Elliot Cole: Percussion Music, un viaggio nel post-minimalismo in punta di archetto

Una raccolta monografica dedicata al giovane compositore americano Elliot Cole e al suo personale approccio alle percussioni.

Autore: Filippo Simonelli

30 Giugno 2020

Nel secondo dopoguerra la New York musicale era una fucina di creatività imprevedibili: erano gli anni di Moondog, delle prime influenze etniche e degli esperimenti che sarebbero poi confluiti in quella variegata correnti che oggi abbiamo identificato con il termine “minimalismo”. A unire questi tre puntini nella mappa ipotetica della storia della musica è un unico comun denominatore, ovvero la ricerca della percussività intesa come elemento di rottura rispetto al canone musicale occidentale basato sui parametri legati prevalentemente ad armonia e melodia. In questo contesto sono state portate avanti numerose ricerche timbriche, sonore o artistiche in senso lato da cui sono derivate poi innovazioni che ci accompagnano ancora oggi nella sala di concerto; quella che ci interessa di più, ora come ora, è l’ensemble di percussioni. Questo tipo di strumenti aveva un fascino particolare agli occhi dei nuovi compositori dell’epoca: la scarsità del repertorio presente, l’assenza pressoché totale di clichés stilistici nonché la versatilità e la precisione rappresentata dagli strumenti offrivano quel terreno vergine ideale per costruire le fondamenta di una nuova estetica. Molti compositori costruirono nel corso del tempo dei propri ensemble ad hoc, a misura di brano o di raccolta, ma progressivamente si è riuscito ad affermare con particolare forza il quartetto di percussioni, quasi in omaggio al più canonico quartetto d’archi della tradizione europea.


Moondog, noto come “il Vichingo della 6th avenue”

Ed è proprio dall’incontro tra un quartetto di percussioni e un compositore che nasce la storia di cui stiamo parlando oggi: loro sono i Blow Up Percussion, lui è Elliot Cole. Chi segue Quinte Parallele da un po’ di tempo avrà sicuramente familiarità con il primo nome (potete leggere le loro due interviste qui e qui): giovane “collettivo” di percussionisti basato a Roma e cresciuto sotto l’ala dell’Ars Ludi, altra pietra miliare delle percussioni in Italia, si è oramai emancipato da tempo per presentarsi come ensemble in grado di proporsi con una forza di un certo livello guadagnando l’attenzione di compositori illustri in patria e all’estero. Tra questi c’è Elliot Cole, il nostro secondo protagonista. Poco più che trentenne, Cole è già un compositore molto affermato negli Stati Uniti e in giro per il mondo, anche grazie alla sua capacità di aggirarsi in quella zona ibrida che giace a metà tra quella che oggi definiamo musica colta e generi più comunemente etichettati come “di consumo”, tra cui l’hip hop. Si parla della sua musica tanto nelle pagine di critica del New York Times quanto in quelle di Rolling Stone, per dare un’idea. Sicuramente, per parlare della sua musica può essere identificato un punto di partenza stilistico nel “minimalismo” largamente inteso, ma come capita nella gran parte dei compositori attivi negli ultimi decenni è aggiungere il prefisso “post” che lascia aperta la porta alla gran parte delle varietà espressive di cui si sono serviti i compositori delle ultime generazioni. Cole è anche cantante, e questo non è affatto secondario nella sua formazione: il suo primo approccio musicale è stato come corista, ma dal repertorio più consueto ha progressivamente diversificato il suo percorso prendendo parte anche ad un coro di canto tradizionale georgiano ed esibendosi con l’ensemble Roomful of Teeth, vincitore (anche) di un premio Pulitzer. A questo va sommata, naturalmente, una solida formazione “accademica”, che completa un quadro variegato e decisamente inusuale.

La familiarità con la musica per percussioni è parte integrante della sua fama: nella sua produzione spicca in particolare una serie di otto “postludi” per quartetto di percussioni intonate suonate con archetti da contrabbasso o violoncello, di cui parleremo più avanti.

Elliot Cole protagonista di un Google Talk

L’incontro tra i nostri due protagonisti risale a qualche anno fa, precisamente al 2015 quando l’ensemble dedicò alla sua musica un concerto monografico nel No Go Festival; la sinergia si è poi rinnovata anni dopo durante la lunga gestazione che ha preceduto la registrazione proprio delle tracce di questo disco. Dal punto di vista di un ascoltatore di musica “classica” c’è un aspetto di novità sicuramente interessante: il disco è costruito come un vero e proprio album, sul modello di quanto avviene per la musica “leggera”. Certo, non tutti i brani sono stati scritti per l’occasione, ma la costruzione delle tracce evoca una chiara continuità che attraversa l’ultima decade e mostra un affresco dell’evoluzione stilistica di Cole.

La opening track, non a caso, è intitolata “A song”. Il richiamo alla musica “leggera” non è limitato alle intenzioni: il brano è infatti scritto e strumentato a ricostruire le sonorità di una band vera e propria, tanto che le uniche percussioni che fanno effettivamente il proprio mestiere sono quelle che compongono la batteria che fornisce l’incessante pulsazione ritmica su cui si sviluppa tutta l’architettura del brano. Il fatto che ci sia una band non significa necessariamente che si tratti di musica semplice, anzi la traccia è quella che offre la varietà armonica maggiore di tutta la raccolta, strizzando l’occhio a giganti del jazz come Chick Corea con sonorità che richiamano quelle dell’album omonimo della sua Electrick Band.

Gli otto brani che seguono, intitolati Postludes, rappresentano un po’ il piatto forte dell’incisione. Sono probabilmente il brano più popolare scritto dal nostro per il microcosmo delle percussioni tanto da essere stato eseguito dal 2014, data di composizione, da ben 69 gruppi di Percussioni in giro per il mondo.
Elliot Cole stesso descrive il suo set di Postludi come una raccolta di brani scritti per uno strumento “familiare” (il vibrafono) suonati però in maniera nuova: a ciascuno degli strumentisti è prescritto infatti l’uso di due archetti, da alternare alle mani nude evitando però l’uso dei più tradizionali mallets, strumento con cui si suonano usualmente vibrafono e marimba. L’effetto di questa scelta è straniante: se si ascoltano i postludes ad occhi chiusi, magari proprio da un cd, la prima idea è quella di avere di fronte non un brano per percussioni ma per qualche strumento elettronico, magari anche un po’ vintage come potrebbe essere un Ondes Martenot per intenderci; l’atmosfera cambia quando accanto all’archetto Cole prescrive anche un approccio più percussivo allo strumento, anche se il tocco manuale ha una differenza di attacco e risultato tale da rendere l’effetto quasi soffice all’ascolto. L’universo sonoro evocato da questi brani, decisamente più vicino ad un Messiaen che non ad uno Xenakis, offre almeno una grande lezione ad ascoltatori e compositori: le possibilità degli strumenti a percussione sono infinitamente più ampie, in potenza, rispetto a quelle che possiamo immaginare fino ad ora, e riescono soprattutto a liberarsi dai clichés che solitamente le accompagnano.

C’è un secondo aspetto, che definirei una sorta di curiosa polifonia, da cui non si può prescindere per cercare di capire i Postludes: i musicisti sono tutti radunati attorno ad un singolo vibrafono che suonano contemporaneamente, aumentando così le possibili sovrapposizioni orizzontali e verticali provenienti dal solo strumento; naturalmente per rendere possibile ciò è necessaria una grande coordinazione nell’interazione tra i quattro membri del quartetto, cosa che però notoriamente è parte integrante del curriculum di un buon percussionista. Da questo approccio compositivo risulta però esaltata la componente “fisica” dello strumento, quasi a controbilanciare più o meno consapevolmente l’etereità dell’effetto acustico. Si tratta di una fisicità però molto particolare, diversa da quella quasi tellurico-primordiale generalmente associata all’universo della musica percussiva: per rendersi bene conto di che tipo di fisicità stiamo parlando, può essere d’aiuto accompagnare l’ascolto alla visione delle coreografie realizzate per alcuni Postludes pubblicati sul canale della casa produttrice di bacchette Vic Firth. Anche se non siete grandi fan della componente visivo-sinestetica di un brano musicale, come chi scrive, è innegabile che l’esperienza di ascolto ne esca mutata e arricchita.

Seguono i Postludes altri 4 brani, Paths, Bells, Beehive e Bellwether, che suonano come un brusco risveglio all’orecchio dell’ascoltatore che si dovesse essere adagiato nell’universo sonoro onirico degli otto brani precedenti: le percussioni riprendono il proprio ruolo più tradizionale di strumento ritmico. Cambia anche la strumentazione: i musicisti non sono più disposti attorno ad un unico strumento, ma ciascuno di loro ha a disposizione un cajón e due crotali da cui trarre il massimo possibile. Anche qui, pur trattandosi di una composizione per certi versi più tradizionale nell’approccio alle percussioni Cole ci offre degli spunti innovativi e personali. L’interprete è messo quasi a nudo, spogliato dalla selva di strumenti che solitamente attorniano i percussionisti relegati nei bassifondi di orchestre o ensemble. Qui al contrario emerge l’anima del singolo esecutore in una sorta di orchestrazione per sottrazione, se vogliamo: eppure, nonostante l’apparente scarsità di mezzi, il risultato all’ascolto è un impatto tellurico e ancestrale che appunto rivela un profondo contrasto rispetto a quanto sentito prima.

La raccolta termina con Facets, un brano anch’esso tradizionale nell’aspetto ma che al tempo stesso rappresenta una sintesi di quel che lo precede: approccio globale all’universo percussivo, sfruttato qui senza particolari limitazioni di organico o modalità di esecuzione, ma al tempo stesso una ricerca timbrica e armonica che cerca di ampliare le possibilità solitamente accordate all’ensemble di percussioni: si tratta di un brano piuttosto lungo, il più imponente della raccolta con i suoi 12 minuti di incisione, e molto stratificato. Pur non seguendo una struttura formale codificata a priori, rende facile l’identificazione dei momenti centrali del brano e soprattutto, se ascoltato nell’ordine prescritto dalla track-list, viene illuminato di una luce particolare dalle tracce precedenti.

In retrospettiva, l’ascolto di questo album “in ordine” rafforza l’idea di un legame sotterraneo con l’idea di album propria della musica rock, specie di quella del concept album in voga negli anni del progressive rock. Certamente qui manca un’idea comune o una storia da raccontare che si svolga lungo tutti i solchi virtuali del disco, ma la prospettiva unitaria conferita dalla successione dei brani e le crescenti fascinazioni acustiche rendono l’ascolto un’esperienza ricca di significato.

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

Written by Filippo Simonelli

Fondatore di Quinte Parallele, Alumnus LUISS Guido Carli, Università Cattolica del Sacro Cuore e Conservatorio di Santa Cecilia

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