Folksongs di Britten: un dialogo con la tradizione

Folksongs di Britten: un dialogo con la tradizione

Il Festival di Nuova Consonanza proporrà il 19 dicembre una serata musicale dedicata al Folksong e, in modo particolare, agli arrangiamenti di Britten. Qui ve ne raccontiamo qualcuno.

Autore: Matteo Macinanti

14 Dicembre 2020

Se cercate una musica che possa farvi venire in mente i verdeggianti prati color smeraldo dell’Inghilterra, i paesaggi rustici disseminati di albionici cottage dai tetti ramati, l’odore acre di pudding e Sheperd’s pie, allora i Folksongs di Benjamin Britten probabilmente non sono quello che fa per voi e vi conviene proseguire oltre con la vostra ricerca.
Ma andiamo con ordine.

Folksongs di Britten

Britten con Pears, ispiratore dei Folksongs

È il 1941 quando Benjamin Britten, in America fin dal 1939, scrive sulle pagine della rivista Modern Music un articolo dal titolo England and the Folk-Art Problem che vale la pena citare a più riprese: dopo un esordio particolarmente tranciante – «sono stati così pochi i compositori di spicco in Inghilterra dall’inizio di questo secolo. Non sorprende che l’America conosca così poco della moda musicale di questo paese» – l’autore affrontava il problema di petto:

“Le principali attrazioni dei canti popolari inglesi sono la dolcezza delle melodie, la stretta connessione tra le parole e la musica, e il fascino tranquillo e non movimentato dell’atmosfera. Questa necessità, tuttavia, fa parte della debolezza delle melodie, che raramente hanno un ritmo suggestivo o caratteristiche melodiche memorabili. Come gran parte della campagna inglese, si insinuano negli affetti piuttosto che prenderli d’assalto.”

Non si direbbero certo righe uscite dalla mano dello stesso compositore che in quegli anni iniziava a dedicare molti pentagrammi agli arrangiamenti di musiche tradizionali della propria terra. Nel 1943, un anno dopo il ritorno in patria, Britten pubblicava infatti il primo degli otto volumi di arrangiamenti di Folksongs delle isole britanniche e della Francia, la cui composizione l’avrebbe accompagnato fino all’anno della morte, avvenuta nel 1976.

Se è vero che la tradizione musicale britannica accompagnò fedelmente la vita artistica del compositore, come si spiega il giudizio poco benevolo espresso nell’articolo del 1941? In realtà, il bersaglio delle critiche del compositore non era tanto il folksong in sé, quanto piuttosto l’uso che di esso facevano i suoi colleghi compositori appartenenti alla corrente artistica dell’English folk school. Secondo Britten, le premesse di questa corrente artistica erano caduche, poiché si prefiggevano l’obiettivo di ripristinare e tenere in vita un mondo, quello dell’età vittoriana, ormai irrimediabilmente perduto: «queste persone hanno fatto sforzi notevoli per ristabilirlo [il folksong] ma i loro sforzi erano destinati a fallire, dal momento che il folksong non è più parte della vita sociale della gente».

Nella visione di Britten, ogni slancio artistico che avesse come scaturigine il nazionalismo nascondeva in verità mancanza di ispirazione e di gusto estetico: «il tentativo di creare una musica nazionale è solo uno dei sintomi del serio e universale malessere della nostra epoca: il rifiuto di accettare la distruzione della “comunità” per opera della macchina». L’articolo si concludeva così: «solo coloro che accettano la loro solitudine e rifiutano ogni sorta di rifugio – il nazionalismo tribale o i sistemi intellettuali ermetici – porteranno avanti il patrimonio umano».

È proprio in questo preciso punto intermedio – equidistante sia dal tribal nationalism sia dagli airtight intellectual systems che si possono collocare Britten e i suoi arrangiamenti, il cui ispiratore fu il cantante, nonché compagno, Peter Pears. L’idea degli arrangiamenti nacque infatti per chiudere con dei bis inglesi i concerti americani del duo Britten-Pears.

Come attingere alla fonte del folk musicale senza correre il rischio di dipingere delle oleografie sonore del patrimonio tradizionale inglese? E ancora, come schiudere l’Inghilterra dalla sua condizione di – letterale – isolamento e aprirla alle novità provenienti dal continente? Il compositore scelse una linea piuttosto chiara e definita: reinterpretare la canzone tradizionale senza l’ansia filologica di restituire la purezza dell’originale, intavolando così un dialogo personalissimo con la storia.

Come afferma Eric Roseberry in questa citazione che implora di essere perdonata perché intraducibile: «What makes this oeuvre distinct is its absolute removal from the kind of “Englishness” that may be associated with the Edwardian pomp and pageantry of Elgar, or later characterized in the watery meadows and “gaffers on the green” modal meanderings and rustic frolics of the school of the English folklorists».

Cosa sono allora i Folksongs di Britten? Per esplorare queste piccole gemme del repertorio per voce e pianoforte possiamo farci guidare dall’antica melodia gallese Llwyn Onn, tradotta poi in inglese come The Ash Grove, di cui qui sotto trovate una versione in lingua originale, mentre qui una versione per violino più giuliva suonata da un signore troppo simpatico per non essere condiviso:

Pubblicata per la prima volta nel 1802 all’interno della raccolta The Bardic Museum dell’arpista Edward Jones, questa canzone tradizionale ebbe lunga vita e una sua versione scozzese venne arrangiata anche da Beethoven stesso.

In che modo Britten organizza il materiale? Come i migliori liederisti, il compositore parte senz’altro dal testo come base per lo sviluppo musicale. Testo che, com’è ovvio, non può prescindere da amori perduti, ruscelletti e campanule. Nella prima parte voce e pianoforte dialogano serenamente in un quasi canone sul ppp, finché il Romeo della situazione si rende conto che lui e la sua Giulietta devono separarsi. È proprio su “how soon we should part” che i due discorsi musicali, pianoforte e voce, iniziano a prendere due direzioni diverse in un crescendo di dinamica e di pathos: mentre la mano sinistra continua indefessamente a seguire il solito canto, la destra inizia ad esplorare altre tonalità causando false relazioni e dissonanze con la voce principale e rompendo la rotondità ritmica del 3/4. In questa situazione armonica dal sapore bitonale e dal carattere straniante si consuma in pochi secondi l’effetto “drammaturgico” dell’allontanamento degli amanti. Ma è questione di pochi istanti: torna il canone, torna la consonanza e torna la ragazz… ah no, nel frattempo è morta non si sa bene come.

La dissociazione di Britten dalle istanze nazionalistiche che secondo lui presiedevano alla conservazione del folk britannico appare evidente dalla naturalezza con cui l’autore si muove tra repertori di diversa provenienza, non necessariamente inglese. Particolarmente degni di essere menzionati sono ad esempio gli arrangiamenti delle Irish Melodies del poeta irlandese Thomas Moore, che compongono il quarto volume dei Folksongs, pubblicato nel 1960. Alcuni di questi brani si presentano come delle miniature notturne, dotate di un timbro particolare, che sembrano cristallizzare le antiche melodie in una bolla fuori dal tempo in cui le componenti tradizionali (l’uso di scale pentatoniche) e la modernità dell’accompagnamento pianistico sembrano così intrecciate da far credere che Britten si sia solo limitato a trascrivere qualcosa che in realtà è sempre esistito sotto quella forma. È il caso di How Sweet The Answer, che gioca sul motivo dell’eco e dei sospiri d’amore.
Sembra quasi di sentire il Debussy giavanese o comunque qualsiasi musica del ‘900 che, liberata dalla dialettica teleologica del tempo occidentale, si immerge in una visione della temporalità circolare e senza scopo. Sul mormorio costante delle terzine del pianoforte traluce di tanto in tanto il motivo dell’eco che, non accontentandosi di fungere da semplice madrigalismo, viene colorato da Britten con intervalli di quarte parallele. Ne risulta un’atmosfera onirica e sospesa che, in poco più di due minuti di musica, non può fare a meno di incantare l’ascoltatore.

 

Procedimenti simili compaiono anche in un altro brano della stessa raccolta, At the Mid Hour of Night, caratterizzato da un costante movimento discendente di accordi di quarta e sesta. Ma Britten non dimentica anche la carica fortemente umoristica della tradizione folk. Così in The Crocodile, scritta nel 1941, il compositore non si preoccupa minimamente di “sporcare” la canzone tradizionale con note sbagliate, cambiamenti repentini di tonalità e armonie particolari che dotano il brano di un inconfondibile humour inglese.


Questi esempi possono dare un’idea di quanto la tavolozza di Britten fosse estesa e aperta a varie possibilità di interpretazione della tradizione.
Se quindi, come si diceva in apertura, questi brani forse non sono tra i più indicati per fornire un’ideale immagine sonora dell’Inghilterra, proprio in virtù della loro scarsa fedeltà all’originale, possono però darci un’idea di quanto la penna di Britten fosse feconda e felicemente fantasiosa.
È più o meno quello che pensava anche un collega più anziano del compositore, il già citato Ralph Vaughan Williams, il quale ebbe modo di fare un’osservazione che, forse più di tante altre parole, può far comprendere la concezione innovativa del folksong propria di Britten:

“Siamo dei vecchi parrucconi del movimento del canto popolare che si stanno abituando alla routine? Se è così, ci fa molto bene esserne tirati fuori da giovani destrieri infervorati come Benjamin Britten e Herbert Murrill. Noi vediamo un lato del canto popolare, loro vedono l’altro. Loro probabilmente pensano che il nostro punto di vista sia irrimediabilmente noioso e pesante, ma questa non è una scusa per etichettarli come impacciati o volutamente stravaganti. Personalmente sono contento di vedere che questi razzi arrivino da una terraferma sonora da cui credo che tutti i voli di fantasia debbano decollare: una bella melodia, una melodia spontanea […] Queste nuove impostazioni nascono dall’amore per la melodia? Allora, qualunque sia la nostra reazione personale, forse dobbiamo rispettarle.

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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