Comporre il presente: intervista a Marcello Panni

Al 57esimo Festival di Nuova Consonanza Marcello Panni ha presentato in prima esecuzione assoluta il suo ultimo lavoro: Commiato per voce e quattro strumenti

Autore: Martina Cavazza

19 Dicembre 2020

In occasione della 57esima edizione del Festival di Nuova Consonanza abbiamo chiesto a Marcello Panni di condividere con noi alcune riflessioni sugli ultimi suoi lavori, sul presente della cultura e sul ruolo del compositore. Qui di seguito la nostra intervista.

I tuoi ultimi lavori, eseguiti in prima assoluta il 4 dicembre 2020 per il Festival di Nuova Consonanza (insieme ai Tre Haiku del 1988/89), sono stati scritti durante il periodo di reclusione della pandemia. L’atto del comporre richiede sempre la solitudine, ma la reclusione costituisce un’esperienza di solitudine nuova e diversa. Come hai vissuto questa condizione? Credi abbia influenzato la tua scrittura?

È vero che nel momento del comporre per me non è cambiato molto. La vita sociale, invece, ha subìto una trasformazione radicale. Io sono sempre stato presente ai concerti. Sono molto curioso, mi informo, vado assiduamente a sentire solisti e compositori, opere. Il fatto di non potermi muovere, di non poter assistere alle esecuzioni dal vivo, senz’altro mi ha intristito. È stato un momento di scrittura in un’atmosfera piuttosto difficile, soprattutto per via di tutti gli amici che sono scomparsi nell’ultimo anno, e non solo per il Covid. A Roma sono rimasto il più anziano! Dopo la morte di Morricone, di Baggiani, di Bertoncini, di Ivan Vandor, sono ormai il decano di Nuova Consonanza. Non mi ci sono ancora abituato…
Per questo mi è venuto in mente di riprendere quello che doveva essere in origine un Requiem sulle poesie di Omar Khayyam e ho scritto il Commiato. Il brano prende spunto da Le Vesti della notte, una composizione precedente per soprano e tredici strumenti su tre quartine di Khayyam, scritta su commissione di Santa Cecilia nel 2014. Se quelle erano quartine dedicate al vino – che nella visione di Khayyam ha un aspetto spirituale, è legato alla conoscenza – queste ultime due, invece, del Commiato, trattano proprio dell’esperienza di rimanere soli dopo che i nostri commensali hanno abbandonato la tavola prima di noi.
I tre Haiku, d’altronde, affrontano tematiche simili, che riguardano la fragilità e l’inutilità. Dunque il Commiato e gli Haiku sono accomunati dallo spirito, oltre che dall’uso dello stesso organico, dalla modalità di scrittura e dalla brevità. Le due parti di cui è composto il Commiato, poi, sono di carattere diverso, come fossero degli esercizi di scrittura connessi a due linguaggi. Il primo si avvicina al post-webernismo, utilizza segni molto precisi e differenziati. Il secondo, invece, è più bussottiano. E’ come un’alea guidata dal testo scritto, per cui ognuno si muove, ma dentro una specie di gabbia, che in fin dei conti è quella in cui ci troviamo tutti – cerchiamo di muoverci, ma siamo tutti costretti nella nostra gabbia…

Soprattutto in questo momento.

 Infatti. Devo dire che non è stato facile scriverli. In generale uno si domanda perché scrive e soprattutto per chi scrive, e in quel momento non avevo un vero destinatario. La richiesta da parte di Nuova Consonanza di una prima insieme a Petrassi e Pennisi è venuta più recentemente. Per me è molto complicato scrivere se non so dove e chi lo eseguirà. Sono legato a una concezione ancora molto artigiana.

Quindi il rapporto con il pubblico è molto importante.

Certo. Io penso sempre agli ascoltatori; a volte condizionano. Ricordo che da giovane mi capitava di chiedermi, in fase di scrittura, “che ne dirà di questo Donatoni?” oppure “che cosa ne penserà Bortolotto?” Abbiamo anche dei condizionamenti inconsci (o in realtà consci…) riguardo a come arrivare al pubblico, come fargli arrivare certe cose. In ogni caso soprattutto ci vuole una situazione di certezza per creare, altrimenti si inaridisce la vena.

Che cosa ne pensi di questa 57esima edizione del Festival di Nuova Consonanza in streaming?

Devo dire la verità, sono rimasto molto contento. Non sorpreso, perché mi aspettavo dei buoni esiti, ma contento. Se si fosse trattato di riprodurre una grande orchestra la questione sarebbe stata più complessa. In quel caso è fondamentale il ruolo del tecnico del suono, che diventa quasi un co-direttore della produzione. Una cattiva registrazione può stravolgere completamente gli equilibri. L’altro giorno, per esempio, a un concerto in streaming è accaduto che il suono del pianista solista fosse coperto da quello del secondo fagotto. Dipende tutto da dove vengono messi i microfoni, dalla loro qualità, dal missaggio dei canali, dalla post produzione. Per fortuna però nel nostro caso si tratta di musica da camera, per cui la registrazione è più facile. Ci sono meno microfoni da posizionare, quindi è più semplice azzeccare gli equilibri. Una buona registrazione che circola online può essere uno strumento di diffusione della musica molto importante, amplia notevolmente le possibilità di ascolto. Può trasformare un ascolto locale in un ascolto nazionale o internazionale. Basti pensare che a un concerto al MACRO di musica contemporanea vengono mediamente tra cinquanta e cento persone, mentre noi siamo già a mille ascolti a concerto.
Ho ricevuto reazioni da compositori e amici ascoltatori che sono in Giappone, che sono in California, in Germania, per dire. E inoltre i brani “restano”, perché l’ascolto continua. Negli ultimi giorni il primo concerto della stagione ha già quasi triplicato gli ascolti. In più la rete favorisce la ricerca. Qualcuno mi ha detto che aveva sentito i miei brani e che poi era andato a sentire tutte le altre mie composizioni. Se ti piace un pezzo di un compositore o l’esecuzione di un solista o di un ensemble hai immediatamente la possibilità di andare a cercarne altri, scovando magari anche qualcosa di nuovo nel frattempo.

Non temi che la partecipazione al concerto online possa diventare una preferenza da parte del pubblico e che possa portare alla chiusura dei teatri?

Questa in realtà non è una tematica del tutto nuova. E’ una vecchia polemica che risale all’esplosione della discografia a 33 giri degli anni ’50 del secolo scorso. Ricordo che si diceva: “se ci sono i dischi, con queste riproduzioni così perfette, nessuno andrà più a sentire i concerti!” Effettivamente perché andare a sentire una sinfonia di Beethoven in sala da concerto se hai su disco tutte le sinfonie di Beethoven dirette da Karajan? O perché andare a sentire un pianista poco noto dal vivo, se hai lo stesso concerto inciso da Rubinstein? E invece la discografia su vinile – con la pubblicazione delle opere complete, dei cofanetti integrali e la divulgazione capillare – ha dato una grande pubblicità alla musica classica. Ha innescato una curiosità che ha spinto, al contrario di quello che si temeva, a una maggiore partecipazione dal vivo. La riproduzione favorisce anche l’apprendimento. Con il disco si possono imparare un sacco di cose, ascoltando e ri-ascoltando, e credo che questo stimoli la volontà di andare al concerto dal vivo. Mi ricordo la collezione I Maestri del colore degli anni ’60, benemerita edizione Rizzoli, in cui si pubblicarono riproduzioni integrali di diversi grandi pittori. La conseguenza fu che anche in Italia le persone andarono di più ai musei, non di meno. Basti pensare anche alla diffusione dell’opera lirica in questo momento in tutto il mondo, ai teatri che si costruiscono per avere maggiori luoghi di esecuzione. Alla mia epoca negli Stati Uniti c’era solo l’Opera di San Francisco, quella di Chicago e il MET a New York. Adesso ci sono teatri d’opera in tutte le città americane, in tutte le città cinesi, in tutte le città coreane e giapponesi.
L’Italia fa eccezione, in parte, perché ci sono stati errori politici gravi, il primo dei quali è stato dichiarare che la musica è tutta uguale. La musica di Dalla e di Nono, o quella di Berio e di Baglioni, sono state messe indistintamente sullo stesso piano. Questo ha creato una grande confusione. Inoltre si sono chiuse le orchestre sinfoniche, i cori, scoraggiato le piccole società, impoverendo la molteplicità dell’offerta e disperdendo il pubblico.
Un altro problema grave è l’assenza di luoghi di ascolto dedicati alla musica contemporanea, per esempio. Gli artisti contemporanei sono costretti a muoversi raminghi tra i musei e i teatri universitari. Il pubblico ci sarebbe, ma non ha un luogo fisso in cui andare, come a Parigi l’IRCAM. Nuova Consonanza all’inizio negli anni sessanta ebbe una stretta collaborazione con la Galleria d’Arte Moderna, tanto che la Galleria cominciò a costruire un auditorium per musica e conferenze che è in costruzione dal 1970. Sono passati cinquant’anni ed è ancora un bunker di cemento.

Ci sono altri problemi, però, collegati alla rapidissima diffusione di musica online. La rete riduce qualsiasi distanza, geografica o temporale, a un semplice click. Se ogni linguaggio musicale è ugualmente accessibile si può creare, appunto, una certa confusione, e questa indistinzione sostanziale rischia di appiattire il linguaggio.

 La koinè musicale è una cosa che è sempre esistita. Il post Darmstadt, per esempio, fu una tragedia da questo punto di vista: i compositori scrivevano tutti nello stesso modo, che fossero polacchi o giapponesi.
Anche in tempi più remoti, come ad esempio nel momento di esplosione della polifonia, c’era un linguaggio che accomunava Palestrina, Tomàs Luis de Victoria e Orlando di Lasso. Allo stesso modo, per quanto riguarda la musica dell’Ottocento, a volte ci chiediamo se stiamo ascoltando Schumann o Schubert (quando proprio non sappiamo chi è il compositore che stiamo ascoltando, è sempre Sibelius…)
Anche Ravel e Debussy, sebbene si odiassero, in certa misura si assomigliavano. Il neoclassicismo è stata una vampata: dal Pulcinella di Stravinsky in poi si assomigliavano tutti.
Ci sono, naturalmente, delle caratteristiche di alcuni compositori che fanno sì che non possano essere confusi con nessun altro, ma è anche vero che ogni tempo ha un suo linguaggio comune. Questo linguaggio è necessariamente figlio dei modelli di tempi precedenti e talvolta anche di luoghi differenti. È una koinè che si trasforma lentamente secondo quelle che qualche cattivo definirebbe “le mode” e che bonariamente si possono chiamare le influenze che abbiamo gli uni sugli altri. Non so quanto la rete possa influire su questa tendenza. Oggi l’influenza maggiore probabilmente è ancora quella di Stockhausen. Il serialismo è scomparso, ma lo strutturalismo regge. Ancora si pensa per formule. La musica elettronica fu un’altra rivoluzione che portò a una grande uniformità di linguaggio, fu un nuovo aspetto di koinè. Molti compositori oggi non ne possono fare a meno.

Marcello Panni

Un giovane Marcello Panni insieme a Stravinsky (da ricordi.com)

Le trasformazioni di koinè nell’arco della tua vita le hai potute vivere e osservare da diverse posizioni: oltre ad essere un compositore sei stato anche direttore e direttore artistico.

È un fenomeno piuttosto frequente nella storia della musica. Pensa a Wagner e Mahler! Anche Luciano Berio fu organizzatore, direttore, insegnante. Soprattutto le figure di riferimento per me sono state Casella, di cui ho cercato di imitare la vita attivissima (a parte che non sono un pianista), di compositore, direttore, organizzatore, diffusore della musica; e Bruno Maderna, che purtroppo è andato via troppo presto, ma senza di lui la musica in Italia, e non solo, sarebbe stata diversa.

Le qualità che deve avere un direttore artistico oggi sono sicuramente diverse da quelle che richiedeva la cultura del Novecento.

Sì. Ci sono due tipi di direttori artistici: quelli che guardano avanti e quelli che guardano indietro, che sono la maggioranza, anche per l’enorme presenza della musica del passato nell’oggi. Mai come oggi un compositore come Ockeghem è contemporaneo di Stockhausen perché, come dicevamo prima, puoi ascoltarli uno dopo l’altro con facilità soltanto cambiando postazione su YouTube.
Sono tutti contemporanei. Qualcuno addirittura ha detto che la musica è tutta contemporanea, che qualsiasi musica di qualsiasi epoca è nostra contemporanea per il fatto stesso che viene eseguita oggi.
Non solo tutta la musica composta fino ad ora, ma anche la musica eseguita negli ultimi settant’anni è presente oggi su Youtube, per cui quando registri Beethoven ti devi confrontare con Toscanini e Karajan, Klemperer e Kleiber, Furtwängler e Walter .

Una bella sfida!

In più è finito il tempo delle scoperte, abbiamo scoperto praticamente tutto, stiamo raschiando il fondo. Comunque si preferisce sempre, alla promozione di opere nuove, proporre le sinfonie di un compositore del Settecento che precede Mozart ma non è Mozart, o l’ultima opera rinvenuta di Donizetti, o l’ultima versione dal centone di Rossini con l’aggiunta di quelle otto battute che non sono mai state eseguite perché erano state cancellate. Tutto è stato fatto e riesumato ed è tutto presente e questo schiaccia la produzione contemporanea.

Quale può essere quindi il ruolo di un compositore oggi? Perché scrivere in questo scenario appena descritto?

Questo mi riporta un po’ all’inizio di questa nostra conversazione. Me lo chiedevo, mentre scrivevo il Commiato. “Perché? Perché lo faccio?” È come la poesia. Se torniamo alle origini della musica, possiamo ricordare quanto fosse strettamente legata alla poesia. La poesia non serve a niente ma l’uomo non ha mai smesso, e forse mai smetterà, di scrivere poesie. E’ un istinto dell’uomo quello di esprimersi in forma poetica. Perché lo faccia non si sa, ma senza dubbio il mondo è pieno di poeti.

C’è una poesia di Patrizia Cavalli che recita “Qualcuno mi ha detto che certo le mie poesie non cambieranno il mondo. Io rispondo che certo, sì, le mie poesie non cambieranno il mondo”.

 La mia musica non cambierà il mondo, ma se io sento la necessità di scriverla, o se viene richiesta (e mi basta che sia una sola persona a chiederlo), la scrivo. Non ho musica nel cassetto. La fortuna della musica che si produce, poi, dipende da molti fattori, che riguardano in parte l’abilità, in parte la casualità, gli incontri. In un’altra intervista, non ricordo quale, dissi che la vita era come un flipper. Si lancia la pallina, ma non si può prevederne il percorso prima dell’inevitabile precipitare nella buca. Pensa soltanto al fatto che un musicista come Petrassi oggi in gran parte è sconosciuto, se esci dalla cerchia di ammiratori italiani, e ineseguito!  Eppure è stato un grande compositore.
Ai giovani di oggi che si chiedono perché scrivere musica io posso semplicemente rispondere: “fate come i poeti, scrivete”.

Martina Cavazza Preta

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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