Corrispondenze n. 2: From Ivry

"I suoni rispondono ai colori": il carteggio tra Andrea Liberovici e Gianfranco Vinay

Pubblichiamo il secondo episodio del carteggio tra Andrea Liberovici e Gianfranco Vinay: protagonista dello scambio è questa volta Ivry Gitlis, violinista tra i più noti, che è venuto a mancare nel dicembre del 2020. A lui e al ricordo dei momenti passati insieme sono dedicati i brani di Liberovici “From Ivry” e “Mavriya”, quest’ultimo composto per il duo Ivry Gitlis–Marta Argerich. È proprio con il ricordo della collaborazione con i due grandi artisti che si chiude questo secondo capitolo.

 

Caro Gianfranco,

devo per forza introdurti questo invio con una tessera fondamentale del mosaico in divenire.
Parigi 2003. Inverno. Sera piovigginosa. Cerco un ristorante italiano. Dopo un mese di cibo francese. Per la precisione, cerco uno spaghetto aglio, olio e peperoncino. Non per chissà quale predilezione, ma per la certezza che questo spaghetto non può incorrere in mutazioni genetiche tipo “rigatoni bolognese“(?!?!?) e simili. Nella peggiore delle ipotesi può esser scotto e senza sale. Così arrivo a Saint Germain e imbocco la stradina dietro al Café Flore. Il Ristorante Italiano, che un amico mi ha consigliato, è italiano. Parlano in italiano recitando, piuttosto bene, un’ipotesi d’empatia nazionale. Capiscono le mie esigenze e arrivano gli spaghetti. Dignitosi e piccanti. Evviva! Nel tavolo vicino al mio un signore solo, anziano, scapigliato con delle mani meravigliose si versa un bicchiere d’acqua e decide di guardarmi. Sento che mi osserva con l’attenzione di chi sta seguendo con lo sguardo una mosca fra le pieghe della tovaglia prima di trovare il momento giusto per darle il colpo di grazia. Minacciato. Si mi sento, in qualche modo, minacciato. Cosa vuole? Chi è? Perché sorride? Termino la mia relazione con i carboidrati e decido di sfidarlo. Lo guardo negli occhi. Ha uno sguardo ossimoro, da fanciullo antico e, in levare, come se col movimento della mia testa gli avessi dato un battere, mi dice: “monsieur excusez-moi j’ai suis curieux: êtes-vous compositeur ou metteur en scène?“
Pausa. Non poteva che esserci, seppur breve, una pausa. Essendo io un compositore e un regista teatrale ero attonito… ma questo tipo chi è? Come fa a saperlo? È un veggente? Se non ricordo male gli ho risposto anch’io in levare e con la medesima gentilezza e ironia: voi siete del Mossad o dell’FBI?
L’esplosione della nostra risata ha sancito la nostra simpatia immediata e l’amicizia futura. Con Ivry Gitlis, dopo aver messo a dura prova la presunta empatia dei gestori del ristorante che non vedevano l’ora di chiudere, ci siamo raccontati le nostre vite e soprattutto mi ha ricordato che Bruno Maderna aveva scritto un brano per violino dedicato a lui: Piece pour Ivry.
La settimana successiva, dopo aver finito il mio brano elettroacustico per il GRM, mi sono trasferito a casa di Ivry (nel piccolo appartamento per gli ospiti sopra il suo) dove, per due mesi, ho vissuto registrando e riprendendo, con una piccola telecamera, la quotidianità del Maestro. L’obiettivo era, ed è stato, la creazione di From Ivry, il mio primo brano audio-visivo. Eseguito al GRM l’anno successivo, nella sua versione elettroacustica/visuale e, nel 2007 a Montreal, dal Le Nouvel Ensemble Moderne diretto da Lorraine Vaillancourt, nella sua versione per ensemble elettroacustica e visuale. La versione di From Ivry che ti mando è la seconda, quella con l’ensemble… avrei molte ma molte altre storie da raccontarti… ti basti sapere che quando una volta l’ho chiamato fratello maggiore mi ha risposto: grazie Papà … mi manca moltissimo…

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Caro Andrea,

grazie dell’invio di From Ivry, che ho rivisto dopo tanto tempo. Rivederlo oggi, a distanza di una decina di giorni dalla scomparsa di Ivry è particolarmente commovente. Ci siamo sentiti dopo la sua morte e ti avevo detto che avevo ascoltato alla radio francese (France Musique) un intero pomeriggio dedicato a lui. Io non ho avuto la fortuna di conoscerlo di persona e di frequentarlo, come hai fatto tu, ma apprezzavo moltissimo la sua musicalità. E quando parlo di musicalità non intendo soltanto la capacità del grande interprete di penetrare e di appropriarsi delle opere musicali, o il virtuosismo che deriva da doni naturali e dall’esercizio costante, ma dalla creazione del suono. I grandi interpreti si distinguono innanzitutto dalla sicurezza nell’attacco del suono. E questo è tanto più notevole nel caso di strumenti che, come i cordofoni e gli aerofoni (per chiamare con termine tecnico gli strumenti a corda e quelli a fiato) producono il suono con un transiente d’attacco che dura qualche istante durante il quale l’archetto o la vibrazione delle labbra o delle ance porta il suono a pieno regime. Bene, i grandi interpreti annullano quasi questo transiente, sicché il suono risulta come una sorta di esplosione, che esprime la grande carica di energia vitale che comunicano e comunicheranno. Pensa ad Armstrong. Riconosci che è lui che suona fin dal primo istante, proprio per il carattere esplosivo dell’attacco. Ivry era una specie di Louis Armstrong del violino.
E arriviamo finalmente a From Ivry. È evidente che le immagini musicali servono a comporre un paesaggio sonoro abitato dalla presenza di Ivry, sia dal suono del suo violino e da echi di melodie da lui suonate, sia dalla sua voce in brevi sequenze e parole smozzicate e iterate. Assieme a varie interpunzioni strumentali creano come una sorta di placenta sonora, di aura distante, di regno delle ombre, di una presenza-assenza che purtroppo (l’assenza) oggi è diventata definitiva confermando il significato funerario originario della parola «immagine» : i busti in cera degli antenati che i romani tenevano in apposite teche e che conducevano in processione in occasione di alcune celebrazioni.
Sotto il profilo visivo, le mani, strumento fisico dello strumento musicale , sono le immagini ricorrenti, rappresentate sia realisticamente, in versione filmica, sia utilizzate, in versione grafica, come segnatempo, come una specie di cronometro visivo che, ogni minuto e mezzo, scandisce l’avanzamento del video. E così, quindi, hai organizzato la scansione «cronologica»  del tempo musicale.

Durante quello che sarebbe stato l’ultimo ricovero ospedaliero di mia moglie, la mia adorata Marianne, per un convegno a Paris8 sul mito di Orfeo nel Novecento, stavo scrivendo un saggio sull’Orpheus, balletto composto nel 1947 da Stravinskij in collaborazione con Balanchine. Mi rendo conto che avevo scelto il soggetto non solo per motivi estetici, perché amo la musica di quel balletto che inizia con uno straordinario lamento che imita una scala discendente della tradizione greca antica, ma anche e specialmente perché quel mito e quella musica rappresentavano in modo intenso, commovente e universale ciò che io stavo vivendo e soffrendo nella mia persona, nella mia vita, nei miei affetti. La funzione della grande musica, della grande arte, della grande poesia, non è soltanto estetica, ma profondamente etica nel senso antico di «ethos». La condivisione delle tue passioni (nei vari sensi del termine) con i tuoi antenati che dalla notte dei tempi hanno sofferto le stesse pene e hanno cercato di superarle inventando racconti, musiche, raffigurazioni, umanizza il tuo dolore, lo fa scivolare per qualche po’ nel grande alveo della storia e della mitologia dell’umanità. E come diceva un grandissimo poeta : «il naufragar m’è dolce in questo mare». Il finito e contingente trova una sua consolazione nella contemplazione della vertigine di qualcosa che, nel caso del mito di Orfeo e Euridice, se non è infinito affonda le sue radici in archetipi antichissimi.

Ma ritorniamo ad Orpheus, ed al motivo per cui l’ho citato in questo contesto. Nel corso di una prova del balletto, Stravinskij, rivolgendosi a Maria Tallchief, l’interprete del ruolo di Euridice, le chiede di eseguire la sequenza della morte per poter calcolarne e fissarne la durata. Maria cade a terra e Stravinskij conta i secondi, quattro in tutto, dopodiché comincia a schioccare le dita dicendo «snap, snap, snap, snap – That is enough. Now you are dead». Partendo da osservazioni circa l’importanza delle durate in questo balletto, in quel saggio che poi dedicai alla memoria di Marianne – la mia Euridice – ho teorizzato alcune categorie temporali indicate con termini greci:

1) «Kronos», il tempo che si può misurare come durata e con il metronomo (si intende, dopo la sua invenzione; nelle epoche precedenti era il «tactus» basato sulla pulsazione cardiaca); è questo il tempo scandito dalle mani destra e sinistra in From Ivry;
2) «Kairos», il tempo che corrisponde alla nozione di apparizione istantanea dell’immagine, un’immagine «raggiante», equivalente al concetto greco di «enargeia»;
3) «Aion», e cioè il tempo ciclico, che lega assieme i diversi episodi della struttura musicale temporalizzata;
4) «Nostos», e cioè il tempo della rimemorazione;
5) «Eironikòs», e cioè il tempo stabilito dalla confrontazione fra la memoria del passato e la sua risonanza ironica nel presente.

In From Ivry, Il tempo «Aion», che gli antichi simboleggiavano con il serpente che si morde la coda, è rappresentato invece dal ricorso di certe immagini, come quella dello sguardo di Ivry, o delle sue mani, riprese non solo quando suona il violino, ma anche in occupazioni più quotidiane, come tagliarsi le unghie, ad esempio. E qui interviene anche la dimensione del tempo «Eironikòs» , di una confrontazione ironica fra l’immagine mitica di Ivry, e la quotidianità di certi suoi atti ed immagini. Come, ad esempio, all’inizio, il suo volto ripreso, penso, in una «terrasse» di caffè parigino, che lo trasforma in personaggio da «nouvelle vague». Certamente questi atteggiamenti quotidiani riaccendono in te la memoria del tempo passato con lui e, fondendosi con certe interpunzioni melodiche che emergono dalla placenta sonora, inducono a sentimenti nostalgici. L’immagine finale delle mano grassoccia del bambino a confronto con quelle nervose e affusolate di Ivry, suggeriscono poi che quella placenta di cui parlavo non era soltanto la rimemorazione di un passato, una sorta di fantasia onirica, ma anche crogiolo di nascita, di rigenerazione, dell’eredità lasciata dall’impronta di un grande maestro.
Il tempo «Kairos», il tempo istantaneo della sorpresa, è invece presentato (nel senso etimologico) in quegli episodi in cui nuovi eventi irrompono, come ad esempio quella mitragliata di immagini accompagnate dalla ripetizione di motti ritmici che stuzzica l’attenzione risucchiata dall’aura distante.

Cari saluti,
Gianfranco

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Carissimo Gianfranco,

ancora grazie per la tua generosità, pratica imprescindibile per qualsiasi creazione. La mia relazione amicale con Ivry è stata una gigantesca lezione di musica e quindi di vita. Mi ha chiarito, con l’esempio, che è, ovviamente, importante curare l’effetto, vale a dire la partitura e la sua esecuzione, ma soprattutto che è fondamentale, per un interprete, individuare la causa, il seme, che l‘interprete stesso è chiamato a coltivare per farlo fiorire. Innanzitutto è quindi la biografia del compositore e il desiderio d’entrare, in modo empatico (se il compositore in questione è vissuto nell’ottocento e non gli si può mandare una mail), a far parte della cerchia dei suoi amici più intimi, della sua stanza da musica, dei suoi amori noiosi o tormentati che guida lo studio per una successiva interpretazione di valore. Ivry era il grande musicista che si poteva permettere «une belle fausse note d’un grand musicien vaut mille notes justes de n’importe qui» perché, da grande amico dei suoi compositori, sapeva interpretarli. La stessa modalità, ma ribaltata, si può applicare alla composizione in tutti gli ambiti creativi. Per fare un esempio fra i tanti, uno dei più grandi sarti dell’immaginario era Shakespeare che costruiva i suoi personaggi sul corpo, lo spirito e il modo di vivere dei suoi attori. Conoscere l’interprete per cui si sta scrivendo, nel modo più ampio possibile, credo sia la base di partenza per la realizzazione di un’opera resistente al e nel tempo prima ancora di ogni definizione di genere, talento, stile ecc. Non per chissà quale mistero ma semplicemente perché il dialogo attiva il dialogo in chi l’ascoltaQueste modalità sono antiche come il mondo, nulla di nuovo, ma il mondo sta cambiando molto rapidamente. Ciò che è nuovo, ormai nuovo da oltre un secolo, è che l’interlocutore per cui si scrive musica e con cui, spesso, si scrive musica in questo frammento di storia in cui viviamo, è contenuto in una scatola che si aggiorna costantemente. La deflagrazione delle tecnologie si struttura e si fortifica attraverso la moltiplicazione costante di totem e feticci culturali affatto neutri come si tenta di raccontare e, non certo orientati verso una cultura del dialogo ma verso una cultura, chiamata per paradosso social, del monologo. Il corpo e l’interlocuzione con esso, sia il corpo altrui che il nostro, è quindi il grande assente in questo nuovo mondo e, di conseguenza, molta musica del nostro presente, costruita sulla citazione e non sull’eccitazione (perdona l’inevitabile e voluto gioco di parole) non c’interroga più ma, nel migliore dei casi, c’intrattiene o ci sospende attraverso un loop.  L’utilizzo laico delle tecnologie come opportunità, utilizzandole con lo stesso approccio con cui utilizziamo un frullatore o un qualsiasi elettrodomestico, è un manifesto politico in progress a cui cerco, come tanti colleghi, di contribuire con i miei lavori. Nei due mesi in cui ho vissuto accanto a Ivry ho avuto la grande opportunità di condividere con lui tanti aspetti quotidiani, da far la spesa insieme, cucinare, smistare le giovani fans in arrivo, i giovani violinisti in coda per un consiglio e tante risate, musiche, fino a condividere anche ambiti più privati fatti di malinconie e lunghi silenzi. E questo è stato il mio primo nutrimento, il mio primo dialogo, che, come ti ho scritto, ho registrato sia in forma metaforica che concreta, vale a dire registrando suoni e immagini video. Fino a quel momento avevo pensato che le immagini più interessanti fossero quelle che, apparentemente, sono contenute nel suono (e lo penso tutt’ora) e che, nel mio piccolo, avevo sintetizzato così nel mio taccuino di viaggio:

“L’inconscio è strutturato come un linguaggio – ci suggerisce Lacan,  e così come l’inconscio credo che anche ogni suono “concreto“, nel suo svolgersi nel tempo, sia linguaggio. Compito del compositore scoprirlo, farlo emergere e reinventarlo ricoprendo così, lui stesso, fisionomie professionali inusuali perché appartenenti alla scrittura e al cinema.
Quella del “documentarista“, se il lavoro del compositore è realizzare un soundscape.
Quella dello “sceneggiatore“, se utilizza i suoni per supportare drammaturgicamente le immagini di un film.
Quella del “poeta“ se, attraverso la materia sonora, riesce – manipolandola e reinventandola – a veicolare e a suggerire una trasfigurazione del suono “grezzo“ in suono lirico – simbolico e quindi poetico.
E lì, proprio lì, se il lavoro è ben fatto, in quel non luogo temporale che si formano le immagini in chi ascolta.“

Successivamente, quando poi mi sono ritrovato a casa mia con tutti questi materiali audiovisivi provenienti da (From) Ivry, ho deciso di utilizzare, per la mia musica, anche alcune immagini video. From Ivry è quindi stato non soltanto il mio primo lavoro audiovisivo ma anche l’innesco di una riflessione: e se le prepotenti e meravigliose crisi linguistiche del ‘900 fossero la radice di un vero e proprio cambio di paradigma che sta iniziando a maturare, in modo significativo, solo adesso? L’arte acustica e l’arte visiva stanno ancora declinando in migliaia di generi diversi le proprie crisi o, grazie alle nuove tecnologie, se utilizzate e non subite, sta iniziando fra di loro una sorta di crasi? Il celebre epistolario Schoenberg-Kandinsky non è forse il seme, piantato più di 100 anni fa, di quello che sta sbocciando ora? Questa domanda, dalla crisi alla crasi è diventata la base della mia ricerca… grazie a From Ivry.

Abbracci! A

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Risposta alla risposta di Andrea

Caro Andrea, la tua nuova missiva solleva un numero veramente cospicuo di quesiti: la biografia del creatore e dell’interprete-ricreatore; la necessità di un dialogo fra di loro; le croci e le delizie del progresso tecnologico in rapporto alla creazione; il rapporto fra l’immagine musicale e l’immagine visiva; gli scambi formali e simbolici fra le arti… Per cercare di esprimere le mie opinioni in proposito avrei bisogno di diversi capitoli di un libro. Cercherò di essere il più stringato possibile.

Ma prima vorrei spendere qualche parola su Mavrya, il brano dedicato a Ivry e Martha Argerich per il festival da lei diretto, con quella fine del concerto e applausi in cui tu appari fra questi due miti dell’interpretazione musicale di tutti i tempi verosimilmente soddisfatti e contenti dell’omaggio. Mi dicevi che questo lavoro era stato confezionato partendo da una registrazione di alcune improvvisazioni di Ivry. E in effetti i sei movimenti sono come una parata della musica russo-sovietica e dei paesi dell’est in salsa gitana: un’evocazione di immagini musicali che riecheggiano Stravinskij, Bartók, Šostakovič, Gubaidulina, Schnittke, Kurtág con un tuo accompagnamento pianistico che asseconda tali immagini con disegni sempre nuovi che dialogano con il violino. Bravissimi i due giovani esecutori.

E veniamo adesso ad un paio di quesiti sollevati dalla tua lettera. Per quanto riguarda il rapporto fra creatore, opera e interpretazione, negli anni della mia maturità sono vissuto in un contesto culturale dominato dalla distinzione fra dimensione esistenziale e dimensione poetica del creatore. In Francia tale distinzione era tanto più viva sulla scia del famoso «je est un autre» di rimbaldiana memoria. Sempre in terra di Francia, un secolo e mezzo prima, Georges-Louis Leclerc, comte de Buffon, aveva pronunciato quella famosa sentenza – «le style est l’homme même» – che riunisce in una stessa identità esistenza umana e espressione stilistica. Un’identità che è stata ovviamente rafforzata in epoca romantica.

Quando insegnavo Storia della Musica al Conservatorio di Torino (dal 1974 al 1992) ogni anno dovevo tenere due corsi che coprivano tutto l’arco storico , dalla cosiddetta «musica dei selvaggi» (era questa la denominazione, ancora fascista – epoca cui risalivano i programmi ministeriali  – di quella che oggi si definisce più decorosamente «etnomusicologia») alle Giovani Scuole Nazionali – giovani appunto all’epoca del ventennio. Poiché normalmente gli allievi, in assenza di corsi di analisi, non sapevano analizzare le partiture che eseguivano, privilegiavo l’analisi delle opere piuttosto che le biografie. Nonostante il rito del tirare a sorte le tesine (così si chiamavano) da parte degli esaminandi, che assegnava all’esame un aspetto ludico – da gioco del lotto – imponendo agli insegnanti uno sviluppo della materia che comunque doveva tener conto dei predetti programmi, fra colleghi e con la complicità del direttore, ci si organizzava poi in modo da liberarci dalle pastoie burocratiche, invocando il principio sacrosanto della «libertà didattica». Occupandomi soprattutto delle opere e degli stili dei compositori, alle vicende biografiche attribuivo un minore rilievo, mettendo in evidenza quelle che maggiormente avevano determinato la carriera creativa dei compositori.

Più tardi, però, quando iniziai ad occuparmi di compositori viventi ed a collaborare con loro, mi accorsi che a conti fatti forse Buffon aveva ragione e che la conoscenza talvolta amichevole con i compositori permetteva di comprendere meglio certe loro scelte, certe loro tendenze, la loro poetica e prassi creativa. E, oggi, non avendo più obblighi pedagogici istituzionali, l’approfondimento delle biografie dei compositori del passato che amo di più mi appassiona. Penso che, al di là della curiosità e del voyeurismo connesso a qualsiasi approfondimento biografico, sia un modo per sentirli più vicini, per farli rivivere nel ricordo. Un moto di affetto più che una fredda ragione musicologica.

Per quanto riguarda il rapporto specifico fra creatore ed interprete, certamente una collaborazione diretta fra i due permette di realizzare quel corpo a corpo di cui tu parli, che è essenziale alla realizzazione delle intenzioni poetiche e espressive dell’autore. Ma, col passare del tempo, quando l’opera assume una sua autonomia e in assenza (ad un certo punto definitiva) dell’autore, necessariamente le prassi interpretative si trasformano sollecitate dai nuovi e diversi contesti culturali e estetici. E la prova lampante di questa metamorfosi costante è che, anche nel corso del Novecento e nella nostra epoca, quando tutto può essere registrato, fissato e tramandato, lo stile e le prassi interpretative mutano senza rispettare necessariamente quelle eseguite o dirette dallo stesso autore. Il rigore filologico è un’illusione. Certamente, si può – e si deve – tener conto delle indicazioni e delle prassi esecutive originali, ma poi il dialogo ermeneutico fra le due epoche (quella della creazione dell’opera e quella contemporanea) fa sì che sia il gusto presente ad influire particolarmente sull’interpretazione. Ed è bene e giusto che sia così. La musica, come le arti dello spettacolo scenico, ha questa natura metamorfica e rigenerativa che coinvolge tutte le persone e le entità estetiche convocate (interpreti, opere e ascoltatori). Ed è proprio questa natura a conferirle un’aura speciale e tutta sua.

Il rapporto fra immagine musicale e immagine visiva è un problema a parte, e certamente molto importante nella civiltà audiovisiva in cui viviamo nel bene e nel male. Nel bene e nel male, appunto. Cominciamo dal male, e cioè dall’assunzione passiva delle tecnologie. Oggi chiunque, con un minimo di pratica, può confezionare  dei video e dei prodotti audiovisivi. All’epoca in cui trafficavo con la musica elettronica nell’ambito dello SMET (studio di musica elettronica di Torino) sotto la guida di Enore Zaffiri, per confezionare un pezzo di dieci minuti occorrevano settimane: elaborare un progetto a partire dalla produzione e dalla registrazione delle frequenze; registrazione delle varie combinazioni fra suoni concreti e suoni elettronici; montaggio tramite taglia e incolla dei nastri, ecc. Tutto ciò imponeva però un controllo e una riflessione su ciò che si stava realizzando. Poi il risultato poteva essere buono o cattivo come qualunque composizione. La rapidità e la facilità di elaborazione odierna fa sì che vi è meno controllo formale e artistico del prodotto.

Con questo non voglio assolutamente rimpiangere, da vecchio barboso, le tecnologie arcaiche di un tempo ormai preistorico. Il problema non è applicare le nuove tecnologie, ma cercare di capire quali sono le potenzialità poetiche, estetiche e euristiche dei nuovi mezzi. E, prima ancora, comprendere quali sono le trasformazioni filosofiche e speculative, oltreché pratiche, esprimibili con questi nuovi mezzi. Se non vogliamo essere fagocitati dalla cosiddetta civiltà delle immagini dobbiamo interrogarci sui nuovi modi di coniugare le immagini visive, sonore e cinetiche, che derivano da una nuova concezione delle immagini e della loro fruizione indagata ad esempio dalle neuroscienze, che stanno facendo passi da gigante.

Ogni epoca è segnata da scoperte e invenzioni che in qualche modo si riflettono sulla creazione artistica: si pensi, all’inizio del Novecento alle teorie della relatività e dell’indeterminazione, e di tutte le relazioni analogiche che si possono stabilire in campo artistico. Oggi le neuroscienze permettono di comprendere meglio i meccanismi percettivi che sono chiamati in causa nella creazione e nella fruizione degli audiovisivi. Penso che un aggiornamento in questo campo possa portare beneficio alla creazione. Anche in questo caso, poi, naturalmente, il risultato può esser buono o cattivo.

Ecco, mi rendo conto che mi sono già dilungato un bel po’. Ma mi pare che siano argomenti importanti per tutti coloro che a diverso titolo si occupano della creazione artistica e musicale. Magari ci ritorniamo su in altre occasioni.

Cari saluti,
Gianfranco

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Caro Gianfranco,

nel mio ruolo di detonatore di riflessioni multiple ti posso dire che siamo totalmente d’accordo anche questa volta. Chiaro che ogni musica viene, giustamente, reinventata e in qualche modo tradita nel corso del tempo e questa è la sua grande forza. Quello che mi premeva dire è che ho qualche dubbio sulla resistenza nel tempo di musiche totalmente autoreferenziali e quindi mute. Ma qui sento che sto per far esplodere un altro tema e quindi mi ammutolisco da solo.

Rispetto a Mavrya il titolo, scelto da Ivry in ebraico antico, significa “Creazione“ e, nello stesso tempo, contiene tre lettere dal nome Martha e tre dal nome Ivry. Di fatto ho ricostruito, e quindi ampiamente reinventato, una serie d’improvvisazioni di Ivry che avevo registrato durante la mia permanenza a casa sua nel 2003 per omaggiare questa coppia di artisti immensi al Martha Argerich Project del 2015. Il mio pezzo chiudeva la serata dopo En Blanc et Noire di Debussy interpretato da Martha Argerich e Stephen Kovacevich… Ivry teneva la mano a Martha che a sua volta teneva la mia, tutti e tre seduti in prima fila… puoi immaginare come mi potevo sentire…

Un abbraccio!

Andrea

Ivry Gitlis

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