Reinterpretare un simbolo: il "Va' pensiero" di Verdi

«Il Nabucco ti piace? portalo a casa, mettilo in musica e quando lo spartito sarà pronto lo daremo alla Scala» Bartolomeo Merelli

Al giorno d’oggi anche chi è più a digiuno in materia musicale conosce la melodia o le parole del Va’ Pensiero; sicuramente tra i vari motivi di questa notorietà un ruolo rilevante è ricoperto dall’aver innalzato il coro del terzo atto del Nabucco, e Verdi stesso, alla cerchia dei simboli patriottici dell’Italia unita. È infatti diffusa l’opinione che l’opera, le cui vicende narrano della sottomissione ebraica al dominio babilonese, abbia acceso l’attenzione del popolo italiano sulla propria condizione politica, incitandolo alla lotta per l’emancipazione nazionale a partire da quando, nel marzo del 1842, andò in scena per la prima volta al Teatro La Scala di Milano. Per via della mancanza di un adeguato numero di documenti contemporanei alla scrittura dell’opera, perfino alcuni storici della musica hanno a lungo accettato la narrazione dell’accoglienza patriottica del Nabucco da parte dei suoi contemporanei; questa, tuttavia, emerge solamente fonti postume, le prime delle quali arrivate da Verdi stesso. È proprio il compositore di Busseto, infatti, che parla dell’origine dell’opera nelle memorie che consegna al suo editore Giulio Ricordi per la pubblicazione della ‘biografia aneddotica’ curata da Arthur Pougin. Lo scopo di Verdi era quello di fornire una testimonianza ‘certificata’ su uno dei suoi primi grandi successi. La biografia del 1881 divenne sicuramente una delle narrazioni sull’argomento più note, ma non fu l’unica: circa una decina di anni prima, nel settembre del 1868, Verdi si ritrovò già a parlare di quei fatti che portarono alla genesi del Nabucco con il medico e letterato Michele Lessona, il quale riorganizzò la conversazione in un volume intitolato Volere è potere, pubblicato l’anno successivo.

È interessante notare come i due testi riportino similitudini, ma a stimolare la curiosità dello studioso sono le rimarcabili differenze: entrambe le narrazioni iniziano raccontando di un Verdi in profondissima crisi e intenzionato ad abbandonare la sua carriera da operista dopo gli insuccessi delle sue prime composizioni teatrali, Oberto, Conte di San Bonifacio e Un giorno di regno, e le disgrazie famigliari. Proprio in questo clima, durante l’inverno tra il 1840 e il 1841, Bartolomeo Merelli, l’impresario del Teatro La Scala, propone a Verdi di mettere in musica il libretto di Temistocle Solera sul Nabucodonosor. In entrambi i testi, il Maestro si rifiuta con decisione e a lungo rimanda anche la lettura del libretto, ma da questo punto in poi le due versioni divergono. A Lessona, nel settembre del 1868, Verdi racconta che a mettere in moto la sua voglia di musicare l’opera sia stata l’Aria finale di Abigaille, mentre, nel 1881, Pougin riporta che lo spunto emotivo e letterario giunse proprio dal celebre coro degli ebrei del terzo atto. Questa discrepanza narrativa ci svela che per Verdi stesso il coro del Va’ Pensiero iniziò ad acquisire l’importanza che oggi gli si attribuisce, solamente a distanza di 40 anni circa dalla sua composizione.

Altro esempio dell’interpretazione postuma del brano lo ritroviamo sempre nella biografia del 1881, ove si parla di una grande ricezione del coro da parte del pubblico, il quale ne richiese addirittura il suo bis; sono molti i musicologi che, soprattutto nella seconda metà del Novecento, hanno ampiamente rivisto questa narrazione. Secondo gli studi più aggiornati, la sera della prima del Nabucco fu sì invocato il bis di un coro da parte del pubblico, ma questo fu l’inno Immenso Jehova, del Finale dell’ultimo atto, e il tutto senza alcun apparente motivo patriottico.

Sembra, in realtà, che soltanto a partire dal secondo decennio dell’Unità nazionale, quando ormai la foga degli ideali risorgimentali cominciava ad affievolirsi e aumentavano le incertezze economiche e sociali per la giovane Italia, il popolo italiano abbia iniziato a identificarsi in modo simbolico nella nostalgia e nel rimpianto del popolo ebraico; solo allora, la novella nazione accolse come proprio il lamento per le speranze “sì belle e perdute” del coro del Va’ Pensiero.

(Nabucco, Va’ Pensiero – MET 2002)

Anche l’immagine di Verdi uomo politico, capace di legare alla perfezione la sua musica al fervore degli anni del Risorgimento, giunge da narrazioni tardive che il compositore fece pubblicare sotto la sua supervisione. Sempre nella ‘biografia aneddotica’ del 1881, Pougin scrive:

‹‹Con il Nabucco e I Lombardi alla prima crociata, in altre parole con i suoi primi grandi successi, Verdi ha incominciato (direi quasi istintivamente da principio) a esercitare un’azione politica con la sua musica››.

Giunsero poi gli anni del fascismo, durante i quali questi racconti, ormai elevati a rango di fatti storici nei primi decenni del Novecento, vennero continuamente alimentati, raggiungendo l’apice della loro diffusione nel 1941, a 40 anni dalla morte del compositore.

Alcuni musicologi affermano che l’assenza di documenti comprovanti l’iniziale ricezione patriottica del coro di Verdi, sarebbe da imputarsi alle operazioni di censura del tiranno austriaco. Anche questa tesi, però, è facilmente confutata da giornali esteri e fonti non vincolate dell’epoca, che riportano notizie di numerose manifestazioni che ebbero luogo nei teatri dopo la metà del 1846. Perfino alcune riviste nostrane, riacquisita momentaneamente la libertà dopo i tumultuosi giorni della rivoluzione milanese del 1848, riportarono testimonianze di attività artistiche sovversive, ma il nome di Verdi non compariva fra le loro pagine. Il musicologo Roger Parker, dopo aver esaminato attentamente i resoconti giornalistici del periodo in questione, si accorse che le opere del compositore attiravano scarsa attenzione; la “Gazzetta musicale di Milano” di Ricordi sembrava più interessata ad inni e cori realmente patriottici, che lo studioso britannico descrive come «una diffusa risposta musicale ai tempi difficili». Inoltre, a celebrare il ritorno degli eventi operistici nella Milano del ’48 al Teatro Carcano non fu un lavoro di Verdi, ma La muta di Portici, ossia la traduzione italiana dell’opera di Auber del 1828, divenuta nota come l’opera che aveva istigato una rivolta popolare a Bruxelles durante le rivoluzioni del 1830. Fu durante le stagioni concertistiche successive, quando ormai Milano era tornata sotto il controllo degli austriaci, che La Scala promosse numerose riprese di opere verdiane, tra cui Ernani, Macbeth, Attila e Nabucco.

Infine, in un articolo apparso nel maggio ’48 sul periodico bolognese “Teatri, Arti e Letteratura”, viene riportato che

«In Italia se v’è canto, è per lo più patriottico. A Bologna si lasciavano I Lombardi per cantare cori nazionali per la città. A Napoli si è cantato il Nabucco con mediocre successo, perché il pubblico chiede al Verdi le tradizioni d’Italia e non dell’antico Oriente…».

Tuttavia, con questa critica al mito della prima ricezione del Nabucco non si vuole sostenere che Verdi fosse estraneo agli avvenimenti politici del suo tempo; anzi, il temperamento del compositore lo portò a essere spesso coinvolto nel clima di agitazione e speranze del Risorgimento italiano. Non si dimentichi il fortunato acrostico ‘VIVA V.E.R.D.I.’ che, nel 1859, associava il nome del compositore a quello del futuro Re d’Italia, contribuendo inevitabilmente a conferire al primo una certa importanza politica. D’altronde, il Maestro, come tutti i patrioti italiani, era convinto che la subordinazione allo straniero fosse l’esito della decadenza intellettuale e morale del suo popolo, invocando il ‘ritorno all’antico’ al fine di recuperare quel piacere nella sperimentazione e un’abilità di rinnovamento tipica delle menti geniali del passato. Da questo punto di vista, più che per un reale coinvolgimento nella politica attiva, Verdi rispecchiò l’ideale risorgimentale. La sua genialità fu quella di creare una musica carica di un significato sempre attuale perché capace di adeguarsi alle varie situazioni sociali. Se prima di lui il melodramma era un teatro del presente assoluto cui giovani protagonisti, persi nella morsa dell’amore, erano del tutto ignari dello straziante cammino verso la vecchiaia, Verdi, mette in scena un teatro dove non solo il tempo passa, ma non passa inutilmente, in cui personaggi crescono e acquistano consapevolezza.

Sono molte le comunità che nella musica e nelle parole del coro di Verdi hanno intravisto dei significati ulteriori, dei simboli con i quali sono riusciti a trovare conforto e sostegno e, grazie alla loro intrinseca mescolanza di nostalgia e speranza, una possibilità di avanzamento anche nel dolore. Basti pensare all’Inno del primo maggio, in cui Pietro Gori rappresenta i fasci siciliani proprio con la melodia dell’ode di esilio ebraico; o alle comunità istriane, fiumane e dalmate che scelsero il coro come canto di rappresentanza per le terre perse dopo la Seconda Guerra mondiale.

Che un semplice coro raccolga al suo interno più significati, è una questione che non ci deve sorprendere; il melodramma, esattamente come le opere letterarie, è una narrazione, e come tale si regge si logos, epos, e soprattutto ethos. Come dice il critico letterario Northrop Frye,

«voi non andreste a vedere Machbeth per imparare qualcosa sulla storia della Scozia: ci andate per apprendere come si sente un uomo dopo che ha guadagnato un regno e ha perso l’anima».

Spesso le opere teatrali, nell’educarci al sentimento, stimolano in noi riflessioni introspettive, personali, che poi tendono a diventare collettive. Sono le arti che formano, organizzano e alimentano i vari significati in cui la comunità si riflette. Le emozioni non sono effetti della natura, ma costrutti culturali, prodotti di una pianificazione comunitaria e legate a regole in continua trasformazione.

(Il baritono Armando Ariostini che canta Va’ Pensiero dal balcone di casa durante il primo lockdown)

Nessuno si stupirà, quindi, se fra qualche anno, imbattendosi in un articolo simile a questo, non leggerà più della valenza patriottica del coro del Va’ pensiero, ma di un suo nuovo senso, una nuova analisi del passato da cui trarre un significato in linea con un tempo diverso e differenti situazioni.

 

 Gioia Bertuccini

 

Articoli correlati