La pazzia di Lucia di Lammermoor

Autore: Silvia D'Anzelmo

5 Luglio 2017
Amore e odio, passione e potere, femminile e maschile realtà in dialogo tra loro ma difficilmente conciliabili pacificamente a meno che uno dei due non faccia un passo indietro; ma a chi tocca farlo? Nell’Ottocento, di sicuro, l’universo femminile era più malleabile e pronto a recedere, almeno in apparenza. Cosa succede, però, se l’universo femminile decide di non sottomettersi silenziosamente? Quali possono essere i segni di questa mancata obbedienza? Come sempre l’arte riesce a far emergere lati in ombra, segni che sembrano poco chiari ma che si cristallizzano in maniera eloquente per chi sa osservare e ascoltare. La scena di pazzia della Lucia di Lammermoor donizettiana ci presenta un esempio del tentativo di difesa, da parte della donna, dei propri sentimenti e della propria identità contro la logica del potere dell’uomo. Come va interpretato questo risultato? Nella sua tragicità, può essere inteso come un elemento positivo oppure deve essere considerato, in ogni caso, una sconfitta? Tante sono state le interpretazioni di questa famosissima scena divenuta il punto focale dell’opera.

Innanzitutto bisogna considerare, seguendo i percorsi della studiosa Romana Margherita Pugliese nel saggio “The origin of Lucia di Lammermoor’s cadenza”, che inizialmente la scena era ben diversa da quella che noi oggi conosciamo. Nell’autografo donizettiano, conservato nella Biblioteca Angelo Mai di Bergamo, troviamo solo un breve schema armonico mentre il resto è affidato all’improvvisazione della cantante; la cadenza con flauto, i virtuosismi, la floridità vocale, sono elementi che scopriamo solo inseguito mentre, nel primo periodo in cui l’opera circolò, la scena di pazzia era considerata già molto difficile per via della recitazione ma non tra le più affascinanti e coinvolgenti.

Secondo Pugliese questo accade perché la rappresentazione della follia femminile non si accorda con quello che il pubblico si aspettava: agli inizi dell’ottocento la donna era vista come un essere candido dalla purezza virginale, le eroine romantiche dovevano essere degli idoli venerabili per le loro impeccabili virtù, erano visioni angeliche che non avevano nulla a che fare con la violenza. Lucia, invece, nella scena che precede la pazzia, uccide lo sposo durante la loro prima notte di nozze: ella si è mostrata violenta, è pericolosa, non può piacere al pubblico che ha un ideale di donna come angelo del focolare.

Nella prima versione dell’opera la scena della pazzia non è enfatizzata, non ha nulla del virtuosismo esasperato che conoscerà solo più avanti quando, nel 1889, al Palai Garnier, Nellie Melba interpreterà la “sua versione” della scena di pazzia. Le ci vollero dieci giorni di prove per preparare perfettamente i virtuosismi della sua cadenza “pirotecnica” ma alla fine, la rappresentazione fu un successo strepitoso: la sua versione ebbe la meglio, tanto che, nel 1893, oramai era divenuta la famosa “cadenza con flauto”. Questa trasformazione della scena di follia è emblematica dei cambiamenti avvenuti durante il XIX secolo: Lucia passa dalla folle par amour del primo ottocento all’isterica di fine secolo sull’impronta degli scritti sull’isteria che proprio in quel periodo stavano proliferando.

Il medico della Salpetrière, Jean-Matin Charcot, trasformò il fenomeno dell’isteria in un vero e proprio spettacolo, egli effettuava le sue visite davanti a un folto pubblico per dimostrare come la sensibilità delle ovaie fosse la causa dell’isteria: e quel “folto pubblico” che assisteva era lo stesso che affollava i teatri per vedere l’opera. Charcot e il suo collaboratore Paul Richer stilarono un vero e proprio canone dell’isteria che si avvicina molto a quella che è la descrizione del comportamento di Lucia fatta dal librettista Salvatore Cammarano.

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I primi sintomi dell’insorgere dell’isteria riguardano la confusione accompagnata da allucinazioni, che ritroviamo puntualmente nella cabaletta “Regnava nel silenzio” cantata da Lucia nell’atto I dell’opera; il secondo sintomo della condizione pre-isterica comporta pallidezza del volto e sguardo smarrito che anticipano lo squilibrio mentale: è il caso del II atto, a seguito del violento trauma dovuto alla notizia (falsa) del tradimento del suo amato Edgardo; a questo punto insorgono le allucinazioni e l’attacco d’isteria vero e proprio che corrispondono alla scena di pazzia nell’ultimo atto.

La Pugliese vede nelle visite mediche e nell’attenzione posta alla condizione isterica come prettamente femminile, una forte influenza sul pensiero della società tanto da cambiare l’immagine stessa della donna: il candido angelo del primo ottocento si trasforma in femme fatale e questo si ripercuote non solo nella concezione ma anche nella rappresentazione della figura femminile. Le opere della fine dell’ottocento portano in scena esempi contrapposti come la focosa Carmen e l’angelica Micaela oppure donne tentatrici e isteriche come nel caso di Anita ne “La Navarraise”.

Lucia ha attraversato il secolo e si è evoluta adattandosi a quella che è la nuova visione della donna e il nuovo gusto vocale: la sua parte verrà interpretata da soprani leggeri, come la Melba, e infarcita di virtuosismi sconosciuti ai soprani d’agilità che l’avevano interpretata nelle prime rappresentazioni. Questi eccessi vocali possono essere visti come “la caduta nel parossismo della fioritura”, la manifestazione della malattia, della mancata sanità mentale della Lucia interpretata dalle cantanti di fine secolo. Sono le stesse donne, quindi, che cambiano l’interpretazione della difesa di Lucia dal mondo maschile aumentandone l’aggressività e la carica erotica, inesistente nelle prime rappresentazioni. La follia spinta al parossismo diviene forma di ribellione per l’universo femminile anche se tacciata di “malattia” in modo da essere percepita negativamente e quindi facilmente arginabile per una società che doveva avere tutto sotto controllo.

La follia diviene un’arma a doppio taglio, positiva e negativa a seconda della prospettiva da cui la si osserva; secondo la studiosa Chaterine Clément la pazzia e il virtuosismo vocale devono essere visti come elementi positivi: un balzo nel vuoto, una libertà priva di struttura e costrizioni in cui la donna ha la possibilità di essere felice. All’inizio della scena di pazzia, Lucia appare come una sposa che si appressa all’altare scortata dal suono dolce e melanconico del flauto: ella ritrova il suo amato Edgardo, la sua primavera e la sua felicità ma, a un tratto, tutto si trasforma e Lucia si smarrisce tra le allucinate visioni, perde il filo di Arianna; il racconto si ferma, la razionalità cede all’emotività e la voce si spinge verso l’alto fino all’eccesso per ritrovare quel filo che guida il suo sogno divenuto oramai vita: Lucia canta finalmente il suo duetto d’amore con un immaginario Edgardo, balla con lui, con lui si sposa concretizzando i suoi desideri e la sua felicità; Per la Clèment la voce delle donne folli canta la perfetta felicità, per lei, la pazzia è uno dei pochi mezzi attraverso il quale un’eroina può scappare dalla seduzione o dalla morte, quindi, è un processo tutt’altro che negativo.

Molti studiosi e critici letterari femministi, in America, hanno inteso la pazzia come atto di rabbia creativa della donna contro la società patriarcale e repressiva ma, non tutti concordano con questa visione. Susan Mc Clary, ad esempio, riconosce una certa forza positiva nella pazzia e nella morte delle eroine dell’opera: il vocalismo di Lucia non si lascia imprigionare dalle strutture codificate dell’opera, il cromatismo e la coloratura diventano una potenziale eruzione di minacciosa energia erotica; questa forza però, secondo la Mc Clary, non è abbastanza per sovvertire la struttura in cui è inserita, anzi, essa diviene oggetto di consumo per l’ascoltatore; il coro, infatti, circoscrive e contiene la forza irrazionale della pazzia di Lucia creando un collegamento meno dirompente con il pubblico.

La necessità di contenere la forza incontrollabile della pazzia è qualcosa che si ritrova, non solo nelle opere, ma anche negli scritti degli studiosi di isteria ottocenteschi; Charcot e Siegmund Freud vedono la pazzia come manifestazione della sessualità misteriosa e quindi anche minacciosa della donna: l’isteria diviene qualcosa di prettamente femminile, come si nota nelle manifestazioni artistiche della pazzia. La donna affetta da isteria è presentata al centro circondata da un “coro” di spettatori sani di sesso maschile, solitamente rappresentata discinta e scarmigliata tanto da creare un nesso tra pazzia e disinibizione sessuale: la donna “pazza” diviene un caso da osservare con curiosità, da studiare dalla comunità degli uomini sani per tentare di contenere la sua forza irrazionale.

Secondo la studiosa Mary Ann Smart, la fuga di Lucia è possibile e credibile solo grazie a delle forze che circoscrivono la sua forza irrazionale; ella analizza le cornici, i vincoli creati dalla trama e dalla rappresentazione visuale per discutere la “resistenza” di Lucia.  Secondo la Smart, la prima limitazione alla libertà del personaggio di Lucia è rappresentata dalla trama del racconto che la trasforma in un pupazzo in balia della volontà dei tre personaggi maschili che le si contrappongono: il fratello Enrico che rappresenta l’autorità paterna, il suo amante Edgardo e lo sposo Arturo.

Lucia sacrifica se stessa per l’onore familiare, la leggere paterna si oppone alle emozioni femminili e crea un vincolo tanto forte da convincerla a non seguire i suoi desideri poiché “innaturali”: una fanciulla docile e ubbidiente a un primo sguardo ma, se la confrontiamo con il suo corrispettivo letterario, ci rendiamo conto della differenza. La Lucia Ashton di Walter Scott è una semplice pedina nei piani della famiglia mentre quella donizettiana ha una maggiore personalità che le deriva dal canto: ella resiste con la voce. La presenza della musica crea un cortocircuito, l’eroina ha una possibilità di fuga impossibile al corrispettivo letterario ma, al tempo stesso, effimera: quel salto liberatorio della voce, in realtà, non avviene in un vuoto ma nella forma tradizionale dell’opera italiana, nella struttura armonica che limita la libertà espressiva di Lucia.

Un altro freno alla libertà di Lucia, analizzato dalla Smart, è rappresentato dal corpo cioè dalla sua rappresentazione in scena: Lucia prova a difendersi non solo con la pazzia ma anche attivamente e, per questo, è pericolosa e deve apparire in scena circondata dal coro e affiancata dall’ancella Alisa. La cornice fatta dal coro, prima che Lucia cominci i suoi vaneggiamenti, circoscrive la sua forza vocale ponendo l’attenzione sulla sua presenza fisica in scena: tutto il coro e il pubblico sono rivolti a fissare Lucia che a sua volta risponde allo sguardo (“ella in me le luci affisse”), una trasgressione accettabile solo da figure liminari della società e cioè le pazze e le prostitute.

Passando alla vocalità: la Smart si rende conto che è quasi automatico collegare la coloratura vocale alla follia, che i melismi, liberando la musica dal peso del testo, la collocano in un contesto alogico e irrazionale; a questo punto, ella si chiede se bisogna interpretare la coloratura come un segno di allarme, di irrazionalità e di follia. La Smart non crede che la floridità vocale della scena di pazzia sia il simbolo inequivocabile dell’irrazionalità, per lei rappresenta semplicemente un modo di cantare tipico dell’ottocento tanto che gli stessi elementi vocali li ritroviamo in altre sezioni dell’opera affidati non solo al personaggio di Lucia.

La coloratura non giunge mai  a stravolgere il significato testuale né a rompere la struttura formale della scena: è il suo trattamento eccessivo e sconvolgente che dà l’idea della pazzia in una scena altrimenti serena e calma. In accordo con Romana M. Pugliese, la Smart sostiene che l’aspetto assunto dalla coloratura nella scena della pazzia dipende dal contesto storico e musicale; ella sottolinea, come pure la Pugliese, che non fu Donizetti a pensare la scena così com’è ma che quest’ultima cominciò ad essere forzata da metà ottocento in poi e che l’effetto sconvolgente deriva dall’esagerazione di tutta una serie di elementi.

La coloratura che è stata interpretata come resistenza proto-femminista di Lucia, in realtà, va analizzata in maniera più approfondita per capire effettivamente come vada intesa questa opposizione alla forma. Nella scena di pazzia si ritrovano delle “distorsioni” nella forma, delle ambiguità nella transizione tra la scena e il tempo lento che possono essere intese come la perdita, da parte di Lucia, del controllo sul discorso razionale o suggerire una temporanea liberazione dalla struttura formale dell’aria; questo accade non solo nella scena di pazzia ma anche nel I atto, nella cabaletta “Regnava nel silenzio” ritroviamo una forte ambiguità formale. Mentre il testo rispecchia la solita forma in due strofe, una dedicata alla descrizione e l’altra all’azione, la musica non si comporta come dovrebbe: l’arpeggio del clarinetto che accompagna la voce di Lucia sembra più adatto a una sezione strofica che non a un’aria bipartita e questo perché Lucia non riporta semplicemente ciò che ha visto ma prende le redini del racconto mescolando passato e presente, ciò che ha visto e quello che ha sentito dentro di sé.

Questa irrazionalità, però, non viene intesa positivamente dalla studiosa che vede Lucia sconfitta dalla trama e dalla musica; nella scena di pazzia, i tre temi di reminiscenza -“Regnava nel silenzio”, “Spargi d’amaro pianto” e quello che accompagna il suo matrimonio con Arturo- si ripresentano e si oppongono a Lucia che non può difendersi perché assediata dal passato: neanche le stravaganze della sua vocalità possono aiutarla, tanto che nell’ultima scena ella rimane per sempre muta senza potersi chiarire con Edgardo. Le campane siglano il suo silenzio mentre Edgardo diviene il protagonista della scena e muore gloriosamente cancellando ogni ricordo della vocalità di Lucia.

Probabilmente Lucia non esce vittoriosa dal suo scontro con l’universo maschile ma, ad ogni modo, diviene emblema di resistenza attraverso la vocalità e lo stato di alterazione psichica; le trasformazioni della scena di follia durante il XIX secolo sono proprio l’emblema di come la donna, inserita in quel circuito mentale, vedeva l’isteria come scarica liberatoria che si esplica musicalmente in complessi vocalizzi.

Silvia D’Anzelmo

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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