Federico Maria Sardelli alla Fenice

Da Venezia, quattro chiacchiere con l’artista.

Autore: Letizia Michielon

26 Ottobre 2020

Federico Maria Sardelli è ritornato al Teatro la Fenice con un doppio appuntamento dedicato a Salieri-Mozart e al Barbiere di Siviglia di Rossini.
“Un tour de force – commenta il direttore toscano – reso più complesso dalla presenza della doppia compagnia di cantanti per Rossini che ha richiesto una memorizzazione dettagliata per quanto riguarda le necessità musicali dei singoli interpreti”. Ma allo stesso tempo un’occasione importante per l’orchestra veneziana, stimolata ad approfondire e perfezionare la prassi esecutiva filologica nelle opere di tradizione.
Vivace, curioso, artista e intellettuale a tutto campo, Sardelli trasmette energia, entusiasmo, leggerezza, qualità che consentono di rinnovare prospettive interpretative ormai consolidate.
La sua passione e capacità comunicativa sono il frutto di un profilo artistico quanto mai sfaccettato. Sardelli non è solo un direttore d’orchestra, ma anche flautista, compositore, musicologo e ricercatore, pittore, incisore e vignettista.
Lo abbiamo incontrato in un momento di pausa tra le molte prove che hanno segnato il suo lungo soggiorno veneziano.

Può descriverci brevemente le caratteristiche di Prima la musica poi le parole di Salieri e del Singspiel mozartiano Der Schaulspieldirektor?

Sono due lavori completamente diversi e se non sapessimo che sono stati rappresentati la stessa sera, il 7 febbraio 1786, nell’Orangerie del palazzo di Schönbrunn, in occasione di una festa di corte per il ritorno a Vienna dell’Arciduchessa Maria Cristina, sorella dell’Imperatore Giuseppe II d’Asburgo, penseremmo che si tratta di due mondi non compossibili. Da una parte il libretto delizioso, effervescente di Giovanni Battista Casti, adatto al divertimento teatrale elaborato dal Kappelmeister  di Legnago, dall’altra il testo visionario che Johann Gottlieb Stephanie offre a un Mozart nel pieno della sua maturità creativa. Salieri crea un intermezzo di tredici numeri in sette scene con alternanza di arie, recitativi e recitativi accompagnati mentre Mozart propone un Singspiel formalmente sperequato, anche rispetto all’Entführung aus dem Serail o al Zauberflöte, in cui l’ouverture è seguita da un lungo testo recitato e da cinque numeri con perle musicali di rara bellezza. Lo stile di Salieri è trasparente ma anche più convenzionale. La freschezza dell’opera sorge dalle continue citazioni di opere altrui e autocitazioni, per noi difficili da cogliere ma ben chiare agli spettatori del tempo. La scrittura musicale di Mozart è invece molto ricca, il canto è sempre accompagnato dagli archi e  dai fiati e questo genera densità armoniche straordinarie.

Ci è sembrata particolarmente fortunata la collaborazione con il regista Italo Nunziata.

Sì, abbiamo lavorato bene insieme, in piena sintonia.
Generalmente io preferisco una regia di tradizione e scenografie che ricostruiscano l’ambiente naturale delle opere rappresentate, ma Nunziata ha una grande esperienza e nonostante la trasposizione in chiave moderna del dittico ha saputo salvare tutte le allusioni ironiche racchiuse nel testo e nel sottotesto.

Al di là dell’atmosfera brillante che emana dalle opere di Salieri e Mozart, il messaggio che giunge allo spettatore è però molto profondo: un invito a lavorare insieme.

È un messaggio antico, che ci arriva fin dalle origini del teatro, a partire da Plauto e Aristofane. Il teatro si crea insieme, proprio grazie ai tanti egocentrismi che si pongono in rivalità gli uni con gli altri. Lo scontro si organizza poco per volta in un dialogo omogeneo e armonioso. “Si stringa costante e sincera amistà”, recita alla fine del suo libretto il Casti, mentre Stephanie raccomanda a ciascun artista di dare “quello che è suo”, senza accordarsi da sé primati che spetta solo al pubblico giudicare ma lavorando per ottenere un risultato frutto della collaborazione  di tutti.

Una suggestione intensa emanava dalla scenografia elaborata dagli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Venezia per l’opera mozartiana.

Sì, anche secondo me. L’astrattismo dei fondali colorati, giocati su rettangoli di luce e e oscurità, con pochi elementi scenici, induce nello spettatore una maggiore attenzione alla musica e una proiezione dei suoi contenuti in una dimensione senza tempo.

Immagino l’interesse che le idee elaborate da queste giovani talenti creativi hanno suscitato su di Lei, così sensibile all’arte figurativa.

Mi attrae molto questo aspetto del teatro. Un giorno mi piacerebbe firmare scene, costumi e regia di opere liriche, anche ideare la grafica del manifesto e i programmi di sala… Durante i primi due mesi del lockdown, oltre a iniziare il nuovo libro su Vivaldi, in collaborazione con l’Istituto Vivaldi della Fondazione G. Cini, dedicato alla musica per organo e cembalo del Prete Rosso, mi sono rifugiato nel mio studio e ho creato una cinquantina di opere tra dipinti e acqueforti. L’emergenza Covid ci ha insegnato a vivere momento per momento, ci fa bene, tempera internamente e aiuta concentrarsi sull’unica realtà possibile, quella del presente.

Quali analogie ha riscontrato tra il dittico elaborato da Salieri e Mozart e il Barbiere rossiniano che ha diretto pochi giorni dopo?

Si tratta di un giovane Rossini, haydniano, affascinato dalle strutture limpide e con uno spirito classico nella testa e nella penna. Il lavoro che ho svolto con l’orchestra è stato quello di scrostare un po’ alla volta consuetudini esecutive tradizionali per tornare al testo nella sua originalità. Prima di immergermi in quella che è la storia della tradizione interpretativa mi interessa cercare di capire cosa sentiva l’autore nelle sue orecchie e come ascoltava le opere il pubblico di allora. Si tratta di un lavoro storico e filologico che viene svolto a monte e che alla fine, attraverso il gesto, prende forma nella pronuncia del fraseggio e nell’attenzione alle diverse articolazioni della scrittura.

Letizia Michielon

 

 

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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