eisenstein e Bertolt Brecht!

Un abbraccio forte!

Andrea

 

M

musica, montaggio, musomusica, mosaico

A

attore, ascolto

N

natura

I

ingrandimento, inizio, identità, istante

F

furto

E

elettronico, essere E non essere

S

suono

T

teatro, dopo il rock’n’roll

teatro è musica

O

osare

M
musica, montaggio, musomusica*, mosaico

Teatro musicale di montaggio, definizione tecnico-estetica per il tipo di spettacolo che Sanguineti e io stiamo sperimentando. Un teatro che, svincolato dalla narrazione, attinge liberamente dalla poesia e ovviamente dalla musica, lasciandoci suggestionare formalmente più dal linguaggio del videoclip che non da quello specifico del teatro o del teatro musicale. Se è vero che il cinema è nato come imitazione del teatro, per poi, attraverso appunto il montaggio, elaborare una propria estetica, ci interessa costruire (sia Rap che Sonetto seguono questa direzione) una sceneggiatura-partitura, in cui musica parola gesto e luce vengono a formare un tutto proprio come un fotogramma-battuta musicale-tassello, da montare creativamente uno dopo l’altro, uno sull’altro, uno pausa altro, punto contro punto. (…) Poesia-musica, come materiali primi del montaggio drammaturgico, scelti per gli specifici caratteri di ambiguità, quindi di libera interpretazione, quindi di velocità comunicativa al servizio di questo Teatro che è Musica, legato alla possibilità-disponibilità della interpretazione intuitiva dello spettatore. (…) Il senso come esca, il suono come significante. Prendere all’amo lo spettatore con la tranquillità monotona e consueta di un frammento dichiarato di senso, e trascinarlo attraverso il linguaggio simbolico e a strati della musica. (…)

A
attore, ascolto

il cinema ha lentamente contrapposto o integrato, all’immagine consolidata dell’attore interprete di un personaggio, una nuova categoria: l’attore interpreta se stesso (inizio questo fra l’altro dei molti equivoci sul fatto che chiunque appaia sullo schermo possa fare anche il teatro dei personaggi, Ma come si sa, ogni pubblico ha gli attori e il teatro che si merita).  Questa tipologia di attore, chi trasforma se stesso nel personaggio di se stesso (a che cosa è servito Pirandello?)  inventa di fatto l’ibrido:  categoria nuova, generalmente( a parte qualche eccezione) categoria triste, egotica, narcisistica  è utile soltanto alla promozione di se stessi.  Per quel che riguarda la scrittura musicale- teatrale che sto sperimentando, non ho bisogno di attori né per l’interpretazione di personaggi dati, né per la rappresentazione del loro proprio ibrido, ma di uomini e donne pronti a porsi all’ascolto in relazione ad un tema e capaci o perlomeno tesi alla rielaborazione di questo tema in linguaggio teatrale.  (…)


N
natura

Natura, naturale, vero, verosimiglianza.  L’unica cosa del metodo Stanislavskij  che in realtà mi è rimasta veramente impressa è ( lo dico con parole mie) la teoria per cui l’attore per potersi chiamare attore deve innanzitutto conoscersi e quindi essere uomo che vive.  Fare più esperienze possibili, come allenamento fondamentale al palcoscenico. Attivare la curiosità come talento primario. Diventare una banca di dati, dolorosi, gioiosi, noiosi ecc.  ma assolutamente reali e non teorici. (…) Ovviamente questo lavoro può essere possibile solo se applicato ad una drammaturgia adeguata, che si modelli attraverso la vita dei propri protagonisti.  Per esempio, con Ottavia Fusco, l’attrice cantante con cui finora ho lavorato di più a queste sperimentazioni di “teatro che è musica“. (…)


I
Ingrandimento, inizio, identità, istante

“L’art doit se faire opérer“ Breton: ora cominciano ad esserci i mezzi per farlo. Leggendo per esempio le cronache del teatro futurista, si trova che a velocissime scene di teatro sintetico, tre minuti circa, si alternavano lunghissimi (a volte più di mezz’ora) cambi di scena. Questo, appunto, è soltanto un esempio. Le macchine teatrali, come il computer luci, i palcoscenici girevoli ecc. hanno ovviamente concorso a risolvere molti problemi di carattere tecnico-artistico ma, a mio avviso, non sono ancora intervenute a sufficienza nell’invenzione drammaturgica. Forse perché gli scrittori di teatro sono ancora, in gran parte, uomini di lettere e non di palcoscenico, forse perché il teatro di regia ha riempito le lacune teatrali degli uomini di lettere, sta di fatto che tranne alcuni casi, generalmente legati al teatro di regia, le potenzialità creative di certa tecnica non sono state usate per produrre drammaturgia.

L’Ingrandimento. Le possibilità d’ingrandire, lo zoom, visivo e sonoro, questo è il vero e nuovo bisturi per operare l’arte. Ingrandire fino a perdersi, il microfono come orecchio-microscopio davanti e dentro l’emissione vocale. Primo piano sonoro. Inquadrare l’istante ed usarlo come identità. (…)


F
furto

Furto o prelievo, come più precisamente fa notare Sanguineti in una sua intervista, è la caratteristica dominante di molta arte della seconda metà del novecento, pop in testa. In musica, il prelievo, oltre al gusto classico della citazione, diventa un fatto stilistico preciso. Una tecnica. E lo diventa in modo macroscopico con l’uso dei campionamenti (di musica convenzionale o musica musica concreta) nella musica rap. SI prelevano così accordi d’orchestra già esistenti, pattern ritmici da vecchi dischi di soul music e.. creando attraverso i campionatori i loops come piattaforma o integrazione per e di nuove musiche. Quello che nasce quindi come un linguaggio sostanzialmente povero, rubare ai ricchi (case discografiche, gruppi rock importanti ecc.) per dare ai poveri (i rapper dei ghetti) materie prime da rielaborare, diventa così una nuova tecnica di composizione (montaggio) e, di conseguenza, stile (di cui si riappropriano immediatamente le Major). Se per le altre arti il prelievo è tecnica più che consolidata, per la musica, che comprende per sua natura un rapporto con il proprio passato, è soltanto con l’avvento di nuovi strumenti musicali, i live electronics della musica contemporanea  e il campionatore della musica rap ad esempio, che si comincia a prelevare in modo esplicito e creativo dal presente. (…) Quindi ho prelevato frammenti di angolazioni insospettate e impreviste, come per esempio il respiro del violoncellista e l’attacco della sua arcata, le ho reinterpretate attraverso l’elettronica e poi le ho montate assegnando loro un tempo e una posizione, all’interno di una struttura musicale verticale. Si è venuta a creare una mappa sonora fissa su cui far muovere le voci dal vivo. Accettare, scegliere e prelevare la casualità integrandola alle proprie intenzioni, come peraltro accade nella vita.


E
elettronico, essere E non essere

Intorno alla metà degli anni cinquanta Igor Stravinsky intuisce profeticamente uno dei possibili usi della musica elettronica: “Forse il vero futuro della musica elettronica è nel teatro. Si pensi alla scena dello spettro di Amleto con “suono bianco“ elettronico che si irradii sull’uditorio da diverse direzioni (l’Omaggio a Joyce di Berio è forse un’anteprima di questo genere di cose)“ I.Stravinsky -R.Craft, “Colloqui con Stravinsky“. Il teatro come corpo di uno strumento invisibile. Sempre Stravinsky sostiene che un concerto di musica elettronica potrebbe assomigliare ad una seduta spiritica, privato della fisicità degli strumenti e più ancora della fatica degli interpreti. Ecco che allora il teatro supplisce, appunto all’assenza, con un essere E non essere, elettronico e vivo, suono e corpo alternativamente e contemporaneamente. (…) in questo caso l’“elettronica“, e non soltanto la “musica elettronica“, diventa penna e carta su cui scrivere e fissare i suoni, i tempi, gli spazi, i movimenti… il teatro.


S
suono

 “Posso distinguere tre modi differenti di comporre musica oggi. Il primo è ben conosciuto: quello di scrivere musica come faccio io, ed esso continua. Un modo nuovo è stato sviluppato attraverso l’elettronica e la costruzione e la costruzione di nuovi strumenti che consentono di fare musica suonandola piuttosto che scrivendola. E l’ultimo è stato sviluppato negli studi di registrazione, ed è simile, ed è simile al modo in cui gli artisti lavorano nei loro studi quando dipingono. La musica può esser costruita uno strato dopo l’altro sui registratori, senza esser destinata a un’esecuzione o comunque alla scrittura, ma finalizzata all’incisione discografica. Quest’ultima modalità è nata e si è affermata con la popular music per poi espandersi anche alla musica “colta“ “ John Cage, “Letter to Paul Henry Long“, 22 maggio 1956.

Questi tre modi di comporre, individuati da John Cage, possono esser fra loro comunicanti. Come comporre musica in modo elettronico usando come fonte l’esecuzione di musica composta dal medesimo compositore che la ricompone alla fine usando uno strato sopra l’altro. Può sembrare sicuramente un gioco di parole, ma quello che voglio dire è che la geniale messa a fuoco di J.Cage segnala un dato, secondo me fondamentale: il fare musica di questo fine secolo assume le caratteristiche tipiche della pittura di questo inizio secolo e della fotografia. Si fissa su tele analogiche, digitali, perdendo così una sua prerogativa, ovvero la possibilità della riesecuzione futura da parte dell’interprete, per acquistare, dalla pittura, la fissità di un movimento. Per mantenere questa similitudine, il suono, sempre più, sta diventando colore, naturale o sintetico (a seconda della fonte) e gli strumenti dell’elettronica musicale, potenti pennelli. Il suono diventa di fatto il protagonista, si scrive per il suono, con un suono, attraversando le ragioni di un suono.


T
Teatro, dopo il rock’n’roll, Teatro è Musica

 Il teatro dopo il rock’n’roll è precipitato. La televisione, tanto demonizzata, in realtà ha semplicemente fatto sua, amplificandola e mettendola a fuoco, una scelta sostanziale del teatro; ovvero quella di smettere d’essere veicolo e casa di co(no)scenza del reale, prerogative della stessa nascita del teatro, per realizzare in modo in modo più o meno colto, più o meno mistificato, attraverso una metamorfosi in atto da secoli, un comodo intrattenimento. Un teatro che, perduta la sua identità e di conseguenza il suo essere competitivo, rimane vittima non soltanto degli altri linguaggi apparentemente simili, come il cinema e la televisione, ma del lento suicidio del proprio corpo. L’assenza di una casa, intesa come luogo di confronto con i significati e i significanti contenuti nella realtà, di fatto contribuisce a legittimare questo periodo storico (penso e spero al tramonto) di pseudo-glorificazione del nulla, meraviglioso alibi dei filosofi di stato, dei critici d’arte, delle compagnie di giro. La lontananza dal corpo, di conseguenza, investe qualsiasi disciplina. Le arti che ci popolano in questo fine millennio sono spesso arti senza necessità. La musica si radicalizza e si divide sempre di più fra musica epidermica e musica intelligente. Il teatro fra riesumazioni da museo e lo scimmiottamento di cliché appartenenti a un’avanguardia sepolta; fra recita del silenzio, che fa così classico del novecento e una valutazione assolutamente errata dei propri nemici, spostando ulteriormente, in un idiota e inutile sforzo di mediazione con il mezzo televisivo, l’obiettivo: dall’intrattenere all’inebetire. Il nulla così di moda e così evocato per giustificare l’assenza di idee, di ricerca, di creatività, di reale confronto sembra quindi imporsi più o meno gradevolmente al cumulo dei nostri consueti interrogativi. Dico sembra, perché il nulla in realtà è materia molto seria e complessa. Magari ci fosse una pratica del nulla. La grande poesia, e quindi la grande ricerca, il grande lavoro e poi forse la grande ispirazione può tentarne una frequentazione, spingendosi, nella più felice delle ipotesi, verso una traduzione del nulla in linguaggio.(…)

La musica, nello specifico, ha utilizzato l’elettricità per inventare nuovi strumenti, nuove pratiche, nuovi linguaggi. Il paradosso è che all’avanzare dell’evoluzione, per esempio, delle tecniche musicali, s’accompagna una ricerca estetica tesa alla reinterpretazione di un’idea di primitivo. Dal rock’n’roll fino ai generi  techno, house ecc. la reiterazione del battito primario iperamplificato come fondamento della costruzione musicale, è più che evidente, diventano spesso la creazione stessa.

Il grande limite, inteso come confine e non come giudizio estetico, di questa musica, è quello di risolversi non con una catarsi ma con una sudata. (…) il nocciolo, l’ambizione, il corpo della mia ricerca è affondare nelle intenzioni il microfono, come orecchio meccanico, per cogliere e setacciare tutto ciò che può trasformarsi in immagine e in quanto immagine principio di oggettivazione e di relativa catartica liberazione.

Un teatro che è musica.


O
osare

Osare.

Andrea Liberovici

Genova ottobre 1997

 

*musomusica

Marzio Pieri, nella sua presentazione a “Rap“, programma di sala dello spettacolo, inventa e ci suggerisce questa parola per descrivere questo modo compositivo.

––––––––––––––––––––––––––––

Caro Andrea,

ti ringrazio dell’invio di 500.000 leoni, questo bel video che avevi realizzato, se ben ricordo, per il Festival di Locarno all’inizio del nuovo millennio. Conosco meno il tuo teatro di parola. Lo chiamo così per distinguerlo dal teatro musicale e dal teatro del suono, anche se poi  tutto è interconnesso; e però, non nel segno della fusione quanto piuttosto in quello della separazione delle componenti secondo i principi e i meccanismi drammaturgici appresi da quei maestri di composizione cui facevi riferimento alla fine della tua ultima lettera. E, primo fra questi principi: l’ironia.

Ironico già il testo di Aldo Nove, scrittore «cannibale» e in quanto tale «maledetto», anche se le maledizioni contemporanee sono all’acqua di rose rispetto a quelle cui soggiacquero grandi poeti e prosatori-drammaturghi  tardo-ottocenteschi. «Maledetto» anche l’attore da te scelto, Gianfranco Funari, la cui carriera televisiva fu costellata di censure e di licenziamenti. Del resto era il suo modo di giocare al gatto e al topo con il potere mediatico e politico. E vi è così una totale immedesimazione di Funari, vecchio e malandato, con Johnny Weissmüller che, anch’egli ormai vecchio, malato, e in più rimbambito, si esibisce nel suo celebre urlo di Tarzan. Non so se sia stata la «déchéance» dei personaggi beckettiani o piuttosto questa testimonianza autobiografica di Funari che ti abbiano indotto a farlo recitare in mutande :

«Volete sapere qual è la cosa di cui vado più fiero? Del potere ho mostrato le mutande, nel senso che i politici hanno dovuto spogliarsi di fronte all’occhio spietato della telecamera e far vedere anche i loro affari più nascosti e a volte più sporchi. Il paradosso è che la parola mutanda in latino significa “quelle cose che devono essere cambiate” per ovvi motivi. Ma loro, i politici, in sessant’anni di partitocrazia le mutande non se le sono mai cambiate. Io, invece, nel mio camerino, li ricevevo spesso in mutande per mostrare loro che erano linde e fresche di bucato.“

Ma vi è di più. Dopo aver visionato il tuo video sono andato a spulciare nella biografia di Funari, e ho scoperto che nell’ultima sua trasmissione televisiva, «Apocalypse Show» , del 2007, si metteva ad urlare in romanesco : «VOJO RAIUUUUUUNOOOOOO». Si dice che questa sua performance fosse stata ispirata dalla memorabile scena di Amarcord in cui Ciccio Ingrassia, arrampicatosi su un albero di un ospedale psichiatrico in segno di protesta per la sua astinenza sessuale, si metteva ad urlare «VOGLIO UNA DOOOOONNAAAAAA…». Ma, visto che voi avevate collaborato qualche anno prima, può darsi che la fonte d’ispirazione fosse l’urlo di Tarzan. Questa trasmissione comunque, finì presto perché ottenne il più basso indice di gradimento di tutta la storia di Rai I.

Vedi, tutte queste cose me le sono perse, perché a Parigi, dove vivevo da una quindicina d’anni non vedevo la televisione italiana; e ovviamente neanche il teatro di prosa (o di parola) italiano. Mi ricordo che nel corso degli anni in cui vissi continuativamente in Italia, quasi una cinquantina, fino al 1992, mi disamorai progressivamente del teatro di prosa perché mi pareva che le compagnie fossero sempre più scadenti, e che la maggior parte degli spettacoli puntasse principalmente sulla fama e sulla professionalità del (o della) protagonista. A Parigi però, ho recuperato il tempo perduto. Con una ventina di teatri (dal piccoli ai medi) unicamente nel mio arrondissement (il Neuvième), la Comédie Française a una ventina di minuti a piedi, e tutti gli altri disseminati dappertutto e raggiungibili al massimo in mezz’ora in métro, ho potuto scegliere fior da fiore. Le notizie del teatro italiano eri spesso tu a darmele, assieme alle tue collaborazioni con alcuni mostri sacri (oltre a Sanguineti: Gassman, Claudia Cardinale, Albertazzi) di cui peraltro la tua carriera artistica, in ambito sia musicale che teatrale, è costellata.

Ma 500.000 leoni non è la ripresa di una pièce teatrale; è un video, e come tale va quindi fruito e interpretato. Mi avvarrò di tre categorie elaborate da Gilles Deleuze nel primo dei suoi due libri fondamentali sulle immagini cinematografiche (L’image-mouvement, pubblicato nel 1983) : l’immagine-affezione, l’immagine-pulsione e l’immagine-azione. L’immagine-affezione è quella messa in rilievo soprattutto dai primi e primissimi piani, che qui abbondano. Tutti i movimenti di Funari, anche quelli che sono ripresi in piano americano e in piano intero, ma anche quelli della telecamera ritornano al primo e primissimo piano sul viso biancobarbuto di Funari; e l’inizio sul particolare dei capelli anch’essi bianchi, è come una sorta di allusione ironica alla criniera dei leoni da lui immaginati nel suo delirio. E poiché sotto i capelli vi è la sede della sua mente malata, è anche una sorta di premonizione di ciò che avverrà: la costruzione di un mondo immaginario attraverso i suoi pensieri e i suoi ricordi, il suo continuo rimuginare, il suo monologo interiore. Soltanto in momenti cruciali è lui a proferire suoni e parole: quando emette i due urli e quando, verso la fine, il delirio aumenta di intensità e diventa denuncia, protesta, contro un mondo più malato di lui e sicuramente più crudele. Le immagini-azioni sono anch’esse autoreferenziali: deambulazioni con la stampella quadripode, simulazioni di nuoto sul pavimento della clinica. Simulacro di Citta, lo scimpanzé compagno di Tarzan, è un pupazzo di stoffa anch’esso malandato. Tutto è un simulacro nella mente di un pazzo.

Oltre la sua voce, come si diceva, per lo più fuori-campo, sono i suoni, il bruitage che simula la foresta e crea uno soundscape per i deliri di Tarzan-Weismüller-Funari di cui talora riecheggia certe parole. Per ritornare alle categorie deleuziane, rielaborate a partire da Materia e memoria di Bergson e dalle teorie semiologiche di Peirce, l’immagine prevalente è dunque quella che lui definisce immagine-pulsione, a mezza via fra le altre due, e che in effetti coglie quell’egolatria di fondo che caratterizza il delirio di un pazzo per il quale anche le azioni sono sempre autoreferenziali. Secondo Deleuze i grandi maestri che hanno saputo servirsi al meglio di questa categoria sono stati Losey, Stroheim e Buñuel . E, non a caso, sono stati grandi demistificatori.

Articoli correlati