Il debutto di Sokolov
Autore: Redazione
Quello di Sokolov è un pianismo inviolabile e magnetico (è anche per assecondare questo topos che Sokolov suona quasi al buio, eseguendo tutto in blocco, senza pause e con soluzione di continuità tra un brano e l’altro): una chirurgica precisione nei passaggi anche più rischiosi, una dilatazione a volte esasperata dei tempi tale da mettere in rilievo ogni voce, una delicatezza felina nei pianissimi più impercettibili, un’abilità di ottenere dal pianoforte un’iridescenza sonora (ma che raramente giunge al fortissimo), un virginale fraseggio che rende inaudita ogni nota che tocca; il tutto cementato da una perizia tecnica incorruttibile e maniacale. Il pianista russo, sembra tutto convogliare alla contemplazione del suono in quanto tale che viene trasfigurato, messo a nudo, e presentato nella sua crudità: quasi viviseziona, da buon chirurgo del pianoforte, ogni battuta.
Se il rischio, in tutto ciò, è un lezioso tecnicismo a discapito dell’interpretazione – talvolta pure percettibile – da sottolineare è la piacevole lettura del repertorio haydniano, summa e codice della forma-sonata, nel quale Sokolov ha saputo misticamente fondere il tocco quasi clavicembalistico di certe severe fughe debitrici dei Bach alle atmosfere più squisitamente galanti e spensierate (come quelle dei Minuetti).
Simbolica la scelta di chiusura del programma con l’ultima Sonata scritta da Beethoven, la n. 32, trasfigurato e trasfigurante capolavoro definito da Thomas Mann «meta oltre la quale non era possibile andare»: il canto sospeso e angelico dei trilli finali dell’Arietta, all’estremo acuto, come sospeso e indecifrabile è il canto al pianoforte di Grigory Sokolov.
Mattia Rossi
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