Corrispondenze n. 1: Madrigal for 9 rooms

"I suoni rispondono ai colori": il carteggio tra Andrea Liberovici e Gianfranco Vinay

Pubblichiamo il primo episodio del carteggio tra Andrea Liberovici e Gianfranco Vinay: tra i ricordi del passato, di Venezia e dei cari non più presenti prendono forma le impressioni sul lavoro di Liberovici intitolato Madrigal for 9 rooms (qui il link per visualizzare lo spettacolo su Raiplay).

 

Caro Andrea,
ti ringrazio di avermi inviato il video di Madrigal for 9 Rooms. In effetti, dopo aver assistito allo spettacolo della Trilogy in two a Genova nell’ottobre di due anni fa, alla vigilia di quella che sarebbe diventata la famigerata e ancor ben attuale «epoca Covid», «j’étais resté sur ma faim», come si dice dalle parti della mia residenza ufficiale, che attualmente non posso raggiungere per via, appunto, del Covid. Avrei voluto rivedere lo spettacolo il giorno seguente, domenica, ma non potevo perché dovevo ripartire per Venezia. Come reazione a caldo, dopo aver assistito allo spettacolo ti avevo scritto queste impressioni: «Mi soffermo sul Madrigal for 9 Rooms per dirti che mi è piaciuto moltissimo. Hai interpretato in modo poetico, nostalgico e ironico, degli spazi a te (e anche a me, per quanto me li possa ricordare) cari, senza cadere nelle trappole che la nostalgia può generare. E in questo ti sei mostrato degno erede di una tradizione famigliare non facile da assimilare e rinnovare senza sbavature manieristiche. Bravo! Ci sarebbe piaciuto (a me e a Natsuko, la mia compagna) rivedere lo spettacolo il giorno seguente, domenica, in matinée, ma come sai lunedì a Venezia, alla Fondazione Cini, dovevo assumere il ruolo di moderatore in una situazione non facile per via della provenienza molto mista dei partecipanti a questo stage (italiani i percussionisti, anglofoni i compositori provenienti dai paesi più disparati ). Spero che ci sarà altra occasione e che tu possa inviarmi un video per rivedere il tutto. Spero anche che questa occasione non sia sull’asse Genova-Venezia, scomodissimo se uno deve servirsi dei mezzi pubblici (come ben sai sulla tratta Genova-Milano i treni sono sempre in ritardo, per cui poi devi correre per non perdere la coincidenza, e se la perdi il treno successivo è pieno come un uovo: allucinante!). Spero che ci rivedremo presto da qualche parte nel vasto mondo: Torino, Parigi, Siena, Tokyo…?»

Dopodiché non ci siamo più visti, né a Genova, né a Parigi, né a Siena, e tanto meno a Tokyo, ma in streaming, come capita a quasi tutti di questi tempi. E – altro vantaggio della tecnologia – ho potuto finalmente rivedere il Madrigal for 9 Rooms in video, e rinverdire la memoria dello spettacolo cui avevo assistito al Teatro Duse di Genova quel sabato di ottobre del 2019.

La prima impressione è sempre quella che conta. Quelle successive ti permettono di capire meglio come e perché hai reagito emotivamente in quel modo e di approfondire la conoscenza della pièce. Mi pare che il buon risultato derivi dall’intreccio di alcuni temi ricorrenti. Vi è innanzitutto una fusione-connubio tra suono e immagine, tra ascolto e visione. Non solo perché il testo è disseminato di frasi che inducono a questo scambio analogico («ascoltando ti posso vedere?»), ma perché il suono-immagine scandisce il tempo della vita quotidiana osservata e vissuta dalla prospettiva dei suoni-fenomeni naturali che corrodono le cose e le persone (gocce, vermi, fango) o si depositano sugli oggetti (polvere). E poiché la casa è anche e specialmente una metafora della vita, il Madrigal for 9 Rooms è una «vanitas» rappresentata dalla scansione di un tempo corrosivo presente alla coscienza di chi vive in una città come Venezia, costruita su tronchi che affondano nel fango. Ma questo tema, poi, assume un significato più profondo ed esistenziale, perché la goccia, il tarlo, la polvere, sono come i metronomi del tempo, scandiscono il lento, inesorabile svanire di tutto e di tutti. E il fatto di aver usato per lo più suoni minimali come lo sgocciolio del vibrafono e volumi sonori per lo più bassi contribuisce ad evocare questa scansione di un tempo che si sfibra: il tempo segreto degli interni, delle stanze. E poi c’è il tema del «fanciullino», della conoscenza come capacità di stupefazione, di mera-viglia di fronte alle cose semplici e quotidiane. Evocata alla fine da quella stupenda citazione di Kafka*, è presente anche nella scelta di introdurre nello strumentario oggetti casalinghi e ludici; certo, vi è anche anche qualche ammicco a Cage e al principio del «tutto è musica ciò che ascoltiamo con un’intenzione musicale». E proprio in questo atto, nel saper cogliere la bellezza dei rumori che si trasformano in suoni e in musica sta la felicità di chi sa cogliere il Kairos, il momento pieno, perfetto e fuggente. Ma il tempo quotidiano e momentaneo si salda anche con un tempo storico, tramite allusioni a modelli che ora richiamano la commedia madrigalesca (il «Fuck you» nella stanza del Capo Espiatorio incazzato), ma anche talora il puntillismo weberniano (nella stanza del primo amore dal punto di vista di una goccia) e, certamente, il madrigale, specialmente nella scena della «stanza del fango e della bellezza». E i modelli storici rievocati comunicano una nostalgia nei confronti del passato e dei trapassati che hanno abitato quella casa: Margot e Giovanni. Margot evocata visivamente dalle marionette coperte dalla polvere del tempo che si è posato su di esse dopo la sua scomparsa (feticci inanimati che attendono d’esser animati nuovamente), e dal suono degli archi e del violoncello, suo strumento d’elezione, che abitava quelle stanze.

La presenza di Giovanni è molto più criptica e misteriosa, ma mi pare anche determinante per la drammaturgia e per il significato del Madrigal. Poco importa se tu abbia letto o conosca l’esistenza di un saggio di Giovanni del 1994 in cui partendo da un verso del Mercante di Venezia (atto II, 5a scena, verso 34) fa tutta una lunghissima digressione sul rapporto fra suono, rumore, musica, nella cultura urbana della tradizione occidentale. Se anche non conoscessi quel saggio hai respirato la stessa aria di quelle stanze in cui Giovanni esercitava il suo acume speculativo e la sua sottile ironia. Partendo da diverse premesse che sarebbe lungo esplicare, ad un certo punto afferma che attraverso di esse si potrebbe riscrivere la storia della civiltà occidentale. Cito: «una Storia della musica che organizza, ordinandole per capitoli e classi di diverso impegno e di diverso ingresso simbolico-reale nella relazione d’accettazione/rifiuto della Storia-qual-è-ora, le diverse rappresentazioni musicali (ovviamente post-edeniche, post-auree, post-georgiche) del tempo ritrovato e tutto-evoluto della città costruita-ricostruita». O se si vuole, fatta e rifatta per grazia di guerre imperialistiche o di lotte di classe (per l’ambientazione delle nuove egemonie e per la rimozione dei ‘resti’). Oppure, interpretata e re-interpretata come forma di colletivizzazione forzata (o facilitata) del sentire (volevo dire ‘dei modi di sentire’).Credo che una simile Storia più che altro non sarebbe che una descrittiva di opere scritte operando col gioco della apertura/chiusura degli scuri, delle gelosie, delle persiane e delle tende, della finestra di Shylock (credo siano tante, bastanti per delineare una Storia, certamente non minori, probabilmente le maggiori)». (p.69 del saggio).
Ciò che qui importa non sono tanto queste digressioni, ma il punto di partenza. Giovanni afferma che all’origine di tutte queste speculazione vi è il fascino esercitato su di lui bambino da quel verso di Shakespeare in cui vi è un’ambiguità e una sostituzione fra vista e udito: «But stop my house’s ears. I mean my casements». Ora, il primo quadro del tuo Madrigal si apre con porte che producono rumori tipo musica concreta e si chiude con l’apertura della finestra del balcone, con vista su San Marco e rumori vari fra cui quelli della gente che chiacchiera (ciaccola, mi pare si dica in veneziano) in strada. E siparietti che si chiudono e si aprono sono presenti all’inizio e alla fine di diversi episodi: sono allusioni volontarie ai «casements» di shakespeariana e morelliana memoria, o involontari, come piovuti dal cielo? Onnipresente è anche il rapporto fra suono, rumore, musica e visione. Le orecchie della casa diventano così anche gli occhi della casa, che spiano la lenta corrosione delle cose. Sento, dentro quelle stanze madrigalesche la presenza dello spiritello di Giovanni. E termino qui, ripetendo quello che ti avevo già scritto nella mail spedita qualche giorno dopo la rappresentazione genovese: « Hai interpretato in modo poetico, nostalgico e ironico, degli spazi a te (e anche a me, per quanto me li possa ricordare) cari, senza cadere nelle trappole che la nostalgia può generare. E in questo ti sei mostrato degno erede di una tradizione famigliare non facile da assimilare e rinnovare senza sbavature manieristiche. Bravo!»

Cari saluti

*F.K.:La giovinezza è felice perché ha la capacità di vedere la bellezza. Quando questa capacità si perde , comincia la vecchiaia e l’infelicità “.
G.J.: Quindi l’età esclude la possibilità di felicità?
F.K.: ”No, la felicità esclude l’età”

Gustav Janouch “Conversations with Kafka”

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Caro Gianfranco,
innanzitutto grazie! Come saprai, in Italia, ma ho la sensazione che non sia la sola, la critica musicale sui giornali non esiste più se non in rarissimi casi e con pochissimo spazio, per non parlare di una riflessione speculativa, fatta da uno studioso/musicologo. Quindi una tua lettera, come questa, così ricca di stimoli e di profonde riflessioni su Madrigal for 9 rooms, lavoro del 2019, non soltanto mi “onora“ ma credo possa esser molto stimolante per altre persone che, grazie alla piattaforma che ci ospita, la leggeranno. Per quel che mi riguarda hai toccato moltissimi ambiti e interessi molto sensibili, generando e moltiplicando nuove memorie, storie e idee. Provo quindi a rispondere ad alcune tue suggestioni al fine d’integrare e, forse, attivare ulteriori percorsi tralasciando, per il momento, altre istanze – o stanze per rimanere in tema – ricche di potenziali speculazioni come, ad esempio, quella dedicata a Giovanni e il Mercante di Venezia, ovvero musica e immagine, ovvero audiovisione come nuovo orizzonte del comporre (evoluzione o involuzione?).
Quindi opterei intanto per condividere qualche minuscola riflessione su quattro temi che hai toccato: Venezia, famiglia, casa e John Cage.

A proposito di Venezia, come sai e come hai scritto, la casa che ha ispirato Madrigal for 9 rooms è la casa veneziana in cui sono cresciuto con mia mamma Margot, cantante, regista, violoncellista, marionettista e tantissimi altri interessi e lavori e con il mio adorato patrigno (parola che non amo), Giovanni Morelli, musicologo. Entrambi scomparsi nell’ultimo decennio. Da un paio d’anni sono quindi tornato ad abitare, per alcuni periodi, queste stanze veneziane per prendermene cura.  Ogni casa, palazzo, magazzino veneziano ha una certa età, generalmente intorno ai 500/600 anni, e devono essere accuditi e spesso curati perché ci possano continuare a sopravvivere dignitosamente. Anche per questo aspetto Venezia è un insegnamento. Ci ricorda, ad ogni angolo, che “la proprietà non è un furto ma un’illusione“. Recentemente un amico veneziano che fa l’ingegnere mi ha detto: È raro mettere una biglia sul pavimento di un palazzo veneziano e non vederla rotolare da qualche parte. E, al di là di quel che si può pensare, è un buon segno, perché ogni costruzione su palafitte non deve essere in “bolla“, come in qualsiasi città, ma elastica. Guai se fosse il contrario.” Ora, augurandomi che questo amico abbia ragione, c’è un altro aspetto interessante nelle case veneziane molto antiche: la sensazione di non esser mai soli. Ogni muro, scaletta, soffitta, porta, tetto, ripostiglio, scalino, finestra, pavimento ecc. è il risultato di un vissuto plurale accumulatosi nel tempo, da centinaia di persone. E tutte queste presenze sono visibili nella stratificazione architettonica che hanno contribuito a creare e, consequenzialmente, udibili in quanto effetto della stratificazione medesima. Non c’è persiana, per quanto nuova e ristrutturata, che non porti con sé un suono specifico tutte le volte che la si apre. Le presenze invisibili si palesano quindi anche attraverso i suoni che hanno costruito. Quando Margot e Giovanni hanno lasciato queste stanze, le stanze hanno continuato a suonare. Madrigal for 9 rooms nasce da queste suggestioni acustiche.

Pensando al fanciullino, dopo la scomparsa di Giovanni, ho provato a tracciare qualche memoria della mia vita nei boschi, vale a dire il piccolo giardino di casa che chiamavo foresta, in cui giocavo. I giochi spontanei che facevo, visti oggi a posteriori, contenevano anche i primi passi di una sorta di educazione musicale induttiva. Quasi una prassi che mia mamma e Giovanni, ma anche mio padre Sergio seppur dall’altra parte della pianura padana, avevano adottato nei miei confronti e che si potrebbe sintetizzare con: non ti insegniamo la musica ma ti alleniamo all’ascolto come strumento per l’interpretazione del mondo e quindi, successivamente, come strumento per la definizione di un tuo mondo. Ti allego un frammento di questi primi appunti.

“Quand’ero piccolo, quando la mia altezza era nettamente al di sotto dei 60 cm, ero molto più saggio di ora. Utilizzando una mia personale grammatica dei suoni, intrecciata come l’ordito di un tessuto alla trama di quello che, più tardi, avrei imparato a chiamare silenzio, parlavo giornate intere con nuvole, foglie, formiche, vento… ed ero preso in serissima considerazione. Dirò di più, ma resti fra noi: a volte mi rispondevano. Non avendo ancora frequentato gli specchi, privo d’ogni illusoria scissione fra me e il mondo, non essendo ancora inciampato nei bau bau culturali delle ambizioni e solitudini vivevo semplicemente a tempo e soprattutto: nel tempo. Né prima né dopo. Consapevole, pur senza saperlo, d’essere organico, piccola rotellina (s)dentata, del grande meccanismo vivente della causalità udibile e inaudibile, visibile e invisibile faustianamente parte di quel tutto. Così, con naturale gioia (la gioia originale in assenza di peccato) ero nel perfetto equilibrio armonico con me stesso e l’ambiente (ovvero l’altro me stesso) all’interno della continua variazione e trasformazione delle frequenze sonore di Kronos. Di quel periodo, di quando misuravo radicalmente meno di 60 cm, non ricordo infatti la Paura. Ricordo i suoni, e le azioni che ne derivavano, il guardare negli occhi, a quattro zampe i miei simili: gatti, lucertole, fili d’erba. Giusto per portare un esempio concreto delle molteplici attività e relazioni che intrattenevo in quel periodo di polifonia in-cantata, avevo progettato e costruito una scatola sonora. Una struttura piuttosto articolata e su più piani fatta con pietre sovrapposte, che, pensandoci ora, ricordava nella sua configurazione quasi circolare, la fisionomia di Stonehange. L’obiettivo, se non ricordo male, era quello di catturare, isolare e amplificare i suoni che non percepivo a orecchio nudo ma che intuivo essere nascosti nell’aria, lì, da qualche parte, come i passettini rapidi degli insetti, i fagioli che avevo infilato nella terra e il loro sforzo per crescere, la vibrazione interna e residua alle pietre una volta battute fra di loro. Un giorno però mi cadde una merendina proprio al centro della scatola e, in breve, quello strumento musicale si trasformò in una sorta d’autogrill per formiche e io nel donatore di cibo. Imparai velocemente l’ebbrezza illusoria del potere (sfamare le masse!) e accantonai momentaneamente i motivi della mia ricerca… tutt’ora in atto”.

Rispetto a Cage, mi rendo conto d’averla presa un po’ alla larga ma, la sua presenza, come capirai a breve, non è stata soltanto una fonte d’ispirazione, come hai giustamente notato, per la partitura di questo madrigale, ma è intrecciata indissolubilmente alle memorie e alle presenze in queste 9 stanze veneziane.
Come sai, risalendo le scale dalla foresta all’entrata di casa, la prima cosa che salta agli occhi è la targa, sulla porta d’ingresso, con un cognome straniero. È dalla fine degli anni ’50 che il cognome Amey, inciso su una lastra di ottone, sostituisce il nome della nostra famiglia. Il perché non mi aveva mai interessato e quindi non l’avevo mai chiesto. Sapevo soltanto che era il nome del vecchio inquilino. La ragione della persistenza di questa targa, e del suo valore simbolico, me l’ha svelata recentemente un amico musicologo in visita da noi. Amey (Frank) era un compositore americano che frequentava Peggy Guggenheim a Venezia a cavallo fra i ‘50/60 (noi abbiamo cominciato a vivere li dal ’69) amico di John Cage e, con buone probabilità, il primo ad invitare Cage, Cunningham e David Tudor a Venezia per un concerto. Ho chiesto al vicino di casa se si ricordasse di questo compositore e dei suoi amici e mi ha risposto con una frase che non m’aspettavo: “Ma certo Cage quand’era a Venezia visitava spesso Amey, insieme a Peggy Guggenheim e ai suoi amici. Si facevano molte feste in quel periodo, a volte ci partecipavo anch’io, ed è verosimile che il vostro vecchio Bechstein sia stato suonato da Tudor e anche da Cage… eravamo tutti molto giovani“. Come poteva Giovanni sostituire la targa? Semplicemente non poteva e ovviamente nemmeno io posso. Cage era quindi letteralmente di casa, anche se all’epoca nessuno di noi lo conosceva personalmente, ma era di casa soprattutto perché, oltre ad averla frequentata prima del nostro arrivo, era studiato ed ascoltato da Giovanni insieme a molta altra musica di quel periodo. E tutta quella musica, piuttosto inusuale per l’epoca, riverberava nelle stanze alternandosi, sia con molte musiche più consuete, sia in contrappunto con il rock, a tutto volume, che cominciavo ad ascoltare nella mia camera. La pari dignità con cui Giovanni trattava ogni evento sonoro, dal suono della pietra che cade a Ligeti, Bach, Stokhausen, Zappa, Gabrieli, Beatles, Maderna, Cage ecc., è sicuramente parte costitutiva del mio imprinting, che mi ha reso molto disponibile verso tutte, o quasi tutte, le forme acustiche e musicali senza particolari gerarchie e nello stesso tempo mi fa sentire come un pesce fuor d’acqua – giusto per rimanere in laguna – in questo presente così parcellizzato in miriadi di nicchie identitarie. Per dirla con il meraviglioso Dorfles oggi ci troviamo di fronte a isole linguistiche chiuse dentro ad uno specifico idioma, utilizzato sovente, non come sapere condiviso, ma come forma di potere.

Per tornare a Cage e alla casa ispiratrice, curiosamente, la prima prova filata che abbiamo fatto e cronometrato di Madrigal for 9 rooms, durava esattamente 33.4. L’opposto del celebre 4.33 di Cage. E questa inversione del tempo, così casuale e mai più capitata, sintetizza bene la mia opinione, in generale, su alcuni grandi Maestri del ‘900, Cage in primis: vanno studiati e ribaltati! Ma credo che avremo modo di parlarne prossimamente in modo più approfondito.

Un abbraccio! A

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Caro Andrea,
la tua lettera ha ulteriormente accentuato la nostalgia per quella casa in cui sono stato ospite diverse volte prima di trasferirmi a Parigi nel 1993. Mi ricordo che, abitando allora a Torino, quando pernottavo lì il mattino, mi svegliavo tardi rispetto alle mie abitudini perché mi pareva di essere su una specie di nuvola. Erano le sirene dei vaporetti e delle navi che mi svegliavano ma, filtrate dalla nebbia e dalla laguna, creavano una piacevolissima e dolcissima transizione dal mondo dei sogni alla realtà. Tantissimi sono i ricordi legati a Giovanni e Margot. Te ne racconterò uno solo. Una sera tardi ero uscito per fare una passeggiata e mi lasciai catturare dai labirinti delle calli. Da buon torinese abituato alle vie dritte e perpendicolari, smarrii la strada e mi misi a vagabondare per Venezia. Poiché si faceva molto tardi (dovevano essere le 2 o le 3) oltre all’angoscia di non riuscire più a ritrovare il cammino, vi era quella di svegliare e disturbare Giovanni. Quando finalmente riuscii a rincasare trovai Giovanni che stava lavorando e che mi propose di prendere un caffè con lui, dopodiché chiacchierammo per alcune ore rifacendo il mondo. 
Quanto al tuo disappunto di doverlo chiamare patrigno, lo capisco perfettamente. È una parola dal suono maligno, esattamente il contrario di ciò che lui era. Ti consiglio, semplicemente, di usare l’equivalente francese per indicare il suo statuto giuridico nei tuoi confronti: «beau père» , che corrisponde molto di più al suo carattere e al ruolo che ha avuto nella tua vita. Lo definisci musicologo, il che è molto riduttivo, perché era medico, artista, versato in molte arti e discipline, fra cui, certo, anche la musica e la musicologia: un umanista vero, dotato di uno straripante sense of humour. Ma, certamente,il suo statuto ufficiale, nelle istituzioni presso le quali operò a Venezia (Cà Foscari e Istituto della musica da lui creato alla Fondazione Cini) era quello di musicologo. Ma adesso passiamo ad un altro argomento. Ho visionato il tuo video su Ivry, e te ne voglio parlare… Cari saluti

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Gianfranco caro,
hai perfettamente ragione Giovanni era innanzitutto un umanista e ha lasciato decine e decine di memorie significative in tutte le persone che l’anno conosciuto. Ne sono testimone perché, come sai, a Venezia ci s’incontra nelle calli costantemente e continuo, a distanza di anni, ad incontrare persone, anche sconosciute, che mi fermano e mi raccontano di lui.

Ti ringrazio inoltre per avermi fornito una via di fuga dalla parola patrigno. La terrò presente. Quando giravamo per Venezia insieme, con mia mamma e Giovanni, a volte succedeva che qualcuno ci fermava, mi guardava e poi, rivolgendosi a mia mamma, diceva, riferito a me: xe tuto so pare… che tradotto vuol dire “è tutto suo padre“. Giovanni annuiva, sornione, come per ringraziare e io e mia madre facevamo di tutto per non guardarci negli occhi scoppiare a ridere…

Ancora grazie e alla prossima con Ivry Gitlis…

Un abbraccio! A

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