Ut verba intellegantur: la musica della Controriforma

La musica della Controriforma

 

Autore: Alessandro Panozzo

16 Ottobre 2017

Alcuni potrebbero conoscere la leggenda secondo la quale, negli anni turbolenti e tesi delle riforme religiose del XVI sec., il Concilio di Trento (1545 – 1563), interpellato per dirimere sulla salute della Chiesa cattolica, avrebbe voluto abolire la musica polifonica nella messa a privilegio esclusivo del canto gregoriano. Si dice che a intervenire per salvare le sorti della polifonia fu il maestro della cappella papale Giovanni Pierluigi da Palestrina. Si dice che per l’occasione compose una messa che potesse far cambiare idea ai cardinali e ai vescovi riuniti per il Concilio. Si dice che i prelati all’ascolto di tali melodie, avrebbero desistito e permesso che più voci continuassero a risuonare tra le navate delle chiese, tanto da avvalere al Palestrina l’aulico attributo di Princeps Musicæ, e “salvatore della polifonia sacra”. Si dice, ma non è vero.

Palestrina e la Missa papæ Marcelli

La produzione di G. P. da Palestrina può vantare almeno 104 messe da 4 a 8 voci, il più grande numero se si confrontano tutti i suoi contemporanei. La più celebre, la più eseguita e apprezzata, alla quale si attribuisce il merito di aver commosso un’assise episcopale è universalmente riconosciuta essere la Missa papæ Marcelli.

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Le ricerche musicologiche attualmente sembrano attestare la composizione della Missa intorno all’inverno 1562-63, compatibile alle sessioni conclusive del Concilio, ma di fatto non sarebbe mai uscita da Roma. Non esiste alcuna testimonianza che questa messa venne cantata sotto le volte della cattedrale di S. Vigilio a Trento, né tanto meno che la cappella papale (che ne deteneva l’esclusiva) vi si sia esibita. Ben documentata e certa è invece l’esecuzione di un’altra musica. Il cardinale Otto Truchsess von Waldburg, arcivescovo di Augusta, nell’autunno del 1561 diede l’incarico al suo neoassunto maestro di cappella Jacobus de Kerle di comporre delle preghiere per il successo e la felice conclusione del Concilio. Queste Preces Speciales (Venezia, 1562) vennero eseguite ripetutamente a Trento, e (sembra) vennero apprezzate tanto che non è da escludere che il titolo di “salvatore della musica” invece che a Palestrina debba essere conferito a de Kerle. Le dieci preghiere hanno una struttura responsoriale, terminando tutte con dossologia (formule di esaltazione e di lode a Dio: Gloria Patri) e Kyrie. Musicalmente rivelano una certa somiglianza con la deliberata semplicità di alcune messe e mottetti di Palestrina, come si può vedere dall’inizio della sesta preghiera “Pro remissione peccatorum”.

Il motivo per cui, invece, posteriormente sia stata preferita la musica di Palestrina è spiegata dalla stessa origine della messa. Papa Marcello II, al secolo Marcello Cervini, è famoso per il suo breve pontificato: asceso al soglio di Venerdì Santo, il 12 Aprile 1555, vi rimarrà per altri 21 giorni. Alla cerimonia di incoronazione i musicisti della cappella, tra i quali anche Palestrina, ritennero di dover sfoggiare il repertorio più sfavillante nell’intento di far buona impressione sul nuovo papa. L’effetto ottenuto fu invece quello opposto: chiamati in udienza, il pontefice li rimproverò per aver cantato con letizia ed in modo troppo ampolloso il giorno della passione di Cristo, giorno nel quale i canti avrebbero dovuto ricordare la passione ed essere comprensibili. Tale richiamo sarebbe all’origine della Messa di papa Marcello II (non per il papa, dato che non gli è stata commissionata), e dimostra quanta attenzione si andava concentrando attorno alle questioni sull’intelligibilità del testo nel canto. Problema di non banale soluzione, dato che anche in sede conciliare ne verrà toccato il nodo.

Il Concilio di Trento e la musica

Era dal ‘400 che si attendeva un Concilio ecumenico (al quale partecipassero rappresentanti di tutta la cristianità) e venne scelta Trento come ideale città al confine tra Italia e Sacro Romano Impero, un invito alla riconciliazione tra protestanti e cattolici. Invito che però i protestanti non raccolsero, così che il Concilio si risolse di fatto essere un’assemblea interna al mondo cattolico, il quale, oltre a riconfermare i dogmi contestati da Lutero (negando una volta per tutte la speranza di una ricomposizione) si impegnò nel rinsaldare la Chiesa con la disciplina e l’istruzione dei sacerdoti.

Solenne sessione del Concilio di Trento tenuta nella Cattedrale di San Vigilio nel Luglio del 1563.

In arte vennero banditi il lusso, gli inviluppi e le deformazioni del manierismo. Furono proibite immagini di nudi (il Giudizio Universale di Michelangelo verrà coperto con le famose “braghe”), proibite raffigurazioni di eventi non sacri e vagliate attentamente le immagini, che fossero decorose e intelligibili, e che mantenessero quell’importanza didattica – Biblia pauperum – essenziale per accrescere la fede tra gli incolti. In generale ci fu un grande impegno nel creare una sensibile e distinta separazione tra tutto ciò che è sacro e ciò che è profano. Se, come è vero, la Controriforma è stata una risposta della Chiesa in reazione alla Riforma dei paesi tedeschi (di cui abbiamo trattato gli aspetti musicali in questo articolo), essa si pose come scopo precipuo la diffusione della dottrina cattolica romana con i mezzi più persuasivi ed efficaci.

Di musica però in sede conciliare se ne parlò poco e molto superficialmente, affidandosi a generiche “raccomandazioni” più che a vere e proprie imposizioni esplicite. L’unico vago riferimento negli atti ufficiali è un richiamo dall’impurità: “Ab ecclesiis vero musicas eas ubi sive organo sive cantu lascivum aut impurum aliquid miscetur” (“Bandiscano dalle chiese quelle musiche in cui, con l’organo o con il canto, si esegue qualche cosa di meno casto e di impuro”). Quel meno casto e impuro di cui si accenna non trova adeguata spiegazione fino a quando una commissione di otto cardinali non venne convocata nel 1564 – a Concilio concluso – per sorvegliare la corretta applicazione dei decreti tridentini. Tra questi il più intraprendente e solerte esecutore fu il cardinale Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano. Essi raccomandarono edizioni restaurate del canto piano (corrotto dai barbarismi e da secoli di arbitraria fedeltà), ma per la loro arbitrarietà, più che benefici portarono gravi e duraturi danni. Sempre per sceverare la purezza del canto romano vennero eliminate le antichissime tradizioni dei tropi e delle sequenze (da un centinaio ridotte a quattro), visti come incrostazioni medievali da mondare. Per onorare la precisa separazione tra ciò che è sacro e ciò che non lo è si sarebbe provveduto a escludere quelle messe composte sopra tenor e melodie profane, come era in voga nella tradizione fiamminga. Poi, che le parole musicate sarebbero state solamente quelle delle Sacre Scritture, e con non più di un testo alla volta (si eseguivano ancora i mottetti politestuali della polifonia quattrocentesca).

Per capire come dovessero suonare delle musiche di cui si riuscisse a intendere il testo, Borromeo e il card. Vitellozzo Vitelli fecero chiamare nella residenza romana di quest’ultimo, il 28 Aprile 1565, un piccolo numero di cantori per un’esecuzione sperimentale che verificasse “si verba intellegerentur” (se si capissero le parole) di alcune messe. Tra le messe eseguite in questa occasione privata pare che si possa annoverare anche la Missa papæ Marcelli del nostro Palestrina (anche se non esistono prove dirette), ma più interessante ancora, può essere che Borromeo invitò a eseguire anche musiche che commissionò al suo maestro di cappella, esecutore puntiglioso di ogni indicazione del cardinale milanese: una musica “che fosse più chiara che si potesse”.

La musica e la parola

Nel genere delle messe più che altrove si manifestarono le istanze estetiche e liturgiche contro-riformistiche a spese degli indirizzi compositivi tradizionali. Vincenzo Ruffo ebbe in sorte di svolgere per nove anni le mansioni di maestro di cappella al duomo di Milano sotto le dirette dipendenze del zelante Borromeo. Più di tutti gli altri egli si fece interprete del nuovo “stile intelligibile” (termine ricorrente negli scritti dell’arcivescovo), adeguando le richieste alla produzioni di ben quattro raccolte di messe, pubblicate a partire dal 1570, e note anche come “Misse boromeæ”.

Cantus et soni graves sint, pii ac distincti, et domui Dei ac divinis laudibus accomodati, ut simul et verba intellegantur et ad pietatem excitentur.
(“I canti ed i suoni siano gravi e distinti, adatti alla chiesa di Dio e alle divine lodi, onde insieme e s’intendano le parole e s’eccitino alla pietà gli astanti.”)

In tutti i testi ufficiali riecheggiarono queste direttive, ripetute e adattate ai diversi contesti. Contemporaneamente i compositori e i maestri di cappella si affrettarono a render conto nelle loro prefazioni ai volumi a stampa, che le loro messe erano state scritte “secondo la forma del Concilio di Trento” (G. Animuccia, Roma, 1567), “conformi al decreto del sacrosanto concilio di Trento” (V. Ruffo, Venezia, 1574). Palestrina annunciò con il Missarum liber secundus (Roma, 1567) di aver tentato di adornare la messa con una musica di nuovo tipo, “in accordo con le vedute di persone altolocate e devote alla religione”.

L’interesse del cardinale trovò la sua matrice non tanto nel movimento disciplinare di controriforma auspicato dal Concilio di Trento, ma soprattutto in una evidente ripresa di coscienza liturgica ascetica. La musica non doveva essere semplicemente “decorativa”, ma autenticamente “interpretativa” dei testi sacri. Dunque non musica che si giustapponga o si sovrapponga alle parole della liturgia, bensì musica che proponga e commenti i testi liturgici. Il testo aveva un ruolo fondamentale, in quanto anche secondo l’estetica rinascimentale, la musica aveva il compito di rendere manifesto sia il significato generale sia quello puntuale (siamo nell’epoca del madrigale, dove la simbiosi tra parola e musica era diventata talmente stretta che l’una ambiva ad equivalere l’altra). I trattatisti dell’epoca lo evidenziarono:

“… la musica fatta sopra parole non è fatta per altro se non per esprimere il concetto e le passioni e gli effetti di quelle…

(Nicola Vicentino, L’antica musica ridotta alla moderna prattica, Libro IV, cap. XXIX, Roma, 1555).

Per intenderci, la percezione chiara del testo si ottiene difficilmente nello stile imitato, dove lo scarto fra le entrate impone la simultaneità nelle varie voci di parole o almeno di sillabe differenti, anche se appartenenti allo stesso testo. Un esempio lampante lo osserviamo nella prima delle Preces speciales di Jacobus de Kerle, citate sopra:

ad ogni entrata del ‘motivo-parola’ si sovrappone un testo sempre diverso, che a quattro voci poi risulta di ben quattro sillabe pronunciate contemporaneamente, una diversa dall’altra. Sicuramente di non facile comprensione. Il che ci fa sorgere anche il dubbio se sia stata davvero apprezzata l’esecuzione dinanzi al consesso cardinalizio, o se forse, magari proprio questo brano ha fatto sì che poi se ne discutesse in sede. Almeno De Kerle non fu come “quei tali che”, per dirla come il teorico Agazzari (1638): “per comporre i loro capricci, et inventioni, spezzano e storpiano la Sacra Scrittura, prendendo le parole di qua, e di là, con diversione del senso, stiracchiandole a lor fine, senza decoro, né riverenza di essa, non considerando chi parla in essa, né a chi si parla, dal che nascono molte indignità […] per la tanta confusione, e zuppa di parole ne’ loro contraponti, e fughe.

Un altro tipo di scrittura imitativa, però, è quello rappresentato da G. P. da Palestrina, che con la Missa papæ Marcelli, operò una mediazione fra la conservazione dello stile del canto gregoriano (piccoli intervalli fra le note, salti immediatamente recuperati) e una moderata polifonia armonica (oculato uso delle dissonanze e rigetto di qualsiasi elaborazione che possa oscurare il testo liturgico). Il risultato ottenuto fu uno stile dall’eleganza e dalla politezza invidiabili:

Anche qui il ‘motivo-parola’ è ben riconoscibile, e nonostante si sovrapponga ad altre sillabe diverse, la chiarezza della linea melodica e la trasparenza del contrappunto non contraddicono la garanzia di intelligibilità testuale. Ovviamente nel Kyrie il testo è breve e ripetitivo, il che giustifica una maggiore indulgenza imitativa (così come nell’Agnus Dei), viceversa nel Gloria e nel Credo fa un uso più frequente della tecnica omoritmica proprio per la prolissità del testo da cantare.

Un uso pervasivo dell’omoritmia invece, lo farà Vincenzo Ruffo, sempre su richieste del Borromeo. Fu l’unico autore a prestarsi completamente alla soddisfazione di quello “stile intelligibile” che volesse obbedire ai dettami del concilio tridentino. In questo suo esempio, Adoramus te, si può osservare chiaramente:

L’omoritmia prevede, in ogni possibile figurazione ritmica, un andamento comune fra le voci: ciò comporta una sillabazione contemporanea e quindi una percezione nitida del testo. La scrittura è semplice, declamatoria, accordale, con solo brevi e liberatorie concessioni contrappuntistiche a ridosso delle cadenze. Tuttavia, sebbene sia garantita la percezione delle singole sillabe, non sempre l’accentuazione delle parole con la musica raggiunge un risultato ottimale, e quindi poteva capitare che gli accenti forti delle parole non venissero sempre rispettati al meglio.

Un mito duraturo

Nel clima di risvegliata sensibilità umanistica che portò il rinascimento italiano ed europeo alla crescita degli studi filologici, allo studio delle Lettere e degli autori classici, è interessante notare come sia nella Riforma che nella sua corrispettiva risposta cattolica si sia posta grande attenzione al testo. Nei paesi protestanti ha elevato l’uso del volgare, mentre nei paesi cattolici ha indotto la ricerca di un trattamento musicale che ne garantisse l’intelligibilità, paradossalmente lo stesso che poi venne adottato nella armonizzazione dei corali luterani: un’accordalità verticale, omoritmica, che scandisce ogni sillaba del testo, con poche concessioni a passi polifonici. In fondo, i compositori delle chiese riformate, accentuando l’importanza della parola liturgica e consentendo a ogni comunità di cantori o di ascoltatori di comprenderne tutto il significato, mettevano semplicemente in pratica uno dei principi fondamentali della loro convinzione religiosa.

A parte il caso – unico – di Ruffo, la riforma cattolica in ambito musicale fu molto più marginale di quanto si possa ritenere: ogni cappella aderì in maniera diversa, o non vi aderì affatto. Inoltre, le scuole regionali erano molto gelose delle loro tradizioni (basti pensare alla scuola veneziana e alla scuola romana), e poco inclini a cedere il passo a queste nuove direttive. Alcune cappelle, come per es. la cappella mantovana dei Gonzaga, erano addirittura dotate di una loro autonomia, e rispondevano alla famiglia reggente, della quale seguivano il gusto musicale: gli anni in cui Palestrina venne chiamato a comporre le messe mantovane (dal 1568 al 1587) si fece dire esplicitamente se i committenti volessero un tipo di messa “o breve, o longa, o che si sentan le parole”. Il tentativo, quindi, di uniformare la musica nel rito liturgico non trovò che sporadiche applicazioni.

Il mito duraturo della Missa papæ Marcelli e dello stile palestriniano finì a posteriori per rappresentare il modello delle intenzioni tridentine, anche se solo parzialmente il suo raffinato equilibrio e la sua poetica del “bene ornateque loqui” (“discorso ben ornato”) poterono essere riconosciuti come suoi legittimi frutti. Il suo stile verrà assunto, poi, come lo stile di un’epoca (uno dei tanti, in verità) e insegnato nelle scuole: Johann Joseph Fux nel suo Gradus ad Parnassum (Vienna, 1725) chiama “stile alla palestrina” il suo contrappunto delle specie, noto ancora oggi per essere usato come esercitazione propedeutica alla polifonia rinascimentale. Fu Giuseppe Baini, maestro della cappella papale e primo biografo autorevole del Palestrina, a raccogliere notizie e racconti sulla sua vita. Nelle Memorie storico-critiche della vita e delle opere di Giovanni Pierluigi da Palestrina (Roma, 1828), ne discute le fonti e ragiona sulla veridicità della leggenda, a detta di alcuni alimentata dallo stesso compositore, senza però smentirla completamente.

La fama della Missa è comunque ben meritata, e delle diverse soluzioni proposte per piacere alle richieste di una musica decorosa e intelligibile, la giusta via di mezzo, aurea mediocritas, tra un contrappuntismo imitativo sfrenato e una verticalità a blocchi, è indubbiamente rappresentata dalla musica di Palestrina. Una musica che soddisfacesse il desiderio dei Santi Padri conciliari di mostrare l’immagine di una chiesa rinnovata e sicura, e che facesse sì che i fedeli gustassero Dio con tutti i loro sensi.

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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