Il concerto per pianoforte nel ‘900 sovietico

Prokofieff, Shostakovich, Khaciaturian

Autore: Redazione

16 Dicembre 2018

Sergej Prokofieff – Concerto per pianoforte n.1 op. 10 (1912)

“Il mio primo concerto fu probabilmente il mio primo lavoro maturo per quanto riguarda sia il
concepimento che il risultato.”
(Sergej Prokofieff)

Da un punto di vista storiografico e musicologico, quando messi di fronte al binomio Prokofieff-concerti per pianoforte, si pensa spesso al Concerto per pianoforte n.3 op. 26. Nulla da obiettare: ci si dimentica spesso, però, che il terzo concerto fu il coronamento di un personale percorso di evoluzione compositiva che ebbe inizio più di dieci anni prima: nel 1910, un Prokofieff poco più che diciannovenne – ancora studente al Conservatorio di San Pietroburgo – scrisse il suo primo Concerto per pianoforte, op. 10, dimostrando per la prima volta il suo estremo, anticonvenzionale approccio non solo alla forma del concerto per pianoforte, una delle forme che aveva da tempo – anche in Russia – raggiunto le vette della perfezione, ma anche allo strumento stesso. Si pensi solo, volendosi limitare alla recente ereditá musicale nazionale lasciata alla Russia del primo decennio del secolo, a Tchaikovsky e al suo Concerto per pianoforte n.1 op. 23. Oppure ai grandi lavori degli esponenti di punta della scuola nazionale russa, il cosiddetto Gruppo dei Cinque o al recente pianismo delle sonate di Alexander Scriabin. Non è quindi strano leggere che, quando il concerto vide la sua prima esecuzione pubblica a Mosca nel 1912, molti critici storsero il naso, definendo il concerto “il lavoro di un pazzo” quando non etichettando il compositore come “pronto per la camicia di forza”. E non è strano pensare che quando Prokofieff decise di presentarlo al concorso indetto dal Conservatorio nel 1914, molti dei giudici – fra cui Alexander Glazunov – furono presi alla sprovvista, ma non poterono non rimanere impressionati dalle abilitá tecniche e compositive di Sergej e dal linguaggio musicale estremamente maturo che il Concerto dimostrava. Molto breve, molto compatto (all’incirca un quarto d’ora di composizione), il Concerto per Pianoforte n.1 è costituito da un solo, unico movimento, pur mantenendo all’interno di esso la tripartizione tipica della forma classica (tempo veloce, tempo lento, tempo veloce). L’approccio all’armonia e soprattutto al ritmo, contraddistinto da un’aggressivitá quasi percussiva grazie all’uso intenso di note puntate ed ostinati, fu rivoluzionario per gli ascoltatori dell’epoca. Prokofieff non rinuncia, peró, alla cantabilitá delle melodie dei temi principali, soprattutto quella più riconoscibile, in apertura al primo movimento, dal quale si allontana durante lo sviluppo e al quale ritorna in chiusura di concerto, donando al pezzo un grande senso di coerenza ed organicitá.

Dopo una parte virtuosistica dal sapore quasi cadenzale (chiaro l’intento di Prokofieff di mostrare le sue capacitá tecniche di pianista), troviamo lo stesso connubio di percussivitá e cantabilitá nel secondo tema del primo movimento:

Un’ipnotica parentesi di qualche minuto per il secondo movimento e si approda al Presto Finale, una vera e propria esplosione virtuosistica. In un quarto d’ora Sergej Prokofieff ci ha detto tutto, ci ha parlato di sé, del concerto per pianoforte e della Russia (presto Unione Sovietica) del secolo a venire.

Aram Khaciaturian – Concerto per pianoforte, op. 38 (1936)

Aram Khaciaturian è forse il meno incensato fra i tre grandi compositori del Novecento sovietico. Forse perché la figura del compositore sovietico schiacciato dallo stalinismo, sempre in bilico fra il terrore (fondato) di non aderire abbastanza al canone del realismo di regime, e il tentativo di imporsi quale artista libero, ha assunto un carattere ed un’aura quasi leggendaria. A differenza di Shostakovich, Khaciaturian non ebbe mai bisogno di scrivere una Quinta Sinfonia e di rivalersi scrivendo una Nona, né di scrivere il proprio “Piccolo paradiso Anti-Formalista” (la satirica cantata a 4 voci composta da Shostakovich in reazione al decreto Zhdanov del 1948); a differenza di Prokofieff uscí quasi indenne da quell’incubo chiamato “accusa di formalismo” di cui si rese protagonista il Politburo nel 1948. Khaciaturian insomma non visse mai questa scissione: sostenitore del partito comunista da sempre, costantemente animato dall’intento di “esprimere l’orgoglio dei Sovietici nei confronti della loro grande e potente nazione”, visto come l“ingegnere dell’animo umano” (parole di Stalin stesso). Sovietico, molto, quindi: ma anche – e soprattutto – armeno. Nonostante la pesante sovietizzazione del Caucaso, la sensibilitá nazionale di Khaciaturian, l’influenza che il folklore dell’amata madrepatria – l’Armenia – ha sempre esercitato sul modo di scrivere del compositore non manca mai di fare mostra di sé nei suoi lavori. Neanche nel lavoro che lo ha portato definitivamente al successo, il suo Concerto per Pianoforte op. 38 in Re bemolle maggiore: in questo primo di tre concerti scritti per altrettanti rinomati musicisti del tempo (Lev Oborin, il violinista David Oistrakh, il violoncellista Sviatoslav Knushevitsky), emerge prepotentemente tale influenza. A partire dal primo movimento, in forma sonata, dove esordisce il famoso, maestoso tema iniziale, una quasi-danza che ci riporta alle campagne che circondano Tbilisi ed Yerevan (con una capacitá evocativa potente almeno quanto quella di Borodin in Nelle Steppe dell’Asia Centrale):

Il richiamo ai temi popolari della madrepatria si nota anche nel secondo tema del primo movimento, introdotto dall’oboe e ripreso con variazioni dal pianoforte:

L’Andante centrale, un tema e variazioni in tempo ternario su un famoso folk tune armeno introdotto dal caratteristico suono del clarinetto basso, è caratterizzato da una trovata timbrica unica nel suo genere: l’utilizzo di uno strumento a percussione chiamato flexatone, che in accompagnamento alla melodia degli archi crea uno stupendo effetto di glissando (simile a quello ottenibile con una musical saw). Shostakovich aveva già utilizzato il flexatone anni prima (ad esempio nella sua opera Il Naso del 1928), ma l’utilizzo fatto dal compositore armeno nel suo concerto diede allo strumento la fama per cui è conosciuto.

Il terzo movimento è un’esplosione di virtuosismi “di quelli che renderebbero Liszt, Tchaikovskij e Rachmaninov fieri”, che prendono la scena prima di cederla al maestoso tema iniziale in chiusura di concerto.

Dimitri Shostakovich – Concerto per pianoforte n.2, op. 102 (1957)

“Il mio concerto per pianoforte n.2 non ha alcun merito artistico salvifico.”
(Dimitri Shostakovich in una lettera all’amico Edison Denisov, febbraio 1957)

Dimitri Shostakovich fu sicuramente il compositore che più soffrí il clima di terrore instaurato dal regime ai danni dei prominenti artisti e intellettuali dell’Unione Sovietica di era stalinista. Sin da quando nel 1936 la Pravda, il giornale di regime, intonò pesanti critiche alla sua opera Lady Macbeth nel distretto di Mtsensk, alla quale prima esecuzione pubblica il 26 gennaio del 1936 erano presenti Andrei Zhdanov, Vyacheslav Molotov e lo stesso Stalin in persona. Le accuse di formalismo furono di tale peso che Shostakovich interruppe la stesura della sua Quarta Sinfonia, giá in stadio avanzato di composizione (vide la luce solo nel 1961, molti anni dopo la morte di Stalin) per concentrarsi su un lavoro che lo riportasse nelle grazie della critica di Stato. La sua “rivalsa” arrivò nel 1937 con l’uscita della sua Quinta Sinfonia, che fu – a differenza di Lady Macbeth, molto apprezzata. Shostakovich, “ristrutturatosi” suo malgrado per aderire al canone del “vero artista sovietico” ([La Quinta] è stata la creativa risposta del vero artista sovietico alle giustificate critiche” scrisse lui stesso in un articolo su un quotidiano moscovita) incontrò finalmente il benestare dei vertici del regime. Il 5 marzo 1953 Josif Stalin morí. Il fatto ebbe, tra l’altro, un risalto mediatico tale che la notizia della morte di Sergej Prokofieff – uno dei grandi compositori del novecento sovietico e uno degli artisti di punta del regime stalinista – che era mancato nello stesso identico giorno, non fu divulgata fino ad alcuni giorni dopo. Il corpo del compositore (in quel periodo viveva vicino alla Piazza Rossa) fu potuto seppellire solo diversi giorni dopo, con un funerale modesto, perché fu fisicamente bloccato dall’immenso corteo di persone che si era ammassato per rendere omaggio al grande tiranno. In ogni caso, fu solamente dopo la dipartita di Stalin che Dimitri Shostakovich si sentì completamente libero di comporre secondo il proprio personale gusto musicale.

Il suo Concerto per pianoforte, n. 2 op. 102, fu composto nel 1957 per celebrare il diciannovesimo compleanno di suo figlio Maksim, che lo eseguí per il proprio diploma al Conservatorio di Mosca. Shostakovich lo descrisse come un concerto “privo di qualsiasi merito artistico salvifico: un aggettivo tanto più significativo se considerato nell’ottica della sua vita di compositore. Pur non credendo di trovare in esso quella forma di riscatto artistico di cui ha sempre avuto bisogno, le pagine di questo concerto sono fra le più belle e gioiose mai scritte dal compositore, pagine in cui si può leggere l’orgoglio per un figlio che si avvia verso una florida carriera pianistica. Il primo movimento e’ una scherzosa e divertente marcetta in cui il lirismo di semplici temi del pianoforte si alterna a virtuosismi e tecnicismi contraddistinti da ostinati, ottavati ripetuti e veloci scale, in perfetta linea con la forma dello “Youth Concerto”:

L’andante centrale è sicuramente uno dei tempi lenti di concerto per pianoforte più evocativi mai scritti. Il malinconico tema in do minore introdotto in apertura dall’orchestra si apre in un dolcissimo tema in tempo ternario eseguito dal pianoforte nella tonalità parallela (do maggiore), prima di lasciare spazio alla ripresa del tema orchestrale, questa volta eseguito dal pianoforte:

Meno di cinque minuti dopo il tono cambia di nuovo drasticamente per l’introduzione dell’Allegro Finale: apre una veloce polka in 2/4, si passa ad un modulo tematico in 7/8 per finire in un siparietto dall’intento chiaramente parodistico degli esercizi di tecnica dell’Hanon (che il figlio di Shostakovich aveva, come tutti i pianisti, studiato fino allo sfinimento).

Riccardo Sasso

 

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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