Francis Poulenc, il monaco e il briccone

La Parigi della prima metà del '900 fa da sfondo all'incredibile vicenda biografica e artistica del compositore francese Francis Poulenc

Parigi – anni ‘20. Erede del suo status di capitale culturale europea nella belle époque la città rimane, ancora per poco, fulcro di attrazione internazionale nel secolo breve. Abituata ormai agli scandali mondani, permette compiacente il continuo alimentarsi di focolai d’avanguardie. Sprizzate con le scintille de Le Sacre di Stravinskij, le memorie di simili serate piroclastiche non si spengono neanche dopo la guerra, attirando come falene altri incendiari nella Ville Lumière. Piromani che inventano, dissacrano, stravolgono le regole e il costume, non solamente per il gusto della provocazione. Il cuore della Francia negli années folles palpita di fermenti creativi: sui grammofoni girano i dischi della musica dei neri d’america, dai ritmi angolosi e sincopati che fanno ballare i rag-time alle ragazze in lustrini e paillettes, e che nell’orecchie del pubblico del vecchio continente insinuano una linfa nuova e vivificante. Nei cocktail bar dei boulevard, nelle music hall e nei cabaret si incontrano e si riuniscono intellettuali, artisti, musicisti e scrittori che coi loro progetti danno vita ad una varietà senza pari di spettacoli, concerti e lavori teatrali. I Ballets Russes di Sergej Diaghilev sono solo una di queste portentose fucine di meraviglie, che sbalordiscono il pubblico parigino con serate all’insegna dell’innovazione di tutti i linguaggi: da una moderna riconcezione del balletto all’adozione di sceneggiature non convenzionali; dal patrocinio dei più influenti pittori (Braque, Picasso, Gris, Picabia) alla commissione di opere e balletti a giovani compositori.
L’eccitante atmosfera di cui è spettatore il giovane Francis Poulenc (1899-1963) ruota ellitticamente intorno ai due fuochi di Erik Satie – conosciuto grazie all’apertura mentale del suo maestro Ricardo Viñes – e Jean Cocteau, funambolico ed eclettico scrittore, disegnatore ed esteta. Galeotta fu la collaborazione dei due nella realizzazione di Parade (1917), nata grazie alle influenti amicizie di quest’ultimo, il quale – auto-investitosi nella missione di rinnovare il gusto nazionale verso un nuovo ordine – coinvolse l’intera squadra Diaghilev-Massine-Picasso nel progetto. La prima fu un ennesimo succès de scandale, previsto e anzi sperato, nella città «dove il cammino per la gloria è attraverso lo scandalo» (T. Mann, Doktor Faustus). Contro le ostilità della società e della critica, solo un gruppetto di musicisti vede in Satie una salutare voce in cui riconoscersi. Georges Auric, Louis Durey e Arthur Honegger lo eleggono a loro modello, presto seguiti da Germaine Tailleferre, Darius Milhaud e dal nostro Francis Poulenc. Cocteau raccoglie le redini di questi baldanzosi purosangue: con il suo Le Coq et l’Arlequin (1918) pubblica il manifesto di una nuova scuola musicale, proclamandosi auriga e portavoce di quei valori di semplicità e freschezza che il vecchio Satie ha indicato, ma che a loro resta ora da percorrere. Farà in modo di conoscere le nouveaux Jeunes al critico Henri Collet, che in analogia ai mitici “Cinque” russi, battezza il posticcio gruppo: “Les Six”. Di fatto tale comunione intenti perde presto di solidità: le inclinazioni individuali hanno la meglio e la diligenza verso il futuro della musica francese sbanda dopo i primi anni in sei direzioni diverse. Gli unici a mantenere un’aderenza agli ideali manifestati dal galletto canterino («Le Coq dit Cocteau deux fois») sono solo Poulenc e Auric.

Il briccone

Trait d’union dei Sei, per quel che è durato, è stato il condiviso rifiuto del romanticismo e dell’impressionismo, la ricerca della semplicità, di chiarezza e di pulizia d’espressione e l’antipatia per la pretenziosità e per la noia musicali. L’ironia e lo scherzo, nonché una rinnovata attenzione ai generi più “triviali” (la musica da circo e da fiera, i music hall, i cabaret, la musica jazz) attirano la loro attenzione come antidoto contro i ritmi vaghi e statici e le sofisticherie armoniche di autori come Debussy e Ravel. «Il music hall, il circo, le orchestre americane di negri, tutto questo matura un artista nella stessa misura della vita» (J. Cocteau, Il gallo e l’Arlecchino).
Poulenc ed Auric si conquistano una precoce fama di clown musicali: apprezzatissimi per il vigore di espressione e per il senso di incessante attività fisica che prorompono dalle loro composizioni, vengono soprannominati “les sportifs de la musique”. Questo slancio atletico sarà tanto più valorizzato nei loro balletti: Diaghilev stesso invita Poulenc e Auric alla scrittura rispettivamente di Les Biches (rappresentato a Monte Carlo il 6 gennaio 1924) e Les Facheux (il 19 gennaio dello stesso anno).
Basato su un soggetto di Cocteau, Les Biches non ha uno sviluppo narrativo: è ambientato in un ricco salotto di una località di villeggiatura estiva dove tre prestanti giovanotti intendono sedurre un gruppo di ragazze eleganti e sofisticate. Il pittore del XVIII sec. Jean Antoine Watteau avrebbe ispirato la maniera nella quale scrivere le musiche, e infatti Cocteau elogerà il balletto come «le Fêtes Galantes del suo tempo». Anche il titolo “Le cerbiatte” (oltre a contenere un ambiguo doppio senso) invita ad un’interpretazione o sensuale o venatoria di queste giovani donne, in una parodia dei corteggiamenti cortesi e dei rituali amorosi della stessa Francia settecentesca rievocata da Paul Verlaine. La regia viene affidata alla Bronislava Nijinska (sorella del famoso ballerino), portando al successo una troupe quasi completamente al femminile. I costumi e la scenografia sono curati dalla pittrice Marie Laurencin, che attingendo alla sua tavolozza personale di sfumature pastello rosa e blu, veste la Dame en bleu (Vera Nemchinova) a immagine del mondo dell’alta società. Non a caso l’acconciatura à la garçonne desta tanta sensazione da influenzare la moda dell’epoca:
«L’entrata della Nemchinova è decisamente “sublime” (nessun wagneriano potrebbe capirmi). Appena questa donnina esce dalle quinte, sulle punte, con lunghe gambe, un giustacuore troppo corto, la mano destra guantata di bianco, avvicinata alla guancia come per un saluto militare, il mio cuore batte più forte o smette di battere. Poi, un’eleganza senza cedimento combina i passi classici e i gesti nuovi. I calcoli più difficili si risolvono da soli sulla lavagna con i gessi bianchi, azzurri e rosa degli scolari.» (J. Cocteau, Il gallo e l’Arlecchino)

La musica di Poulenc riscuote altrettanto successo: chiamato a 24 anni a scrivere il suo primo lavoro importante per orchestra, riesce a destreggiarsi grazie anche ai consigli del suo insegnante Charles Koechlin. Il nome stesso di alcune danze (il Rondeau) rievocano l’arcadica âge d’or di frivolezze e giuochi che – come in un Watteau – sono solo apparentemente innocenti; mentre altre (Rag Mazurka) omaggiano la modernità in un felice connubio di melodie quasi classiche e ritmo jazz che riallaccia l’ideale continuità di passato e presente. In effetti Poulenc è debitore della lezione stravinskijana del Pulcinella (1920), esemplare icona del pastiche e della contaminazione di stili: la cantabilità e la simmetria propria della musica da ballo del XVIII sec. sono deliberatamente rivisitate nello spirito ironico e parodistico del neoclassicismo novecentesco. «La buona musica è somigliante. Somiglia al compositore» dice Cocteau, «Les Biches sono un ritratto di Francis Poulenc».

Il monaco

Questo similitudine di Cocteau mette bene in prospettiva il lato frivolo e giocoso del carattere di un Poulenc ancora giovane. L’etichetta di “briccone” però comincia a stargli stretta, ostacolando la maturazione di un linguaggio personale più libero e sincero. La sua giovialità, come spesso succede, è una maschera di facciata per coprire insicurezze, impressionabilità e paure che solo i suoi amici più intimi conoscono, sopportandone gli alterni eccessi di entusiasmo e di profondissima depressione. Sono soprattutto coincidenze biografiche a marcare l’evoluzione del suo animo in questo periodo.
Il dolore per la morte dell’amico ventenne Raymond Radiguet nel 1923 impedì a Francis di lavorare per giorni, ma a Cocteau costò un ricovero in una clinica per disintossicarsi dall’abuso di oppio. Deve subire poi la perdita della sua più cara amica, Raymonde Linossier, nel 1930: l’unica donna che lui avrebbe voluto sposare nonostante la sua omosessualità, nonché dedicataria de Les Biches. Ma è nel 1936, quando riceve la notizia della tragica morte del suo amico Pierre-Octave Ferroud, che qualche misterioso meccanismo scatta in lui. Educato in una famiglia di solida tradizione cattolica, non dimostra mai un particolare interesse nella religione, fino a quando non decide di intraprendere un pellegrinaggio di penitenza al monastero della Vergine Nera di Rocamadour. Portato lì dal dolore e dalla sofferenza, nella cripta scavata nella roccia, alla visione della statua venerata ha un’esperienza mistica che lo converte e gli ispira le Trois Litanies à la Vierge Noire de Rocamadour (1936). In questo momento scopre nella dimensione religiosa la sua voce più intima e profonda, proprio in coincidenza del profilarsi all’orizzonte delle nuvole nere di guerra.
Durante la guerra si confronta nuovamente con mottetti corali nel Salve Regina e con l’Exultate Deo (1941), ma si sfoga anche in cicli di mélodies per canto e pianoforte su testi di Apollinaire, Aragon e Vilmorin, dedicando rinnovata attenzione alla voce. Richiesto dalla Francia collaborazionista, scampa ai campi di battaglia per un progetto di propaganda musicale. Simpatizza segretamente per la causa della Resistenza francese, componendo una cantata profana su testi composti in clandestinità da Paul Éluard. Solo dopo il ‘45, all’indomani della rappresentazione di questa Figure Humaine, Poulenc può finalmente considerarsi sollevato – come alla fine dell’ultimo coro – per la raggiunta Libertà. In una parentesi di distensione dai drammi della guerra e dalla serietà religiosa, recupera quel poco di scanzonata leggerezza nell’opera buffa Les Mammelles de Tirésias (1947), lavoro di sovversiva attualità considerate le tematiche sessuali e di genere affrontate satiricamente da Apollinaire ancora nel 1903. Dopo questo importante esordio operistico, riceve la commissione di un nuova opera a soggetto religioso per La Scala di Milano, dal quale nasce dopo tre anni di lavoro i Dialogues des Carmélites, rappresentato il 29 Gennaio 1957.
Il successo che registrò l’opera in America convince la fondazione ‘Serge Koussevitsky’ a proporgli la composizione di un concerto, in onore del famoso direttore recentemente scomparso. Poulenc gli propone il Gloria per Soprano, coro e orchestra (1959), che prolunga così la sua lista di opere sacre, dopo lo Stabat Mater del 1951. «Il mio Stabat è un coro a cappella» dice Poulenc «il Gloria è un grande corale sinfonico». E in effetti è particolarmente prodigo nell’accompagnare vivacemente il coro, vestendo l’orchestra di colori a contrasto di ogni movimento. Pregnanti di sincero e profondo fervore religioso sono i centrali Domine Deus e Dominus Deus-Agnus Dei, mentre sembrano tanto lontani dall’idea di sacrale compostezza e ieraticità il Laudamus te e il Domine fili unigenite, da generare qualche perplessità nella critica.
«Il secondo movimento causò scandalo, mi chiedo il perché? Quando scrissi questo pezzo avevo in mente gli affreschi del Gozzoli dove gli angeli ti mostrano la lingua; e anche certi seri monaci Benedettini che vidi una volta divertirsi giocando a calcio.»

Così ancora una volta Giano-Poulenc riconcilia gli opposti, fondendo in una sola opera il suo ruolo di “enfant terrible”, di “devoto” e di “bonhomme”. Il Gloria non è che una somma dei vari, e spesso contraddittori, filoni nei quali la musica di Poulenc si è mossa: l’introduzione strumentale, dominata dalle fanfare degli ottoni, ci riporta a Les Biches e alla maestosità della corte di Luigi XIV che il ritmo puntato richiama; un pizzico di primitivismo stravinskijano fa capolino nel ritmo del Laudamus te, mentre nel Domine Deus si riversa quell’atmosfera claustrale che ha riscosso profondo effetto nei Dialogues des Carmélites.
Queste espressioni contrastanti di fede e devozione da una parte e di eclatante esteriorità dall’altra fanno parte della vena musicale di Poulenc, che l’amico Benjamin Britten definisce «spiritosa, audace, sentimentale e maliziosa». La sua musica è il suo ritratto, e dall’infaticabile ricerca melodica, dal gusto armonico crudo e seducente, da una mai sconfessata passione ritmica, ne emerge la figura complessa e ricchissima di uomo. Una volta paragonò se stesso all’eroe dell’opera di Massenet Le Jongleur de Nôtre-Dame, un povero giullare cantastorie che per redimersi si fa monaco ed offre alla Vergine Maria l’unica cosa che sa fare: scherzare e ballare sino alla morte; laddove lo accoglie benigna la Madonna che gli offre la sua benedizione. Proprio pensando alla sua vita da giullare, scrive delle sue opere sacre, poco prima della sua morte: «Possano risparmiarmi qualche giorno di Purgatorio».

Alessandro Panozzo

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