Luciano Chailly, cent'anni dopo

Con una nota sull’esordio ‘operistico’ del 1955

Uno dei rischi principali che si corre, parlando di musicisti che sfuggono a buona parte delle indagini critiche (e, perché no, anche delle programmazioni concertistiche e teatrali) è la tentazione dell’apologia: quella di chi crede, cioè, di dover ‘riabilitare’ la memoria di un artista ingiustamente trascurato, con annesse – inevitabilmente – discussioni su ‘canoni’ da ridiscutere e ‘gerarchie’ da ripensare. Un altro rischio – questo difficilmente aggirabile, a dire il vero – del ‘discorso musicale’ riguarda le modalità con cui inquadrare e connotare la personalità e/o lo stile dell’artista oggetto d’indagine: nella maggior parte dei casi di quelli sfuggiti alle ‘griglie’ critico-storiografiche dominanti si finisce sempre per scegliere una medietas a distanza di sicurezza da posizioni radicali. Per intenderci: ‘eclettico’, ‘difficilmente inquadrabile in una tendenza dominante’, ‘moderno ma ben consapevole della tradizione’, al netto di sinonimi e varianti. Nel dedicare una breve nota a Luciano Chailly (1920-2002), che avrebbe compiuto cent’anni nell’anno che si sta chiudendo, vorrei evitare di cadere nelle trappole sovramenzionate.
A partire da una semplice constatazione: Chailly non è un compositore dimenticato. Trascurato, forse, in sede musicologica; né così frequentemente eseguito. Ma con importantissime eccezioni: nelle scorse settimane, grazie ad una collaborazione tra istituzioni trentine (l’Archivio Provinciale, il Dipartimento di Lettere e Filosofia e la Società Filarmonica) e Conservatori (il “Verdi” di Milano e il “Cantelli” di Novara), per celebrare il centesimo compleanno di Luciano Chailly è stato realizzato un tele-convegno in dodici puntate, in cui figure di spicco della musicologia e della musica hanno condiviso – oltre che preziose testimonianze – gli esiti delle proprie ricerche dedicate al compositore.

 

Diplomato in violino e in composizione, laureato in Lettere e successivamente allievo di Paul Hindemith a Salisburgo, Chailly è stato compositore, scrittore, docente, divulgatore, critico musicale, organizzatore musicale, assistente musicale alla Rai e direttore artistico (anche del Teatro alla Scala e dell’Arena di Verona). La ‘doppia’ formazione, letteraria e musicale, gli ha fornito un profilo culturale e creativo capace di tenere in alta considerazione entrambi i linguaggi: oltre al suo coinvolgimento diretto nella stesura di alcuni suoi ‘libretti’, infatti, recano testimonianza della sua naturale attitudine letteraria anche gli articoli e i libri pubblicati (Le variazioni della fortuna, Cronache di vita musicale, Buzzati in musica). Chailly ha composto opere e balletti, musica cameristica e sinfonica, musica sacra, musica vocale, musica per la radio e per la televisione. Sul fronte compositivo e drammaturgico, Chailly non è un compositore d’avanguardia: non rinuncia al teatro ‘narrativo’, né all’individuazione vocale dei personaggi; nella scrittura strumentale non rinuncia al tematismo né a organizzazioni formali talvolta del tutto lineari (si analizzino, a tal proposito, le note sonate “tritematiche”). Ma nell’uno e nell’altro caso dimostra una propria cifra personale: nella scelta di soggetti letterari grotteschi e surreali (Buzzati, Cechov, Ionesco), nell’utilizzo di strumentazioni ed organici insoliti, in una spregiudicata sapienza contrappuntistica, in una ‘gestualità’ audace “che non dimentica la musicalità” (sono le parole di Goffredo Petrassi, in una lettera dei primi anni settanta).
Luciano Chailly è stato protagonista e testimone del proprio tempo, senza mai precludersi alcuna esperienza o contaminazione; a partire dagli anni giovanili in cui nello studio dello zio Giuseppe Ravegnani ha la fortuna di incrociare – tra gli altri – Soffici, Ungaretti e Montale, nel corso degli anni riesce a ‘costruire’ incontri importanti, intrattenendo relazioni professionali e amicali con alcune delle più autorevoli personalità del Novecento italiano (e non solo): da Guido Cantelli a Giorgio Federico Ghedini, da Marcello Abbado a Gino Negri, da Riccardo Bacchelli a (soprattutto!) Dino Buzzati, da Giorgio Albertazzi a Eugène Ionesco. Luciano Chailly è un artista colto, curioso. Ed eclettico, sì, nonostante la mia reticenza preliminare sull’utilizzo del termine: d’altra parte è lo stesso Chailly stesso a definirsi così, in un’intervista pubblicata in un numero speciale di «Sipario» del 1964, interamente dedicato al melodramma. Ha lo spirito e il piglio dell’umanista, ma non possiede la protervia e la radicalità ‘intellettuale’ di chi voglia teorizzare su nuovi linguaggi: per lui, come scrive nel 1987 nell’introduzione al suo libro su Dino Buzzati, non è l’avanguardia in sé per sé ad essere importante, ma le opere significative che ogni rivoluzione è in grado, eventualmente, di produrre.

 

I ‘rischi’ cui facevo riferimento all’inizio di queste righe sono dovuti ad una certa narrazione che tende ad interpretare i periodi storici segmentandoli ed organizzandoli secondo schemi storiografici piuttosto semplificati, e polarizzati nei termini del progresso e della reazione (o ‘conservazione’).
Secondo tale approccio, la (cosiddetta) “generazione dell’Ottanta” sarebbe stata la generazione audace, innovativa, capace di emanciparsi soprattutto dalla tradizione melodrammatica; i nati intorno al 1900 (ad es. Antonio Veretti e Giorgio Federico Ghedini) sarebbero stati, secondo la definizione data da Massimo Mila, la generazione di ‘rincalzo’, una fase intermedia; e, procedendo in avanti di un ventennio, Luciano Berio (1925), Luigi Nono (1924) e Bruno Maderna (1920) avrebbero infine contribuito a traghettare l’Italia nell’alveo dell’avanguardia. È evidente, tuttavia, che qualsiasi tentativo di realizzare una mappatura della musica italiana del Novecento riconosca in un simile disegno alcune manchevolezze e aporie (manchevolezze che Guido Salvetti, già mezzo secolo fa, aveva avuto modo di riscontrare: e, per quanto la letteratura storico-musicologica abbia nel frattempo fatto ovvi passi in avanti, viene da pensare che la partita sia ancora ‘aperta’). Come collocare, in un quadro del genere, compositori come – per nominarne alcuni, diversissimi tra loro, ma nati tutti nel secondo decennio del ventesimo secolo – Gino Negri, Riccardo Malipiero, Valentino Bucchi, Vieri Tosatti e lo stesso Chailly? Con quali parametri misurarne e valutarne la produzione musicale e l’appartenenza – o la non appartenenza – ad un comune milieu generazionale? È una domanda aperta, indubbiamente: che reca anche in sé il segno di un invito a riconsiderare materiali, fenomeni, tendenze e poetiche, proprio per evitare di rubricarli soltanto alla luce di una maggiore o minore adesione al serialismo, alla sperimentazione sonora o alle tendenze del Nuovo Teatro.

In un dattiloscritto conservato in una busta contenente gli abbozzi e gli appunti per Ferrovia soprelevata (Bergamo, Teatro delle Novità, 1955), Luciano Chailly – che negli anni documenta scrupolosamente tutto ciò che riguarda il proprio lavoro – ha trascritto alcuni di quelli che lui stesso chiama ‘cenni critici’ sulla sua prima opera. Colpisce particolarmente quello di Riccardo Malipiero, pubblicato su «Il Popolo»: “se si spingeva un poco oltre Chailly ci avrebbe dato l’esempio della prima opera lirica della nuova èra [sic.]”. Bisogna ricordare che il teatro musicale, nel secondo dopoguerra, viene percepito e narrato come un meraviglioso museo, economicamente sostenibile solo grazie alla riproposizione dei capolavori del repertorio per lo più ottocentesco. Comporre e mettere in scena lavori inediti è un’operazione costosa ed infruttuosa, e la minaccia costante dell’inattualità del genere costringe i compositori ad infinite cautele e ripensamenti. Le parole di Malipiero, in tal senso, sembrano suggerire l’efficacia di un lavoro che, se non d’avanguardia, possiede quantomeno caratteri d’autonomia e novità.

 

L’opera (“racconto musicale in sei scene”), realizzato musicalmente da Chailly a partire da un testo di Dino Buzzati, va in scena al Teatro delle Novità di Bergamo, forse il più importante ‘laboratorio’ operistico del Novecento italiano (di cui, a mio avviso, si continua a parlare troppo poco). È l’esordio operistico del maestro ferrarese, che viene solleticato dallo strano testo di Buzzati, inizialmente destinato ad un radiodramma.
Due parole sul soggetto di Ferrovia soprelevata: un treno carico di diavoli, pronti a fare incetta di anime, sorvola la città. Uno di loro, Max (quasi un tragicomico Faust in miniatura), si innamora della giovane Laura, che aveva inizialmente sedotto e traviato. Redento e pentito, offre se stesso in pegno per la salvezza dell’anima della ragazza, venendo così trasformato in cane. Entrambi – Max e la giovane – vengono infine assunti in paradiso. Il fascino e la peculiarità dell’opera, oltre che nel realismo grottesco del soggetto, sta proprio nella particolare drammaturgia adottata. I personaggi per lo più recitano, con la musica che interviene sonorizzando il testo in alcuni momenti particolari (ricreando ad esempio i rumori della città, del treno, della strada, etc.); le canzoni ‘in scena’, regolarmente previste dal testo, vengono però eseguite da cantanti posti in orchestra, provocando quello che Angelo Rusconi ha definito “uno strabismo che capovolge […] la più tradizionale delle forme di realismo musicale in teatro”. Inoltre, la vicenda è costantemente commentata da uno speaker, che oltre a sottolineare la vocazione ‘radiodrammatica’ dell’opera, ne problematizza ulteriormente la fisionomia, rompendo costantemente l’unità della narrazione e avvicinandola così alla forma del teatro epico.
Cos’è, de facto, Ferrovia soprelevata, l’esordio ‘operistico’ di Luciano Chailly? Un melologo moderno? Un radiodramma adattato per la scena? Un dramma di parola dotato di musica di scena?
Forse l’attualità e l’efficacia di certi lavori concepiti e realizzati in periodi storici ‘di transizione’ può ancora essere còlta e ridiscussa. Il fatto che Ferrovia soprelevata sia stata riallestita con successo nel 2009, al Teatro Studio di Milano, contribuisce forse a dimostrarlo. Nonché a validare retrospettivamente, qualora ce ne fosse ancora bisogno, le parole di Fedele D’Amico, che nel 1960, sul «Verri», ricordava che il “primo pregiudizio da abbattere [fosse] questo: che la musica contemporanea sia una”.

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