La musica, il cuore e i suoi doppi

Musica senza cuore – azione musicale grottesca per attore e strumenti, composta da Fabrizio de Rossi Re su libretto di Francesca Angeli -che lavora inoltre alla regia e ai materiali audiovisivi-, andato in scena al Teatro Argentina nell’ambito del 54esimo Festival di Nuova Consonanza, è anzitutto un lavoro divertente.

Autore: Emanuele Franceschetti

28 Novembre 2017
Ed il termine, pur avendo acquisito nell’uso-abuso quotidiano una connotazione non troppo rispettosa dell’etimo, ci sembra invece appropriato per un lavoro che ripropone materiali di un testo -il celeberrimo romanzo Cuore di Edmondo De Amicis- il cui vero fascino sembrerebbe risiedere, per gli autori, proprio nella sua penetrazione stabile e profonda nell’immaginario personale e nella memoria letteraria di chissà quante generazioni; e, per questo, ancor più meritevole di una rilettura critica e provocatoria. Capace di andare ‘in altre direzioni’ ( di[s] – verto).

Ecco che la carezzevole semplicità e quella “tenerezza soave” che già il Pascoli ravvisava con entusiasmo nel testo di De Amicis, si aprono a rivelare più di qualche ombra e contraddizione, puntualmente messe in luce dalla musica. L’idea di de Rossi Re, che dimostra tutta la sua entusiastica predisposizione al pastiche di stili e citazioni/ammiccamenti più o meno malcelati, sembra essere quella di una drammaturgia orientata al performativo e al partecipativo: non tanto una narrazione musicale autonoma incaricata di interpretare per suo conto i significati del testo (ed a questo sovrapposta), ma quasi una collezione di “forme chiuse” in cui i quattro musicisti (Fabio Battistelli, clarinetto; Gianfranco Tedeschi, contrabbasso; Leonardo Cesari, percussioni; lo stesso de Rossi Re, pianoforte e voce), l’attore David Riondino e la cantante Paola Cacciatori interagiscono senza alcuna separazione tra sistema musicale e scenico-gestuale. Senza che vi sia alcun vincolo biunivoco interprete-personaggio, le voci di Riondino e Cacciatori diventano di volta in volta quelle del protagonista Enrico, di un suo quasi-alter-ego femminile, delle “letterine” materne e paterne tutte cariche di insegnamenti morali ed inquietanti ammonimenti.

Emergono così, dal fondo di un testo familiare ed intoccabile, le ambiguità di una morale classista, di una superstizione religiosa esasperata, di una retorica patriottica e familiarista spesso fuori luogo. Il dramma tutto italiano dei buoni sentimenti mal praticati e male interpretati incontra ora la malinconia tragi-comica di evocazioni schubertiane e chopiniane, ora l’effetto straniante del blues e dei songs, ora persino l’esplosione di alcuni momenti free ( è evidente la familiarità col mondo dei linguaggi improvvisati dei musicisti): il risultato è, quasi “brechtianamente”, di piacevole ed amaro straniamento. E quindi, di riflessione. Le parole di Meierchol’d ci sembrano perfette in epigrafe, anche in virtù della scelta terminologica degli autori (e, crediamo, delle loro intenzioni): “[…] il grottesco approfondisce appunto la vita quotidiana finché essa non smette di rappresentare soltanto ciò che è abituale”.

Emanuele Franceschetti

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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