L’incompiuto sipario dell’opera italiana

Turandot di Puccini

Autore: Lorenzo Papacci

29 Novembre 2018
«Qui finisce l’opera, perché a questo punto il Maestro è morto»
Con queste arcinote parole, riportate più o meno diversamente, Arturo Toscanini, il 25 Aprile 1926, concluse la prima esecuzione di Turandot al Teatro alla Scala, facendo fermare l’orchestra a quel fatidico Mi bemolle che conclude la scena della morte di Liù. Il Maestro muore e l’opera finisce, ma di quale opera parla Toscanini? Le sue parole appaiono oggi estremamente significative, perché non è solo Turandot, l’opera che aveva tormentato Puccini per quattro anni, a finire, ma l’intera tradizione operistica italiana: infatti, dopo oltre tre secoli di “dominio” assoluto su un genere, in Italia non nasceranno in seguito opere che riusciranno a vincere la sfida del tempo, come invece seppe fare Turandot, pur nella sua incompiutezza. Va da sé che, dal canto suo, Toscanini non mirava a fare previsioni sul futuro dell’opera e voleva solamente sottolineare il punto esatto in cui Puccini morì e interruppe la composizione, peraltro rispettando una precisa volontà dell’artista, come poi vedremo.

Avendo risposto al primo interrogativo, generato dalla frase di Toscanini, se ne apre automaticamente un secondo, ben più interessante e problematico: Puccini lasciò l’opera incompiuta solo a causa della sua morte?

Per rispondere a questa domanda bisogna indagare sulla travagliata genesi dell’opera e addentrarci nelle pieghe della musica di Turandot. Ormai è stato ampiamente chiarito che il lucchese avrebbe avuto il tempo per finire l’opera e leggendo le parole con cui Adorno accolse, o meglio stroncò, Turandot alla prima di Francoforte, possiamo già individuare delle importanti criticità in essa su cui far luce, perché slegate dalla morte del compositore: «Dalla casualità nella scelta dell’argomento, dall’ibrida mescolanza di opera cerimoniale postuma, commedia dell’arte semicosciente e Kitsch lacrimoso emerge con sufficiente chiarezza il carattere dubbio delle sue pretese». Smorzando un poco i toni di Adorno vediamo come, sin dal primo ascolto, egli individui due problemi connessi tra loro, che si riveleranno fondamentali per le conseguenze che ebbero sul lavoro di Puccini: la scelta del soggetto e il «carattere dubbio delle sue pretese». Va infatti notato che il compositore, insieme ai suoi librettisti Adami e Simoni, sceglie qui un soggetto ben diverso da quelli che avevano ispirato le opere precedenti: solitamente Puccini aveva costruito le sue opere su lavori provenienti dal teatro, come la Tosca di Sardou, La houppelande di Gold e la Madama Butterfly di Belasco; oppure da romanzi di grande impatto emotivo come Scene della vita di Bohème di Murger o la Manon Lescaut di Prévost. Questi soggetti hanno in comune quello di raccontare delle tragedie legate all’amore, che spesso risulta quasi come una colpa, un peso, un elemento che porta dolorosamente alla morte e mai al lieto fine. Turandot esula da questo modello, che era stato l’impalcatura stabile dei successi di Puccini fino a quel momento: la fiaba di Gozzi è leggera, burlesca, con un finale d’amore. È una pièce teatrale senza grosse aspirazioni, semplice nella vicenda e con un finale già scritto, che non aspira a travalicare gli orizzonti della fiaba. Già questo è un elemento importante per comprendere meglio la questione e così emerge il primo punto della citazione di Adorno, la «casualità nella scelta dell’argomento», che si ripresenta come una questione di peso.

A questo punto è doveroso capire come Puccini e i due poeti scelsero questo soggetto. La vicenda ci viene narrata dallo stesso librettista, Giuseppe Adami […].

Lorenzo Papacci


Questo testo non è incompiuto, ma è solo un’anteprima dal nostro nuovo numero Storie Incompiute, che è possibile prenotare già qui.

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Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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