Tre giocattoli sonori a chiusura del ReateFestival

Un teatro colmo di spettatori chiude la nona edizione del Reate Festival tra gli applausi fragorosi del pubblico.

Autore: Matteo Macinanti

20 Novembre 2017
Dopo l’esordio del Festival che vi avevamo raccontato qui, torna al Teatro Vespasiano il teatro musicale che parla la lingua del Belpaese. Rota, Menotti e dall’Ongaro sono stati gli ingredienti di una deliziosa serata musicale che ha attraversato tre tappe dell’operetta italiana fra il 1947 e il 2000.
Lo spettacolo è iniziato con l’ “idillio” di Rota La scuola di guida”: questo piccolo quadretto vede come protagonisti una giovane ragazza che si appresta ad ottenere la patente di guida e il suo istruttore. Sulla scena avvincente preparata da Cesare Scarton, le voci di Costanza Fontana e di Roberto Jachini Virgili si intrecciano in un dialogo narrativo che condensa in circa quindici minuti una rapida storia amorosa.
È proprio l’emozione dettata dall’amore di lei — e ricambiata da lui — che conduce i due a urtare contro un albero e a ritrovarsi l’uno nelle braccia dell’altra.
Una sottile linea amorosa conduce il breve tragitto della (forse) futura neopatentata; tragitto nel quale Rota inserisce una musica mai banale, portata avanti da due modi diversi di cantare: una vocalità quasi alla Puccini per quanto riguarda lei, alla quale si oppone un linguaggio musicale più spezzato e frammentario di lui. L’operetta ebbe la sua prima rappresentazione a Spoleto, all’interno della seconda kermesse del Festival dei Due Mondi nel lontano 1959.

La seconda tappa del trittico italiano ha come fermata Il Telefono, o l’amore a tre” di Gian Carlo Menotti. Un’ironica e accattivante opera buffa che si apre con un’ “ouverture” quasi neoclassica — suonata superbamente dalla formazione orchestrale del Reate Festival — all’interno di un segmento abitativo in cui i personaggi presenti sono due, anzi tre: lui, lei e l’iphone
A rendere impossibile il rapporto tra i due fidanzati è proprio quel «mostro stregato» del telefono che, squillando ogni minuto, interrompe la proposta di matrimonio che Ben vuole fare a Lucy. Anche qui è il sentimento amoroso a condurre l’atto unico, ma non è il solo: protagonista della scena è l’allora originale — oggi inveterata — dimensione del virtuale che si sostituisce alla realtà del presente: tra i lunghi gorgheggi di Lucy che richiamano in modo satirico i versi dei “telefonofoni”, l’attenzione è rivolta sempre all’esterno del momento reale, ed è tenuta viva — ma non troppo — dal continuo domandare al mostro chiacchierone: “che fai? che fa?”, in modo stanco e svogliato.
Nel frattempo anche Ben si chiede tra sé e sé cosa fare, dal momento che la sua proposta è continuamente respinta da una nuova chiamata.
I recitativi accompagnati dal pianoforte rendono l’operetta una piccola perla che guarda al passato ma con un argomento e con una scrittura assolutamente moderni e innovativi.
L’atto non può  che chiudersi nel migliore dei modi — lui è costretto a fare la sua proposta per telefono — e i due cantanti, Costanza Fortuna e Patrizio La Placa, lasciano il posto all’ultimo capitolo di questo trittico italiano.

Perché Bach non ha mai scritto un’opera? Ce lo racconta — a modo suo e in modo deliziosamente scherzoso — Michele dall’Ongaro in un breve intermezzo operistico, su libretto di Vincenzo De Vivo, intitolato “Bach Haus
La casa del Kantor è proprio lo sfondo sul quale si dipana la vicenda tra i rimandi alla “Cantata del caffè” e ad altre musiche bachiane, all’inno tedesco, al tema di Scarpia e del Commendatore dongiovannesco, alla Turandot e ad altre citazioni più o meno udibili.
Il pastiche sonoro che ne risulta è del tutto godibile e la scrittura musicale, frizzante e spesso esuberante, è del tutto convincente.
L’intermezzo entra difatti nel salotto del compositore di Eisenach ma anche nella stessa sua testa: la modernità e la genialità di Bach vengono descritti da una musica intradiegetica che simboleggia la fucina dalla quale sono usciti i capolavori del Kantor.
I personaggi sono tre: Bach (Clemente Antonio Daliotti), sua moglie Anna Magdalena (Michela Guarrera) e l’impresario di memoria metastasiana “Nibbio” (Roberto Jachini Virgili). Alle continue preghiere di quest’ultimo indirizzate al compositore affinché scriva un’opera italiana, i coniugi Bach offrono l’arte musicale del loro figlio “Giancristiano”.
L’impresario sconsolato è perciò costretto ad andarsene sconsolato lasciando Casa Bach alle sperimentazioni ardimentose di Johann Sebastian.
La musica è poliedrica e il rendimento di cantanti ed orchestra appare, in tutto e per tutto, all’altezza del materiale sonoro.
Si chiude l’opera, come si chiude il sipario e come si chiude anche questa edizione del Reate Festival che, diciamocelo, non vediamo l’ora di incontrare di nuovo.

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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