Zimerman, Brahms, Cremona

e un kebab

Autore: Alessandro Tommasi

8 Ottobre 2019
Lo sfondo di questa recensione è una trasferta da Padova a Cremona in una giornata nuvolosa, rischiarata dal luminoso sole della speranza: quel giorno, il 3 ottobre, si sarebbe esibito Krystian Zimerman all’Auditorium Arvedi, nel Museo del Violino di Cremona, per lo StradivariFestival. E, fatto ancora più speciale, non si sarebbe esibito da solo o con orchestra, come siamo abituati a sentirlo negli ultimi tempi, ma in formazione cameristica. A seguirlo (in realtà precederlo) sul palco sono stati Marysia Nowak al violino, Katarzyna Budnik alla viola e Yuya Okamoto al violoncello. In programma due dei massimi capolavori per questa formazione: Secondo e Terzo Quartetto con pianoforte di Brahms. A dividere i due monumenti brahmsiani doveva esserci il tetro Quartettsatz di Mahler, successivamente purtroppo espunto dal programma. Rimangono così, come due colonne, il Quartetto op. 60 in prima parte e il Quartetto op. 26 in seconda. A riempire il vuoto lasciato da Mahler, un kebab consumato nella fuga dalla stazione all’Auditorium, a consolidare le migliori tradizioni alimentari da giovane musico in trasferta.

Il Quartetto op. 60

Divorato l’impegnativo panino (rigorosamente senza cipolla, ché siamo persone eleganti che vanno ad un concerto importante, sia mai) ci si accomoda nel bellissimo Auditorium Arvedi, entrano i solisti, inizia il concerto: già dal primo Do che apre l’op. 60, il silenzio ha circondato l’incredibile suono di Krystian Zimerman. Scuro eppure limpido, marcato ma senza aggressività, mai l’inizio del Terzo Quartetto era suonato più perentorio, definitivo. All’essenziale tragedia hanno risposto gli archi, con rigida mestizia, per poi procedere verso l’appassionata entrata del primo tema e da lì procedere in tutto il primo movimento. Primo movimento che alla formazione è servato anche per scaldarsi e adattarsi alla complessa acustica dell’Arvedi, non facile da comprendere nei suoi ritorni di suono e assai punitivo nei confronti dei bassi del pianoforte. Più efficace il secondo tempo, in cui con severa concentrazione non è stato concesso nulla al ritmo sincopato, che mai è scivolato verso un edonistico dinamismo ma ha perseguito con perfetta coerenza una fervente ineluttabilità. Non è un gruppo di termini ricercati gettati alla rinfusa in una frase: questo senso di ineluttabilità era realizzato con un’impassibile precisione degli incisi ritmici, soprattutto negli accompagnamenti, posta in scontro diretto con una condotta dei fraseggi nervosa, tesa e sottilmente rubata, fremente nel suo tentativo di sottrarsi all’incedere dell’impulso ritmico. Sublime poi il terzo tempo, il momento più bello dell’intero concerto, in cui il candore del suono di Zimerman ha incontrato il sobrio ma teso canto del violoncello di Yuya Okamoto, le libere risposte di Marysia Nowak e il perfetto sostegno di Katarzyna Budnik. Meno riuscito invece il quarto movimento, iniziato con abilità di fraseggio magistrale dalla Nowak e Zimerman, con quel senso di mestizia e desiderio inespresso così tipici della musica del Brahms maturo, ma che ha sofferto poi di un calo di concentrazione anche per la distrazione del pianista nel cercare una fonte di rumore nel pubblico dietro di sé.

Il Quartetto op. 26

Molto più stabile l’op. 26. Il colossale Quartetto è un’opera piuttosto enigmatica e ricca delle espansive irregolarità del giovane Brahms, ma su tutta l’opera i quattro musicisti sono apparsi più solidi e compatti, dal grande controllo che ha favorito soprattutto primo e ultimo movimento, sebbene assai poco propensi a lasciarsi andare nei forti contrasti. Una certa cautela ha infatti caratterizzato l’intero concerto, una cautela che è ciò che rende questo concerto splendido, ma non l’evento stravolgente che ci potrebbe aspettare (e sia ben chiaro, si può essere stravolgenti con tre note suonate pianissimo, non parlo qui di roboanti effetti). I quattro musici eccellono tutti nei loro ambiti: di Zimerman non ha quasi senso parlare, nonostante gli anni abbiano notevolmente minato l’infallibilità (prevalentemente un discorso di concentrazione, risolto passato il nervosismo del Terzo Quartetto), il suono del pianista polacco è trascendentale come pochi al mondo. Il virtuosismo timbrico e sonoro, tra i vari virtuosismi pianistici forse il più difficile, rimane sbalorditivo, anche e soprattutto per la totale aderenza con il fraseggio, vera e suprema guida nel pianismo di Zimerman. Fraseggio che è anche la principale qualità di Marysia Nowak, violinista dal suono decisamente particolare, morbido eppure acidulo, una cavata che per sottigliezza influiva anche sull’intonazione, ma sempre votata alla realizzazione di un fraseggio libero. Nei suoi soli con il pianoforte di Zimerman si sono colti alcuni dei più grandi momenti di “assieme” dell’intero concerto e questo nonostante, o forse proprio grazie, alla libertà donata alle singole frasi, che travalicavano le squadrate pulsazioni della battuta per donare un senso di dipanata orizzontalità. Completamente diverso il violoncello Yuya Okamoto, la cui condotta più squadrata ostacolava lo slancio ma rafforzava il senso di inespressa tensione, facendo perno sulla notevole stabilità tecnica e il suono non ampio ma assai nitido. A permettere a questi due universi sonori di funzionare insieme era Katarzyna Budnik, rivelazione della serata. La violista polacca ha dimostrato notevoli capacità mimetiche, riuscendo a fondersi o nascondersi nel suono del violino o del violoncello e al contempo ad emergere con piglio più solistico quando Brahms passa la palla alla viola.

Il dialogo e l’incanto

Ciò che mancava dunque a questo concerto per riuscire completamente, vista anche l’eccellente qualità dei musicisti (ed un certo anticonformismo degli stessi) era il senso di dialogo, era un circolare delle idee nella formazione, era un ascolto attento che sapesse oltrepassare il proprio strumento: insomma a mancare era la musica da camera, ma non certo per protagonismo degli interpreti, rispettosissimi e attentissimi ai propri compagni. Forse anche troppo attenti, con quella cautela che trattiene l’esecuzione nel tentativo di controllare anche l’incontrollabile e frena il dialogo restringendolo ad una cortese conversazione, da cui emergevano certamente momenti di incredibile bellezza, idee geniali e slanci appassionati, ma da cui non si sviluppava una spirale di approfondimento che penetrasse nel tessuto musicale e nell’ascoltatore e costruisse quel pensare assieme che è l’incanto della musica da camera.

Alessandro Tommasi

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

Written by Alessandro Tommasi

Viaggiatore, organizzatore, giornalista e Pokémon Master, studia pianoforte a Bolzano, Padova e Roma e management culturale alla Rome Business School e alla Fondazione Fitzcarraldo. È Head of Artistic Administration della Gustav Mahler Jugendorchester e direttore artistico del Festival Cristofori e di Barco Teatro. Nel 2021 è stato Host degli Chopin Talk al Concorso Chopin di Varsavia. Nel 2020 ha pubblicato il suo primo libro, dedicato all'opera pianistica di Alfredo Casella. Dal 2019 è membro dell'Associazione Nazionale Critici Musicali.

Articoli correlati