L’opera al bianco di Macerata

Il Tour della Ripartenza.
Seconda tappa: il Macerata Opera Festival.

Autore: Alessandro Tommasi

2 Agosto 2020

 

Il 2 luglio abbiamo ospitato presso il Circolo delle Quinte una puntata dedicata alla ripartenza dell’estate musicale italiana. Alberto Triola, Barbara Minghetti e Nicola Sani hanno ripercorso la strada che li ha condotti dal crollo delle programmazioni alla scelta di ricominciare con nuove energie e nuovi progetti. Per vivere in prima persona l’esperienza dell’Italia post pandemica, dal 21 luglio ho intrapreso un tour che mi ha portato tra Festival della Valle d’Itria a Martina Franca, Macerata Opera Festival e Accademia Chigiana di Siena a toccare con mano la musica che ripopola l’Italia. Questa è la seconda tappa del viaggio.

 

Dopo il bianco splendente delle case di Martina Franca è un altro bianco ad accogliermi, il Bianco Coraggio del Macerata Opera Festival. Approdo nello sferisterico teatro il 25 luglio, con quasi nove ore di macchina (di cui una metà buona di code) insieme al pianista, giornalista e in quest’occasione tassista Antonio Smaldone, che al MOF ha vinto il Concorso Macerata Opera 4.0 per under35 con Βία. Giusto il tempo per cambiarsi e scappare alla prima di Trovatore in forma di concerto.

Macerata

Un frammento da Trovatore. Foto di Tabocchini e Zanconi

Già l’idea di un Trovatore in forma di concerto è peculiare. Certo, l’opera figurava nel cartellone originale insieme a Don Giovanni e alla rimandata Tosca, ma un Trovatore senza scena significa rinunciare a molta della teatralità così musica e libretto per concentrarne l’effetto unicamente nei dettagli dell’esecuzione musicale. Un’operazione resa ancora più difficile dalle complessità intrinseche pandemiche e dello Sferisterio che, come affermato dal direttore musicale Francesco Lanzillotta, costringe a sottolineare gli effetti e tralasciare molte finezze di dinamica e fraseggio che si perderebbero negli ampi spazi di un teatro all’aperto. Teatro che però è ben lontano dalla dispersività areniana e riserva in realtà (nei posti giusti, almeno) un’acustica ben più che dignitosa. La rinuncia alle finezze non può quindi portare ad una lettura piatta e stinta, ma anzi dovrebbe esaltare i contrasti così da renderli ancor più comunicativamente efficaci. Questa sensazione non si è avuta nel Trovatore diretto da Vincenzo Milletarì. Il giovane direttore ha condotto la complessa opera verdiana non senza efficacia, sia chiaro: l’Orchestra Filarmonica Marchigiana aveva un suono omogeneo, le situazioni d’insieme più critiche sono state riportate all’ordine in tempi rispettabili e tutta l’opera è scorsa via con generale “bene”. Ciò che mancava, però, era il resto, ossia quei contrasti vitali alla teatrale tensione verdiana, che anche nell’atmosfera “lunare”, come l’ha definita Milletarì, non perde mai l’abilità di unire gli ampi slanci (furibondi o elegiaci che siano) alla generale compostezza, così da non trasformare Trovatore in una caricatura grottesca tutta fuoco e fiamme, né al contrario ingessarla in rigidi schemi o anestetizzarne la carica espressiva. Quest’ultimo rischio è quello che più ho trovato nella lettura di Milletarì, più preoccupato a far scorrere l’opera che non a darne effettivamente un’interpretazione. Né si è realizzata quell’intima unione tra orchestra, direttore e cantanti, che sono apparsi in più punti un po’ in difficoltà con i tempi scelti, e con un insieme un po’ farraginoso fatto di innaturali attese a bacchetta levata che non trovavano quella naturalezza espressiva così difficile eppure così importante. Quella del direttore è però una professione che matura molto con l’esperienza e sicuramente un sempre più intenso lavoro di Milletarì nel corso della carriera smusserà molti angoli e soprattutto aggiungerà varietà, anche nel gesto, alla sua ricerca espressiva.

Ottimo invece il cast: Roberta Mantegna ci ha donato una magnifica Leonora, dalla voce rotondissima e nobile, aristocratica in ogni fraseggio. Forse solo nel IV atto si poteva un’espressione diversa, a tratti più tesa e affermativa, ma il soprano palermitano ha risolto comunque egregiamente anche gli impeti più appassionati. Davvero splendido il Manrico di Luciano Ganci, che non solo è dotato di voce importante e dagli acuti ben arrotondati anche quando più penetranti, ma soprattutto è riuscito veramente a dare una visione sfaccettata del nostro Trovatore, dilaniato tra Leonora e Azucena con amor di uomo e amor di figlio, tensione ben incarnata nel dualismo del terzo atto in cui alle morbide volute di “Ah! sì ben mio” si è contrapposto con efficacia l’affannoso “Di quella pira”, con voce più aspra e persino sporca. Ottima anche l’Azucena di Veronica Simeoni, originariamente prevista in un recital a Martina Franca (come accennavo nel precedente articolo) ma qui in sostituzione di Sonia Ganassi improvvisamente assentatasi per un grave lutto. Nonostante la sostituzione, la Simeoni si è dimostrata ben in ruolo e indubbiamente all’altezza della varietà espressiva della zingara Azucena, per quanto anche lei non molto aiutata dall’orchestra nel marcare le differenze di carattere. Punto debole nel quartetto dei protagonisti il Conte di Luna di Massimo Cavalletti, molto affaticato nel corso di tutta l’opera, con momenti di spaesamento tonale e una voce spinta forse anche per la fatica di riempire le vaste distese dello Sferisterio sovrastando l’orchestra alle spalle. Un po’ più stabile nel finale anche per la maggior centralità della parte. Buono il Ferrando di Davide Giangregorio e ben sostenuti l’Ines di Fiammetta Tofoni e il Ruiz di Didier Pieri, così come il vecchio zingaro di Gianni Paci e il messo di Alessandro Pucci. Ottimi davvero gli uomini del Coro lirico marchigiano “Vincenzo Bellini” diretto da Martina Faggiani, mentre decisamente peggio le donne (e non può non sorprendere trovare una simile disparità tra sezioni).

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Veronica Simeoni nei panni di Azucena. Foto di Tabocchini e Zanconi

Non essendoci stata una messa in scena, non posso scrivere di una vera regia, ma buone le luci di Ludovico Gobbi, mentre le immagini fotografiche di Ernesto Scarponi avevano un vibe da screensaver di Windows XP che mi ha strappato un paio di ghigni durante il concerto. Applausi per tutti, anche se l’opera in concerto non ha registrato il sold out del Don Giovanni, forse anche per il freddo che ha colpito le recite dei giorni precedenti.

Una splendida temperatura ha invece accompagnato sia il Trovatore del 25 luglio che il Don Giovanni del 26. Don Giovanni che è protagonista di numerosi eventi maceratesi, tra cui l’aperitivo culturale del 26 mattina tenuto dal filosofo Umberto Curi (peraltro autore di due libri proprio sulla figura del dissoluto bestemmiatore creato da Tirso de Molina), e che essendo l’unica opera in forma scenica è di fatto la portata principale del Festival 2020. La regia e le scene di Davide Livermore sono riuscite a dare qualcosa in pasto alla mente anche in epoca di Covid, non rinunciando a costruire un’interpretazione animata dal contraddizioni e premonizioni, al contempo non smussando gli angoli più violenti di una storia che tra tentativi di stupro e omicidi ha rivelato sotto le mani di Livermore una violenza non poi così in contrasto con la musica. Anche qui ciò che mi ha veramente poco convinto sono state le proiezioni (in questo caso del videomaker D-Wok), non tanto perché brutte o mal realizzate, quanto perché in diverse occasioni raggiungevano importanti sfumature di cringe, cozzando con la nuda violenza dell’azione in palco o trovandosi, per quanto belle, persino fuori luogo (come il magnifico cielo stellato durante la serenata del protagonista travestito, per me eccessivo). Efficace invece la scelta delle due macchine (soprattutto il maltrattatissimo taxi giallo su cui Don Juan scorrazza allegramente lasciandosi dietro il povero Leporello, con derapate degne di una corsa clandestina) e sempre ben sfruttati i pochissimi, selezionati elementi scenici.

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Don Giovanni è pronto per viaggiare verso l’infinito e oltre. Foto di Quartararo.

Decisamente migliore la resa della Filarmonica Marchigiana con Francesco Lanzillotta, che è riuscito nonostante il distanziamento ad evidenziare dei piani dinamici con efficacia ed è uscito sano e salvo dal complicatissimo finale del I atto (che mi è stato raccontato aver dato parecchi problemi alla prima recita). Si possono segnalare molti dettagli della direzione di Lanzillotta, tra cose più riuscite (come una certa eleganza che si è manifestata meglio nelle parti più danzanti del capolavoro mozartiano) a quelle più instabili (come l’insieme su diversi duetti e terzetti, anche quando non ostacolati dalla spazializzazione scenica dei cantanti), ma se è vero che la Filarmonica suona più convinta e coesa sotto la sua bacchetta, moltissimo mi è mancata anche qui un’effettiva lettura dell’opera, un’idea, un’interpretazione, che mi è parsa interamente demandata a regia e cantanti. Più volte ho sentito l’esigenza di una regia musicale forte, che andasse oltre la semplice recita convincente e ben svolta, esplorando con attenzione il contenuto espressivo di un’opera ricchissima e densa. Torno sempre alla frase dello stesso Lanzillotta, con cui concordo pienamente: una maggiore sottolineatura degli effetti, anche abbandonando alcune nuances, sarebbe stata forse più adatta allo Sferisterio per evidenziare quel dirompente carattere prerivoluzionario che Lanzillotta ammira e pone in risalto nelle sue parole.

Più che dalla generale conduzione della recita, questa dimensione rivoluzionaria è emersa dal cast, in primo luogo dal Don Giovanni di Mattia Olivieri, che affronta la parte con ottima presenza scenica e disinvoltura vocale, da cui a tratti si fa condurre verso un debordare violento e sguaiato, di grande effetto. Al contrario lo splendido Leporello di Tommaso Barea è scenicamente agile, vocalmente solido, ben centrato, brillante e persino elegante. Se siamo abituati ad un Don Giovanni dissoluto aristocratico e ad un Leporello goffo popolano, ci siamo trovati qui di fronte ad un’inversione dei ruoli che ha ancor di più esaltato un giudizio morale sul protagonista, spogliato di ogni nobiltà e veramente trasformato in feroce demonio. Buono e convincente il Masetto di Davide Giangregorio, questo sì davvero un popolano (e suppongo in pieno sfasamento di personalità tra il Ferrando in Trovatore e il ruolo mozartiano), e piuttosto buoni il Don Ottavio di Giovanni Sala, cui mancava un po’ l’ardore fremente alternato alle eleganti linee melodiche, e il Commendatore di Antonio Di Matteo, ben convincente nel ruolo ma a volte poco chiaro. Dalla parte femminile del cast Valentina Mastrangelo ha costruito una Donna Elvira di complessa definizione (come è d’altronde il personaggio), tra il frivolo e il drammatico, tra il geloso e l’ingenuo, con ambiguità che avrebbero davvero necessitato di un lavoro con l’orchestra ancora più lanciato verso questa direzione. Dopo un inizio non brillante è andata in crescendo la prova di Lavinia Bini, che ha trovato un buon equilibrio nell’arguzia popolare della sua Zerlina. A dominare davvero la scena, però, è stata la Donna Anna di Karen Gardeazabal, vibrante di sdegno drammatico, con voce pienissima e duttile e dalla poderosa forza espressiva. Il soprano messicano ha retto meravigliosamente il peso del suo complesso ruolo, rispondendo con forza alla regia di Livermore e rendendosi l’effettivo, magnetico centro della vicenda. Buono il Coro “Bellini” di Faggiani, qui senza scivolamenti di sorta.

Su ogni considerazione, però, regna sovrano l’elefante di stanza in quest’estate: la necessità di realizzare festival quali Macerata Opera Festival, Valle d’Itria, Accademia Chigiana (di vi cui scriverò nei prossimi giorni) nel pieno della pandemia e con pochissimo preavviso. Non bastano un paio di mesi a un direttore per preparare Don Giovanni e Trovatore con la profondità che queste opere richiedono, né per costruire regie geniali per un’Arianna a Nasso bypassando i limiti pandemici. Dunque non solo un applauso, ma anche un sincero ringraziamento va a chi si è lanciato in quest’avventura veramente color bianco coraggio. Al contempo, questo tour mi ha mostrato con chiarezza che la pandemia non può essere il dito dietro cui nascondersi: la regia di Livermore (per quanto anch’essa sicuramente criticabile), così come le direzioni di Luisi e Spotti (per quanto anch’esse sicuramente criticabili) hanno dimostrato che è possibile fare del teatro bello, appassionante, stimolante, interessante e convincente anche nei difficilissimi tempi in cui viviamo. Quale miglior pensiero, prima di lanciarsi nell’universo dell’Accademia Chigiana?

Macerata

Don Giovanni, Leporello e Donna Elvira, con l’immancabile taxi giallo. Foto di Zanconi.

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

Written by Alessandro Tommasi

Viaggiatore, organizzatore, giornalista e Pokémon Master, studia pianoforte a Bolzano, Padova e Roma e management culturale alla Rome Business School e alla Fondazione Fitzcarraldo. È Head of Artistic Administration della Gustav Mahler Jugendorchester e direttore artistico del Festival Cristofori e di Barco Teatro. Nel 2021 è stato Host degli Chopin Talk al Concorso Chopin di Varsavia. Nel 2020 ha pubblicato il suo primo libro, dedicato all'opera pianistica di Alfredo Casella. Dal 2019 è membro dell'Associazione Nazionale Critici Musicali.

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