L’Orfeo ed Euridice

e la rivoluzione gluckiana

Autore: Ottavia Pastore

31 Gennaio 2019

[blockquote cite=”R. de’ Calzabigi – C. W. Gluck Orfeo ed Euridice – Argomento, dal libretto, 1762″ type=”left”]È noto Orfeo, e celebre il suo lungo dolore nell’immatura morte della sua sposa Euridice. Morì ella nella Tracia; io per comodo dell’unità del luogo la suppongo morta nella Campagna felice presso al lago d’Averno, in vicinanza del quale finsero i Poeti trovarsi una spelonca, che apriva il cammino all’Inferno. L’infelice amante mosse a pietà gli Dei, che gli concessero di penetrar negli Elisi per ripigliarsi la sua diletta, col patto però di non guardarla finché non fosse tornato sulla Terra. Non seppe il tenero sposo frenar tanto gli affetti, ed avendo contravvenuto al divieto, perdé per sempre Euridice. Per adattar la favola alle nostre scene ho dovuto cambiar la catastrofe. Leggasi Virgilio al libro IV delle Georgiche, al VI dell’Eneide.[/blockquote]

Risultato di una fervente collaborazione fra il letterato Ranieri de’ Calzabigi e il compositore tedesco Christoph Willibald Gluck, l’Orfeo rappresenta la prima autentica testimonianza della cosiddetta Riforma gluckiana dell’opera seria.
A Gluck fu affidato l’incarico di arrangiare opere francesi per il pubblico viennese a partire dal 1755, per volere del conte genovese Giacomo Durazzo, ambasciatore della Repubblica di Genova alla corte asburgica e intendente generale dei teatri di corte nel 1754.
Fu proprio in questa città, una delle principali sedi del cosmopolitismo illuminista, in particolare presso il Burgtheater, che il legame fra il compositore e il librettista venne sancito nell’intento di unificare lo stile italiano e quello francese, al fine di creare una maggiore compenetrazione fra musica e poesia nel dramma serio, rispetto alla tradizione dell’opera italiana.
Infatti, mentre quest’ultima prediligeva il virtuosismo vocale, gli intrecci complicati e organizzati meticolosamente in recitativi e arie solistiche, Calzabigi, invece, perseguì il modello della tragédie lyrique, in chiave illuministica, sgravando il testo da riempiture superflue, intrighi secondari e ridondanze decorative, come pure da alcune strutture formali, per prima l’aria col “da capo”, meno funzionali alla comunicazione immediata dei sentimenti, affinché i versi potessero adattarsi in modo spontaneo e lineare alle sfaccettate nuances emotive che compongono la vicenda.

[blockquote cite=”R. de’ Calzabigi, Mercure de France, mese di agosto del 1784″ type=”left”]Arrivai a Vienna nel 1761, pieno di queste idee. Il signor Gluck non era tenuto in conto (e a torto senza dubbio), fra i più grandi maestri… Gli feci la lettura del mio Orfeo e gliene declamai più pezzi a più riprese, indicandogli le sfumature che mettevo nella mia declamazione, le sospensioni, la lentezza, la rapidità, i suoni della voce ora caricata, ora affievolita e trascurata nel modo in cui se ne facesse uso nella sua composizione. Lo pregai, nel frattempo, di bandire i passaggi, le cadenze, i ritornelli e tutto ciò che si è messo di gotico, di barbaro, di stravagante nella nostra musica. Il signor Gluck aderì ai miei punti di vista.[/blockquote]

Lo scopo di Gluck era quello di far risaltare l’immediatezza e la naturalezza espressiva dei sentimenti mediante un’accurata attenzione al valore della parola, affinchè la declamazione del testo poetico seguisse liberamente l’impulso emotivo.
Da ciò si deduce il ricorso a soggetti mitologici ed eroici, dotati di grande pathos declamatorio, all’interno di un perfetto equilibrio di tutte le arti presenti: poesia, musica e danza. Ciò che contava era la qualità dell’azione scenica dei cantanti nella sua complessità, piuttosto che i loro exploits vocali acrobatici.
Il fine ultimo dell’opera era elevarla al più alto grado di perfezione, nel pieno rispetto della sua concezione originaria. Gli intenti espressivi della riforma, furono chiaramente esplicitati nella prefazione all’Alceste di cui si riporta il seguente passo:

Ecco i miei principi. Per buona sorte si prestava a meraviglia al mio disegno il libretto, in cui il celebre autore, immaginando un nuovo piano per il drammatico, aveva sostituito alle fiorite descrizioni, ai paragoni superflui e alle sentenziose e fredde moralità, il linguaggio del cuore, le passioni forti, le situazioni interessanti e uno spettacolo sempre variato. Il successo ha giustificato le mie massime, e l’universale approvazione in una città così illuminata ha fatto chiaramente vedere che la semplicità, la verità e la naturalezza sono i grandi principi del bello in tutte le produzioni dell’arte.

È a partire da questi principi estetici che fra la primavera-estate del 1762, Gluck, accanto al librettista Calzabigi, il coreografo Angiolini e il principale interprete Guadagni, tradusse in opera lirica il mito di Orfeo ed Euridice, che riscosse un immediato successo già alla prima rappresentazione in occasione delle feste per l’ onomastico dell’Imperatore Francesco Stefano I di Asburgo, avvenuta il 5 ottobre 1762 al Burgtheater di Vienna, a cui ne seguirono oltre cento repliche, suscitando l’entusiasmo della stessa imperatrice Maria Teresa.
Il successo europeo di quest’opera nacque soprattutto dall’ideazione di un teatro “sovranazionale”, realizzata mediante questa fusione della tradizione italiana e di quella francese. Oltre alla lingua, dalla prima, Gluck mutuò la riduzione dei personaggi a tre sulla scena, tipico della festa teatrale, il protagonista castrato, o anche detto “contraltista” poichè canta nel registro del contralto, nonché il recitativo accompagnato. Invece, dalla seconda, egli riprese miti e figure allegoriche, la varietà timbrica dell’orchestrazione e l’uso prevalente di cori e balletti.

Calzabigi mirava a mettere in scena le passioni umane nella molteplicità delle loro sfaccettature, i cui stati d’animo emergono mediante una perfetta e curatissima scansione testuale. Ragion per cui, nessun personaggio doveva risultare passivo, a partire dalla stessa Euridice, che partecipò attivamente alla vicenda, a differenza delle precedenti versioni del mito.
La rappresentazione scenica era calata in una raffinata atmosfera contemplativa, in cui i sentimenti non avevano bisogno di raggiungere l’acme della tragicità per esprimersi in tutta la loro intensità. Gluck infatti, persegue un classicismo autentico e totale, in cui il sentimento è sempre subordinato alla ragione, al fine di raggiungere un equilibrio artistico, permeato dai lumi del razionalismo medio-settecentesco.
Sia il coro che l’orchestrazione in quest’opera determinano, in modo particolare, le dinamiche ambientali, psicologiche ed emotive della vicenda.
Ne è un esempio l’uso geniale del flauto che Hector Berlioz, nel suo Grande Trattato di Strumentazione (1844) afferma possedere:

“Un’ espressione sua particolare e un’attitudine a rendere certi sentimenti, doti nelle quali nessun altro strumento potrebbe contendergli il primato. Gluck è a mio avviso il solo maestro che abbia saputo trarre un grande utile da questo pallido colorito. Si ascolti lo strumentale della pantomima in Re minore nella scena dei Campi Elisi in «Orfeo», e si vedrà immediatamente che al solo flauto poteva convenire quel canto …”.

Il mito greco a cui egli si ispira, strutturato in tre atti, è incentrato sulla figura di Orfeo, musico ed eroe, noto per aver partecipato all’impresa degli Argonauti per la conquista del vello d’oro, il quale al suo ritorno, innamoratosi della ninfa Euridice, decise di sposarla e andare a vivere insieme in Tracia.
Tuttavia, nella valle del fiume Peneo, Euridice, mentre fuggiva tra i campi, cercando di sottrarsi ad un tentativo di stupro da parte di Aristeo, figlio di Apollo, fu morsa mortalmente da un serpente, perdendo la vita.

ATTO I  L’opera, dopo la brillante ouverture in pieno stile barocco, apre il sipario proprio dinanzi alla tomba di Euridice, ove viene intonato un canto funebre dal coro di ninfe e pastori, che si unisce ad Orfeo, partecipando con empatia al suo tormento.
Il tono di gravità della rappresentazione drammatica, viene accentuato dall’orchestra, che riproduce tale sensazione nel coro iniziale Ah! Se intorno a quest’urna funesta attraverso l’utilizzo di tre tromboni, cornetto e archi.

 

Dopodiché segue l’aria di Orfeo Chiamo il mio ben cosi, in cui emerge la profonda intensità del suo intimo dolore, vissuto in solitudine. Qui il compositore utilizza la forma dell’aria a couplets strofica, alternata al suo interno da recitativi, dimostrando la sua maestria nel far risaltare le varietà timbriche dell’organico dei fiati, nel quale, insieme all’arpa, introduce due corni inglesi nell’ultima strofa.

A questo punto ad Orfeo viene comunicato dal deus ex machina Amore, che gli dei gli avrebbero permesso di dirigersi negli inferi per riportare la moglie in vita, soltanto a condizione che egli non le avesse rivolto lo sguardo finché non fossero ritornati nel mondo dei vivi. Perciò, nell’aria in forma tripartita Gli sguardi trattieni, Amore tenta di incoraggiarlo a resistere alla tentazione.

ATTO II  Nel secondo atto, ambientato nell’oscuro e cavernoso panorama dell’Ade, il coro viene adoperato per rappresentare gli spettri, che inizialmente rifiutano di ammettere Orfeo nell’Ade, poiché essere vivente nel mondo dei morti, invocando contro di lui “le fiere Eumenidi” e gli “urli di Cerbero”. E’ la perfetta omoritmia e scansione testuale, oltre che l’impiego di valori molto dilatati, a conferirgli gravità e un tono decisamente austero.
Nel coro Chi mai dell’Erebo, in particolare, la tensione provocata dalle voci all’unisono delle Furie, funge da contraltare alle tre imploranti arie di Orfeo: Deh placatevi con me, Mille pene, e infine in Men tiranne, ah, voi sareste. Grazie alla sua abilità con la lira, resa in orchestra attraverso l’arpa, Orfeo riesce ad accedere alle porte dell’Ade, mediante la delicatezza del suo canto che placa le oscure entità.

La seconda scena, ambientata nei Campi Elisi, è caratterizzata dalla celebre “Danza degli spiriti beati”, in quattro movimenti, a cui segue un’aria solistica per soprano, ripetuta dal coro, E’ quest’asilo ameno e grato, che in questo caso svolge una chiara funzione di definizione ambientale, celebrando con gioia la beatitudine del luogo.
Orfeo, estasiato dalla bellezza, intona l’arioso Che puro ciel, in cui Gluck assegna alle varie timbriche strumentali un funzione descrittiva, in particolare, mediante l’utilizzo dell’oboe e il moto ondulante in sestine dei violini. Il secondo atto, quindi, si conclude con il recitativo Torna, o bella del coro di eroine, dal quale Euridice viene condotta vicino ad Orfeo, che senza guardarla, la prende per mano, uscendo insieme dagli Elisi.

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Euridice tuttavia, non riesce a comprendere l’atteggiamento del marito che non la degna di uno sguardo né di un abbraccio, manifestando il suo disappunto nel duetto Vieni, appaga il tuo consorte in cui ella afferma di preferire la morte alla freddezza dello sposo, che la supplica di non chiedergli il motivo di questo suo comportamento. Il lume della ragione che guidava Orfeo, sembra ormai vacillare ed egli si lascia abbandonare alla bramosia del desiderio:

La ragion m’abbandona: oblio la legge… Che affanno! Oh come mi si lacera il cor! Più non non resisto; smanio, fremo, deliro… ah mio tesoro.

[Recitativo n. 33, Atto III]

 

Alla fine Orfeo cede alle sue preghiere, e si volta a guardarla con impeto, provocandone nuovamente la morte. E’ in questo punto esatto che troviamo la famosa aria struggente Che farò senza Euridice, esempio più celebre di tutta l’opera, in cui si manifesta quasi un ossimoro fra il dolore interiore di Orfeo e la delicata melodiosità vocale, che si concretizza nell’armoniosa perfezione classica e tripartita del rondò.
Disperato, Orfeo invoca la morte pur di riabbracciare la sua amata nel regno dell’Ade:

Che farò senza Euridice!
Dove andrò senza il mio ben!
Euridice! Oh dio! rispondi,
io son pure il tuo fedel.
Euridice! Ah! non m’avanza
più soccorso, più speranza
né dal mondo, né dal ciel!
Che farò senza Euridice!
Dove andrò senza il mio ben!

[Aria n. 37, Atto III]

ATTO III  A questo punto Calzabigi decide di far intervenire un’altra figura che egli chiama Amore, il quale, spinto da compassione, ferma Orfeo dall’intenzione di uccidersi per ricongiungersi alla sua sposa riconoscendone la costanza e l’autenticità del suo sentimento, e riporta nuovamente in vita Euridice. L’opera si conclude con un trionfante inno all’amore, accompagnato da una schiera di Pastori e Pastorelle che ballano festosamente insieme ad Amore ed Orfeo, per celebrare il ritorno dell’amata. Infatti, la rappresentazione delle cinque ambientazioni, apertasi in un “ameno, ma solitario boschetto”, luogo sepolcrale, si conclude gioiosamente nel “magnifico tempio dedicato ad Amore”, incarnando una vera e propria metamorfosi dal buio alla luce.   Sarà Orfeo ad introdurre l’aria finale, Trionfi amore, poi ripresa dal coro. Caratteristico è in quest’aria l’utilizzo della forma del cosiddetto vaudeville strofico, per il quale ai protagonisti sono affidate strofe diverse, con melodie modellate sui ritmi di danza, mentre al coro spetta il refrain.

L’ultima scena, in particolare, testimonia il ruolo partecipe ed attivo del coro, che si esplica nel suo intervento diretto nella vicenda e nei dialoghi. Inoltre, l’adesione intimistica della musica alla poesia, l’anti-virtuosismo della scrittura, la spettacolarizzazione delle situazioni infernali, il gusto per i luoghi “orrorosi”, la libertà formale dei pezzi, fanno di Gluck un maestro d’atmosfere. A queste peculiarità, si aggiunge la grande complessità e varietà di soluzioni formali adottate nei pezzi chiusi, basti considerare che, nella stessa produzione gluckiana, troviamo i generi più disparati, che si diramano dall’opera seria al divertissement.

Tali aspetti che garantirono la buona riuscita della sua opera, ne fecero senza dubbio un esempio per altri grandi compositori, tra cui Franz Liszt, che ne curò una rappresentazione a Weimar, e per il già citato Berlioz che, nel suo trattato di strumentazione, riprese passi orchestrali tratti dall’Orfeo, per illustrare l’arcobaleno timbrico degli strumenti.

Il 2 agosto del 1774 Gluck mise in scena all’Accadémie Royale di Parigi una versione francese dell’opera, che, rispetto a quella viennese, presentava diverse variazioni: il cambiamento di registro nella voce del protagonista, dal contralto al tenore (definito nel barocco francese haute-contre), l’inserimento di alcuni brani vocali e strumentali, tra cui la nuova aria di Amore Se il dolce suon de la tua lira, e una maggior pienezza dell’organico orchestrale, difatti la tromba fu estesa dalla sinfonia al corpo dell’opera. Il successo fu tale che a Parigi ebbe 297 esecuzioni dalla prima al 1848, e fu messa in scena il 19 novembre del 1859 all’Opéra da Berlioz.

La conclusione a lieto fine della vicenda, rispetto al finale tragico del mito, rispecchia la concezione della tragédie lyrique e dell’ideologia dell’assolutismo francese, per cui, la vita degli eroi mitologici, è soggetta all’autorità e alla volontà degli dei, riflesso del potere del monarca assoluto, che ricercava nella classicità la propria glorificazione. Pertanto con l’avvento dell’illuminismo, questa trasformazione dell’opera, fondata sui nuovi valori del razionalismo, fa dell’utopica armonia tra uomo, natura e società, il proprio principio motore, che si rivelerà un terreno fertile per l’instaurazione del teatro cosmopolita gluckiano.

Ottavia Pastore

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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