Maestri e distanza

intervista a Benedetto Lupo

Autore: Alessandro Tommasi

1 Giugno 2020

Tra premi, concorsi e una sfavillante carriera concertistica condotta tra l’Italia, l’Europa e l’America, Benedetto Lupo è giustamente noto come uno dei più importanti pianisti italiani e, da ormai diversi anni, come uno dei docenti più ricercati, collaborando con conservatori e accademie, tra cui l’Accademia di Musica di Pinerolo e Torino. A coronamento di questo percorso musicale e didattico, il pianista barese è stato nominato nel 2013 docente di pianoforte dei Corsi di Alto Perfezionamento dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, di cui dal 2015 accademico effettivo. Nel turbinio degli avvenimenti quotidiani, questa conversazione è stata il momento di riflettere dal silenzio dell’isolamento per un futuro di maggiore apertura e divulgazione.

In questa intervista mi piacerebbe percorrere insieme tre grandi aree, dal ruolo di un docente in questo momento alle difficoltà e ai pregi delle lezioni a distanza, fino ad arrivare al grande tema finale, ossia cosa dovrà cambiare nella figura del musicista, ora che più che mai la distanza tra artista e società è apparsa profonda e vertiginosa. Ma partiamo dal come hai trascorso questi mesi!

Hai toccato le aree più difficili! Ognuno di questi argomenti ha centinaia di ramificazioni e non ho nessuna pretesa di poter dare delle risposte giuste, anzi io stesso le sto cercando. Ho vissuto questo momento di quarantena come un momento di shock e dolore, ma anche di riflessione e silenzio, per una volta svincolato dal senso di necessità ed impellenza che fa parte dell’essere musicista. Un senso di necessità di cui, però, ho la sensazione che si sia piuttosto abusato e che tutti noi ne siamo un po’ drogati. E invece in questi mesi ho ritrovato il gusto di leggere cose nuove e riscoprire cose che credevo di conoscere, con quel sapore gratuito di studiare senza un’utilità, senza uno scopo. Che è una cosa bellissima e che dovremmo aver fatto tutti da ragazzi, perché poi è davvero complesso. E invece a volte scopro con tristezza che molti giovani si sentono un po’ persi e non sanno come sfruttare questo tempo vuoto, quando noi pianisti abbiamo un repertorio letteralmente sconfinato. Questa quarantena mi ha aperto ancora più gli occhi su tutto ciò che non saprò mai, in ogni campo!

Perché secondo te si trova questa ristrettezza di vedute nei giovani studenti di musica?

Non è colpa del giovane studente, è colpa del sistema apparentemente ben consolidato del “successo”, che poi è spesso un successo effimero, un meccanismo che al fianco di poche eccezioni ci porta tante conferme che sì, questo scegliere sempre lo stesso repertorio consolidato per affrontare in serie i concorsi fa bene per testarci, per crescere, per confrontarci, però poi crea inevitabilmente un grande appiattimento nelle scelte. È un po’ colpa di tutti, dai concorsi alle stagioni, c’è poca apertura verso i repertori meno frequentati e a volte le stesse giurie di fronte a brani meno noti lasciano dei commenti da far cadere le braccia. Ma quando parlo di battere nuovi percorsi non mi riferisco soltanto ad autori meno noti: intendo anche rileggere e ripensare a ciò che ormai si fa per abitudine, senza scadenze impellenti, potendosi fermare su un dettaglio. Poi chiaro, questo momento dorato è durato ben poco, presto ho ripreso con le lezioni ed è stato piuttosto complesso.

 

 

 

Benedetto Lupo con la sua classe all’Accademia di Santa Cecilia

Dunque hai scelto di continuare ad insegnare?

Ho preferito così, pur non essendo io particolarmente tecnologico. Però ho visto che alla fine i problemi peggiori arrivavano dai miei stessi allievi, che a volte avevano più problemi di me a produrre un video, sia che fosse perché studiano in stanze con troppa risonanza, sia perché potevano avere problemi gravi di corde rotte (chiaramente non risolvibili, non potendo chiamare un accordatore!), insomma tutta una serie di problematiche. Però anche lì, troviamo il lato positivo: anche un video fatto male permette di ascoltare e riascoltare, andando più nel dettaglio di ogni passaggio.

Come funzionavano le lezioni?

Abbiamo fatto così: gli allievi hanno girato e mi hanno mandato i video. Io li ho ascoltati e riascoltati, dopo di che ho annotato tutto sulle partiture in PDF. Poi ho mandato questo PDF tutto affrescato ai ragazzi. La prima volta ho cercato di strafare e per venti giorni non ho più vissuto, pur di realizzare tutto. Anche solo per cercare di evitare fraintendimenti, visto che ho una grafia terrificante – sono un mancino che ha imparato a scrivere da solo, a volte non capisco nemmeno io ciò che ho scritto! – c’ho messo tantissimo tempo. Anche perché lavoravo su un iPad lasciatomi da mia figlia e da me mai acceso. E poi chiaramente ti serve il pennino. Che chiaramente non è un bene di prima necessità e dunque ci vuole parecchio tempo prima che te lo spediscano! Se non altro è stato utile: sono sempre stato carente sotto questo aspetto. Poi per chi lo desiderava c’era anche un momento di colloquio, per poter parlare a voce delle cose.

Questo è un aspetto che mi interessa molto: come è stato lavorare a distanza con i tuoi allievi? Tu non hai degli studenti piccoli o alle prime armi, per cui l’imitazione del gesto, il poter guidare proprio la mano sulla tastiera è veramente indispensabile.

Ci sono degli aspetti positivi in questa situazione: un primo aspetto è che pur essendo i miei allievi abituati a registrarsi a lezione (cosa che io consiglio sempre di fare), il video ti aiuta e ti permette di riascoltarti e rifare ciò che non ti piace, prima di inviare tutto al docente. Così si può essere molto più consapevoli di cose che, nella pressione adrenalinica dell’esecuzione, a volte non si notano. Invece se ti filmi e poi ti riascolti prima di mandare il video al tuo docente, fai già una parte del lavoro. In fondo qual è il ruolo di un insegnante se non renderti consapevole di ciò che già sei, che già hai? Non esiste l’insegnante che si inventa l’allievo. Certo, possono esserci degli allievi che sbocciano con il giusto insegnante, ma alla fine è perché quel maestro è riuscito a vedere e a tirare fuori delle qualità nel suo studente, qualità che a volte lo studente stesso non vede. E quindi registrarsi e riascoltarsi attentamente può aiutare molto. Ma detto questo non vedo l’ora che questo momento di distanza finisca.

È il momento degli aspetti negativi!

Già. A mio avviso non è possibile fare a meno di quell’imitazione di cui parlavi, anche con gli studenti di alto livello. E questo anche se cerco di non suonare mai troppo a lezione. Io sono nato e cresciuto in un momento in cui l’insegnante tendeva a suonare sopra all’allievo, ma ho sempre evitato quell’approccio, c’è il rischio di sovrapporsi al proprio studente. Passare all’esempio, però, è indispensabile quando si trovano alcune barriere da superare e con un esempio è più facile capirsi. Anche fisicamente, se parliamo di un atteggiamento della spalla o del gomito, come insegnante puoi aiutare l’allievo a sentire meglio, a percepire quella parte, cosa chiaramente non fattibile a distanza. A distanza, così, va bene un paio di volte, forse va anche bene sempre, se si tratta di ottime registrazioni di cose già studiate molto bene di cui rifinire pochi dettagli o di cose nuove da impostare da zero. Su questo avere i video è stato difficile, ma anche divertente: son potuto andare avanti e indietro per capire cosa facessero i ragazzi in alcuni passaggi. C’è anche chi ha messo la videocamera così che si vedesse solo la mano destra e più di una volta mi sono istintivamente alzato in piedi per cercare di vedere la sinistra!

Chiaramente, ci sono cose che si possono fare in video che non si possono fare di persona, ma anche e soprattutto il contrario.

Certo, ma non solo: per me questo lavoro è stato anche una forma di regalo che ho voluto fare per gli allievi, anche per aiutarli a sopportare meglio questo difficile periodo. Non vorrei però che surrettiziamente si facesse passare questo a distanza come un meraviglioso mezzo sostitutivo, che non è. D’altronde c’è un aspetto della didattica di cui nessuno sta parlando: noi lavoriamo tanto per poter essere esecutori dal vivo e l’esecutore dal vivo deve poter essere pronto a quei primi impatti che sono la sala diversa, il pianoforte diverso, il contesto diverso. È tutto un testare reazioni consce e inconsce, che chiaramente in questo modo non puoi testare, perché se mi fai il video dal tuo solito pianoforte e non vivi la facilità o l’ostilità di uno strumento altro, di aver fatto il viaggio ed essere stanco, di avere i tuoi compagni lì in sala che ti ascoltano, chiaramente non ti puoi testare. Sono aspetti insostituibili di una lezione di musica, che non è fatta solo di diteggiature o gesti e non è fatta nemmeno solo di suono. Non c’è da prendersi in giro su questo, questa parte con la distanza è irrimediabilmente perduta e per questo non credo che l’online possa veramente implementare il sistema tradizionale. Forse con altre materie collettive sì, ma in quel caso usciamo dal mio ambito.

È un argomento molto interessante: ultimamente si sta parlando abbastanza di formule miste, che possono offrire pacchetti di ore dal vivo implementati da incontri online con concertisti e personalità che se ne stanno, normalmente irraggiungibili, in giro per il mondo, ma che online potrebbero di colpo essere raggiunti.

Non saprei, non mi sembra una strada praticabile e penso ci sia spesso più marketing che effettiva realtà. Chiaramente questo tipo di incontri dovrebbe essere in diretta, dato che artisti di quel calibro non avrebbero certo il tempo e la pazienza di star lì ad ascoltare e riascoltare i video annotando ogni dettaglio d’interpretazione. Dunque sarebbero dei surrogati di lezione dal vivo, che, anche con ottime camere e microfoni, mi sembrerebbero comunque piuttosto tristi. Ma alla fine sta sempre agli studenti capire se una cosa può essere loro utile o meno. Anche perché ormai su internet si trova veramente di tutto, cose che da giovane io mi sognavo!

Il problema è inverso: c’è così tanta scelta che alla fine non fai niente! 

Infatti, anche perché tanta scelta significa avere gli strumenti per compierla, quella scelta, e per ottenere quegli strumenti devi studiare, leggere, informarti e si torna al punto di partenza.

Anche io tornerei ad un altro punto di partenza e nello specifico a quando si parlava del formare interpreti che si esibiscano dal vivo. Ma ora che stiamo gradualmente riadattando ad una vita fuori dalla quarantena più severa, diventa via via sempre più evidente che i concerti come prima non saranno più così frequenti e che i musicisti dovranno sapersi inventare e reinventare. Come si dovrebbe porre un insegnante e un pianista, sotto questo frangente?

Per l’aspetto didattico, io intendo il senso di questo alto perfezionamento dell’Accademia come un effettivo andare in profondità delle reali vocazioni dell’allievo. Sicuramente quella del formarsi come super virtuosi e vincere concorsi importanti è una delle vie, ma non è l’unica. Bisogna trovarne altre, sfruttando anche quelle che saranno le nuove opportunità che si andranno a creare. E sicuramente non lasciandosi mai prendere dal panico, cosa cui in Italia siamo particolarmente soggetti. Non vorrei che diventassimo noi stessi vittime di un terrorismo autoinflitto, detto molto francamente, e lo dico memore dei difficilissimi viaggi che facevo nel pieno della Sars, con tutta la paura connessa. Anche come interprete da questo punto di vista brancolo nel buio, ma mi sono chiesto se non si possa fare di necessità virtù e magari tornare ad un’idea di camerismo più piccolo, con meno persone. E se tutto questo spingesse il pubblico a fruire la musica negli spazi per cui è nata e non ci costringesse più a sentire, per esempio, delle Mazurche di Chopin in sale da migliaia di posti? Non voglio essere terrorizzato all’idea che dopo sarà tutto diverso, banalmente perché non è che la normalità di prima fosse il non plus ultra. Parlavamo di repertorio minore non proposto, forse è anche perché certo repertorio non è adatto a certi numeri. E in generale per comprendere la musica bisognerebbe anche capire il lavoro che sta dietro ad un’esecuzione, l’impegno, lo sforzo, la fatica, che capisci solo facendo musica e confrontandoti con questo mondo. Ma anche qui c’è una forte responsabilità di noi musicisti: forse non abbiamo fatto abbastanza divulgazione.

 

 

Roma, Dicembre 2015, ©Musacchio & Ianniello

Ecco, a questo volevo arrivare! Mi chiedo se questo periodo tragico non ci possa concretamente aiutare a cambiare il ruolo del musicista (e dell’artista in generale), il modo in cui ci rapportiamo con il pubblico, con la società, con il mondo che ci circonda…

Guarda, sfondi una porta aperta con me. Quando andavo al liceo classico e facevo il pendolare in due direzioni diverse per frequentare il conservatorio, era il momento delle radio libere (non so se ti sembro un matusalemme in questo momento!) e io andavo una volta alla settimana a parlare di musica, cercando il linguaggio giusto per i miei coetanei. E ogni occasione era buona per fare un po’ di divulgazione, anche brevissima. Credo che su questo serva lavorarci a tutti i livelli: non è detto che chi ora ha, che so, 55 anni, debba fare le stesse cose di quando ne aveva 16 o 18. È arrivato il momento in cui accettare nuove proposte, in primo luogo dai giovani, che possono e devono cogliere questo momento per far vedere che anche loro sono necessari, soprattutto con i loro coetanei. Perché tra coetanei sarà sempre più facile raggiungersi e comprendersi, iniziare a coinvolgere le persone attivamente nell’ascolto e nella musica. Questo secondo me è fondamentale. Forse bisognerebbe passare meno tempo chiusi nella stanzetta a ripetere l’ennesimo passaggio di uno Studio di Rachmaninov o Chopin e trovare invece il modo in cui, nella propria socializzazione, poter chiedere: «Sono un musicista, gliene frega qualcosa a qualcuno?». E così anche i programmi apparentemente più ostici, se proposti con un filo narrativo o con qualcosa che accompagni possono superare molte barriere. Ciò non significa che il momento sacrale del grande artista, di Sokolov o di Zimerman o chi altri, non vada bene, ma forse l’errore è stato abbinare la musica solo a questi momenti sacrali, sia come pubblico che come interpreti. Quindi sì, io non lotterei a sangue per tornare alla realtà com’era prima, perché sinceramente prima tutto bello e tutto bene non lo era, ma lotterei per andare in questa direzione. E questa può essere un’opportunità irripetibile.

Alessandro Tommasi

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

Written by Alessandro Tommasi

Viaggiatore, organizzatore, giornalista e Pokémon Master, studia pianoforte a Bolzano, Padova e Roma e management culturale alla Rome Business School e alla Fondazione Fitzcarraldo. È Head of Artistic Administration della Gustav Mahler Jugendorchester e direttore artistico del Festival Cristofori e di Barco Teatro. Nel 2021 è stato Host degli Chopin Talk al Concorso Chopin di Varsavia. Nel 2020 ha pubblicato il suo primo libro, dedicato all'opera pianistica di Alfredo Casella. Dal 2019 è membro dell'Associazione Nazionale Critici Musicali.

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