Nuove strade

Silvia Colasanti

Autore: Filippo Simonelli

14 Gennaio 2019
Il 28 ottobre 1853 la feconda penna di Robert Schumann partorì uno scritto per il suo Neue Musikalische Zeitschrift in cui, con memorabile preveggenza, descriveva l’astro nascente di Johannes Brahms. Questo articolo, intitolato Neue Bahnen, traducibile come Nuove Strade, segna in un certo senso l’apice dell’attività critica del musicista di Zwickau sia per il linguaggio immaginifico che per il giovane talento che ha di fatto consacrato.

Di Robert Schumann ne è nato solo uno nella storia, come musicista e come giornalista. Ma le stesse idee di servizio e devozione per la musica che lo hanno ispirato ci hanno spinto a cercare anche noi delle “Nuove Strade” nella musica di oggi. Per questo dedicheremo uno spazio dedicato alla ricerca di queste strade, prendendo come pionieri i compositori coraggiosi che oggi si misurano con queste creazioni. La cadenza sarà, verosimilmente, mensile sul nostro sito web con una puntata bonus ogni tre mesi sulla rivista, all’interno della sezione ritratti.

Protagonista della prima intervista è Silvia Colasanti, pianista e compositrice romana. Una delle voci più singolari della sua generazione, ha affrontato una vastissima gamma di generi nella sua carriera già pluridecennale. Al primo impatto però l’aspetto è quello della ragazza della porta accanto: un sorriso gioviale, una istantanea cordialità accompagnati da una pazienza da madre di famiglia fanno da cornice sorprendente ad una musica densa, costruita con minuzia artigianale che la sta portando alla fama. L’unico dettaglio che rivela immediatamente la formazione musicale sono le mani da pianista, segnate da quei tratti tipici che sviluppa chi passa anni della sua vita davanti ai tasti d’avorio. Una volta che si apre la porta della sala spaziosa della sua casa romana, però, si staglia subito un maestoso pianoforte a coda circondato da un turbinio di fogli, appunti, spartiti e musica in divenire, disposti secondo quel disordine calcolato che è familiare solo a chi vive in quel mondo immaginifico tutti i giorni.

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Scartabellando tra vecchie interviste e recensioni, ho trovato un commento di Luca Pavanel, nei blog de “Il Giornale”, in cui veniva riportato un virgolettato in cui faceva riferimento alla necessità di “trasfigurare la melodia”. Il termine trasfigurare porta subito alla mente i capolavori di Strauss e Schönberg, ma sarebbe una falsa pista, sostiene.

“L’espressione “trasfigurazione della melodia” è riferito al nostro passato più prossimo. Per anni, anzi decenni, le avanguardie hanno fatto tabula rasa di alcuni parametri musicali, tra cui la melodia. Quando dico che invece va trasfigurata intendo dire che non ha senso mettersi oggi a scrivere Casta Diva! Il parametro melodico non va abolito come tanta musica contemporanea ha fatto, ma va ripensato alla luce dei canoni estetici di oggi. Non si può pensare che sia un tabù la necessità di dare un profilo lirico e melodico alla propria musica. Dall’avanguardia dobbiamo prendere dei lasciti importanti, ma dal punto di vista espressivo, non concettuale.”

Con queste premesse è impossibile non cogliere subito l’opportunità di affrontare il discorso delle avanguardie, il nostro passato prossimo e più importante. Silvia Colasanti non appartiene certo ad alcuna corrente avanguardistica, ma non ne rifiuta del tutto i presupposti. Se dovesse indicare cosa si porta con sé di fronte al pentagramma dalle avanguardie

“[sarebbe] l’aspetto timbrico e di uso degli strumenti, con tutto l’allargamento delle possibilità strumentali che le avanguardie ci hanno aperto più di quanto sia stato mai fatto prima, e l’aspetto formale e strutturale. A partire dai materiali dati le avanguardie ci hanno dato dei diversi procedimenti compositivi radicalmente diversi rispetto a quelli più tradizionali. Per avanguardia mi riferisco principalmente alle ricerche più recenti: la seconda scuola viennese, le così dette avanguardie storiche hanno mantenuto molti più parametri “tradizionali” di quanti non pensiamo. Quanta melodia c’è in Berg? Le nuove avanguardie che invece si sono succedute dagli anni ’60 in poi si sono trovate ad affrontare un periodo di cambiamento anche radicale della concezione della musica. Ci ha lasciato naturalmente dei frutti preziosi, ma oggi i musicisti della mia generazione mi sembrano affrontare il passato con molta più libertà nonostante siano stati magari allievi di Maestri che di queste avanguardie erano figli diretti se non addirittura ne erano parte.”

Il catalogo della musicista romana, nonostante la giovane età, è già ricco di un novero di pezzi importanti. Scorrendo i titoli dei brani, fanno capolino spesso nomi familiari anche ai musicisti dei secoli precedenti. Forme classiche, o addirittura barocche, si alternano a citazioni poetiche dall’apparenza più sfuggente. L’equilibrio tra queste due sensibilità rivela in realtà la ricerca di una soluzione ad un altro problema capitale per la musica contemporanea: come affrontare la forma?

“Nel mio catalogo ci sono pezzi strumentali che però fin dal titolo mostrano chiaramente un legame forte con una drammaturgia; altri invece che mostrano chiaramente un legame con delle forme del passato, quindi abbiamo Capriccio, Preludio, Lamento. Mi sono rifatta a queste forme, ma le ho rilette, rivisitate, addirittura lacerate se necessario. Non è un caso che in effetti abbia preso forme che nascevano “libere” fin da principio, come nel caso del capriccio e del preludio. Ma anche qui, riprendendo le caratteristiche principali e lasciandole intravedere in filigrana, dopo averle attualizzate. Mi sono addirittura trovata a giocare con una forma idiomatica come il Tango. Certo, se non avessi ricevuto lo spunto da David (Geringas, ndr) che me ne ha chiesto insistentemente, probabilmente non ne avrei mai scritto uno. È un lavoro ancora più particolare: si tratta appunto di un qualcosa di idiomatico, un po’ un gioco, ma si deve capire che effettivamente si tratti di un tango. Ci sono caratteristiche timbriche, armoniche da cui non si può prescindere, ma anche qui la possibilità di trasfigurare la forma c’è: nel mio tango ho scelto ad esempio di aggiungere la cadenza per il solista, ho scelto un’orchestra molto sofisticata, tutte cose che nel tango “standard” non sono usuali. La mia cifra può stare anche in questo, stare sulla linea tra un genere storico e invece la sua lettura attuale.”

Silvia Colasanti

Eppure, nonostante sostenga di non avere legami con il genere del tango, Silvia Colasanti aveva già usato il Bandoneon, strumento principe del ballo argentino, in una delle sue ultime composizioni, il Requiem “Stringeranno nei pugni una cometa”. Ma a stuzzicare ancora di più la mia curiosità è un dettaglio piuttosto inusuale della spaziosa sala-studio che affaccia su Via Taranto, a Roma: una collezione di Bandoneon, di varie forme e dimensioni, gelosamente custodita.

“Oh, quelli?” dice sorridendo, quasi a mo’ di scherno “ma quella è un’altra storia: mio marito è un appassionato collezionista di Bandoneon! Il fatto che io abbia usato questo strumento nel Requiem ha un altro significato. Prima di allora non avevo mai scritto nulla, ma neppure avevo pensato che uno strumento così particolare, con una letteratura così personale potesse entrare nella mia musica. Poi è successo che nel Requiem avessi bisogno di rappresentare un personaggio in maniera particolare, legata al respiro della terra, e le caratteristiche imprescindibili delle movenze del bandoneon mi hanno convinto ad affrontare questa sfida. L’ho scelto alla fine perché in un certo senso mette insieme “la campagna e la chiesa”. Per noi italiani ricorda strumenti popolari, un po’ come l’organetto: ma proprio come organetto, quindi un organo in miniatura, è in qualche modo legato alla musica sacra ma non alle atmosfere d’incenso delle chiese, ad una musica sacra delle piazze, che volesse essere compresa. Ogni strumento ha una storia, una letteratura, e non è mio interesse cancellarla o ignorarla. C’è sempre il rischio di diventare più reazionari, in fondo.”

Questa è solo un’anteprima dell’intervista a Silvia Colasanti, pubblicata in “Storie Incompiute“, il numero di Quinte Parallele uscito a dicembre 2018. Per scoprirne di più, clicca qui.

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

Written by Filippo Simonelli

Fondatore di Quinte Parallele, Alumnus LUISS Guido Carli, Università Cattolica del Sacro Cuore e Conservatorio di Santa Cecilia

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