Mikhail Pletnev o l’assoluto ieratico

Recensione del concerto milanese del pianista russo.

Autore: Alessandro Tommasi

22 Febbraio 2020

È la terza volta che cancello l’articolo nel tentativo di scrivere del concerto del 17 febbraio tenuto da Mikhail Pletnev in Sala Verdi per le Serate Musicali di Milano. Ci sono concerti per cui è davvero difficile trovare parole che possano descrivere nel dettaglio un’esecuzione senza banalizzarla riducendola a cronaca, ma al contempo senza vagare con fantasiose metafore senza cogliere il punto.

Punto che nel concerto Pletnev è, secondo me, l’assolutezza della propria visione musicale. Si possono spendere pagine nel descrivere minuziosamente il controllo sonoro sovrumano del pianista russo, il tocco morbidissimo in cui si cancella quasi la percezione dei martelli sulle corde ma ogni nota appare comunque cesellata a sé, così come invano si proverebbe a descrivere la libertà totale di rubato e fraseggio che Pletnev applica sul repertorio o la gestione veramente incredibile degli scampanamenti (nella Sonata D 664 di Schubert credo non abbia mai tenuto la stessa sequenza di note nell’accordo che apre il primo tema dell’Allegro moderato). Ciò che però importa non è tanto l’abilità con cui Pletnev domina la tastiera del suo Kawai, quanto ciò che porta al suo pubblico tramite di esso: e questo è la convinta affermazione che un pianismo diverso sia possibile e senza necessità di dimostrare alcunché. Sotto le mani di Pletnev ogni brano appare nuovo, sempre, come se lo stesse improvvisando sul momento, rifuggendo ogni prevedibilità ma senza lambiccarsi in complessi stratagemmi atti a differenziarsi.

Al contempo, però, la consapevolezza del brano è totale e si manifesta nell’infinito senso che effonde in ogni voce, secondaria o principale che sia. Il pianista si trasforma in compositore, l’identificazione con l’autore del brano suonato diventa primaria, ma non tanto nella ripresa di un’estetica o una prassi esecutiva storica, quanto nell’approccio di totale immersione nel contenuto. Pletnev conosce a tal punto il brano, l’autore, la sua musica, da potersi liberare di fardelli interpretativi senza mancare di rispetto al testo, anzi, con il risultato di una freschezza espressiva anche nelle atmosfere più grevi. Le Sonate D 537 e D 664 di Schubert sono apparse veri monumenti in miniatura, porte verso un qualcosa di altro, di ampio, vastissimo, di cui scrivere risulta davvero complesso (da ciò la mia reticenza di fronte a questa recensione). Come scrivere di quell’Andante dalla D 664? La morbidezza e la pienezza del tocco di Pletnev si sono unite ad un’intensità di fraseggio che veniva solo rafforzata dalla sobria malinconia crepuscolare con cui ha illuminato tutto il movimento. E di luce si può veramente parlare di fronte al pianista russo, per cui ogni cambio armonico viene presentato con un timbro diverso. Una nota del basso scende e tutto il pianoforte risplende di un diverso colore, al punto che nei vertici di questa contemplazione timbrica tra maggiore e minore Pletnev suonava quasi due strumenti diversi.

Di contemplazione si può parlare in quanto Pletnev appare al pianoforte in uno stato abbastanza indefinibile tra il partecipe e il distaccato: lontanissimo da ardori focosi giovanili (cosa che si è percepita nei punti più esuberanti delle Stagioni di Čajkovskij o nei punti più concitati delle Sonate di Schubert), il pianista sembra invece coinvolto nella propria intimità quando il discorso si fa intimo e melanconico (da ciò l’Andante nella D 664 e le vette irraggiungibili di Marzo, Giugno e Ottobre). Laddove la musica si fa crepuscolo, Pletnev vi si immerge con l’intensa ieraticità dell’uomo di fede. Per quello lo sguardo profondo del pianista scandaglia le possibilità di un far musica distante da molti elementi della modernità: se ora si tende spesso a rinforzare la diretta e travolgente espressione, approcciando invece con pudico distacco i punti più ombrosi (con alcuni estremi di musicisti che portano dalla tensione nervosa alla staticità espressiva con rapidissimi scarti), Pletnev si dichiara felicemente inattuale. Anche perché il contrasto non lo interessa poi più di tanto e non certo per piattezza della palette timbrica. Bastava ascoltare le Stagioni per comprendere quanto l’esperienza del direttore d’orchestra si travasasse in un’orchestrazione del pianoforte da cui emergevano chiarissimi tutti i timbri che siamo abituati a sentire nelle sinfonie, nei balletti e nelle opere di Čajkovskij. L’universo sonoro di Pletnev è però tutt’altro che frammentario. Nonostante la ricchezza di colori e di attacchi del tasto, che si manifestavano chiaramente nella chiarezza della condotta polifonica, non c’era quell’orchestrazione data dall’analisi dei timbri strumentali, con taglio raveliano, bensì un intenso gioco di sfumature costruito su una sontuosità sonora il cui parallelismo con le guglie dorate delle chiese ortodosse fa capolino con insistenza durante l’ascolto.

In questo troviamo anche una caratteristica interpretativa di Pletnev, ossia il riuscire ad essere russo, profondamente russo, pur mantenendo le caratteristiche essenziale dell’autore di riferimento, come ha dimostrato l’equilibrismo tra brillantezza salottiera e freschezza popolareggiante dell’Allegro finale dalla D 664, ma anche la libera fierezza della Mazurca op. 67 n. 4 di Chopin, con i suoi improvvisi ripiegamenti introspettivi, e il successivo Rondò K 485 di Mozart, leggero e capriccioso. Due dei bis, insieme alla soavità dell’Impromptu op. 90 n. 3 di Schubert, con cui Pletnev ha ricambiato l’entusiasmo del sorprendentemente poco pubblico della Sala Verdi, un pubblico che alzatosi al termine del concerto si è guardato allibito, consapevole di aver assistito ad un concerto di quelli che un giorno ti permetteranno di dire: «Io c’ero».

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

Written by Alessandro Tommasi

Viaggiatore, organizzatore, giornalista e Pokémon Master, studia pianoforte a Bolzano, Padova e Roma e management culturale alla Rome Business School e alla Fondazione Fitzcarraldo. È Head of Artistic Administration della Gustav Mahler Jugendorchester e direttore artistico del Festival Cristofori e di Barco Teatro. Nel 2021 è stato Host degli Chopin Talk al Concorso Chopin di Varsavia. Nel 2020 ha pubblicato il suo primo libro, dedicato all'opera pianistica di Alfredo Casella. Dal 2019 è membro dell'Associazione Nazionale Critici Musicali.

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