Jakob Lenz di Wolfgang Rihm, la musica ‘all’indicativo’

Considerare con la giusta attenzione lo Jakob Lenz, ‘Kammeroper’ di Wolfgang Rihm –di cui si è già trattato su queste pagine– impone uno sguardo elastico, di lunga gittata, ed un’operazione di indagine piuttosto articolata: diamo subito, pertanto, delle coordinate precise, per meglio maneggiare la nostra materia, che vedremo subito configurarsi come un ‘luogo’ di interazione tra soggetti, epoche, contesti, linguaggi, tutti piuttosto cronologicamente distanti tra loro. E tutti, a un livello più profondo, suggestivamente legati. 

Autore: Emanuele Franceschetti

9 Giugno 2017
Procediamo con ordine. Jakob Lenz: chi era costui? Nato nell’allora Livonia (l’attuale Lettonia) nel 1751, e scomparso prematuramente a Mosca nel 1792, il quasi coetaneo di Mozart era stato celebre e significativo poeta, drammaturgo e teorico del teatro, tra i maggiori rappresentanti della corrente Sturm und Drang. Organico alla cerchia di Goethe, e da questa stessa allontanato per motivi concernenti ben poco le humanae litterae, si era reso importante portavoce delle istanze di rinnovamento estetico e formale, che andavano in quegli anni agitando gli ambienti letterari. Shakespeareano militante, avverso ai precetti classici delle unità aristoteliche e alle regolarità dello stile e della forma, con i suoi Il precettore (dramma del 1774), con la commedia I soldati (1776) e con le sue Riflessioni sul teatro (1774) aveva affidato alla storia la testimonianza concreta di un apprendistato letterario e di una cifra letteraria e spirituale purtroppo limitata e compressa nella sua ‘breve’ esperienza terrena. Colto da una malattia mentale sempre più invalidante, si era visto costretto a ripiegare in Alsazia, alla ricerca di una ‘pace terapeutica’ sotto il magistero del pastore Oberlin, rivelatosi poi vano. Ormai preda della sua crescente follia, senza più la speranza del conforto della natura e di Oberlin, avrebbe perso la vita a Mosca, poco tempo dopo, in circostanze mai del tutto chiarite. Poco meno di mezzo secolo dopo, il misterioso e suggestivo epilogo della vicenda di Lenz, mediato attraverso le stesse carte dei diari vergati dal pastore che l’aveva avuto in affido, diventa ‘materia letteraria’ per l’unico, breve testo in prosa di un’altra stella isolata di lingua tedesca: Georg Büchner (1813 – 1837). I due risultano, a rileggerli ‘da lontano’, evidentemente legati da una comune sensibilità, da un filo rosso sotterraneo. Entrambi scomparsi precocemente, entrambi consapevoli portatori di un’autonomia estetica e intellettuale , entrambi drammaturghi, entrambi ‘ostili’ ad essere inquadrati in toto in questo o quel movimento letterario. Il giovane e precoce scrittore Georg Büchner, dedito contemporaneamente alla ricerca medica e all’attivismo politico, entra in contatto con i diari del pastore nel 1835, nel pieno del triennio (1834-1837) quasi interamente dedicato alla letteraratura, che la scomparsa per febbre tifoide stronca nel pieno della sua vivacità. Büchner, oltre all’affinità elettiva, fa proprie anche le cifre principali della scrittura e dell’estetica lenziana: atteggiamento anti-classicista e piena fede nel modello ‘totalizzante’ shakespereano; narrazioni costruite assemblando scene isolate, prediligendo la frammentazione alla linearità; ricerca, in ultimo, di quel ‘realismo drammatico’, parimenti distante dai rigori classici che dalle poetizzazioni romantiche. L’assunto è semplice: la natura non può essere imitata, né migliorata. Ciò che il poeta può fare, è tentarne una ‘pittura’ quanto più possibile fedele al reale: in questo, i mezzi di Büchner saranno ben più audaci di quelli di Lenz. La breve narrazione che Büchner offre del declino di Jakob Lenz nella novella, è proprio giocata in equilibrio tra tali antinomie: se Büchner cerca di ‘ritrarre’ Lenz nella maniera il più possibile realistica e fedele ai fatti, riesce in egual modo a tratteggiare una personalità inquieta, spalancata sull’abisso. Büchner accumula e dispiega, lungo il racconto, l’urgenza dei moti profondi dell’animo di Lenz e il suo inutile vagabondare, cercando di articolarli con la lucidità di un referto clinico, cui affida la vera e propria ‘fenomenologia’ della crisi psichica del poeta.

I tre drammi di Buchner –La morte di Danton, Leonce e Lena e il celeberrimo Woyzeck– , oltre al Lenz, godranno di una fortuna smisurata anche se tardiva, a partire dall’ultima decade del diciannovesimo secolo e, in particolar modo, lungo tutto il Novecento. Il secolo delle avanguardie riscoprirà nella pagine di Büchner un proprio coetaneo, un proprio consanguineo, una voce quanto mai moderna, attuale. Zola, Rilke, Hauptmann, Max Reinhardt ,solo per citarne alcuni. L’ambiente naturalista prima, quello espressionista poi. Le consonanze con l’opera büchneriana vengono avvertite sempre più di frequente, ovunque col medesimo vigore. E non solo in ambienti letterari. Molto di tale renaissance è ben noto a chi si occupa di musica, e pur non essendo questa la sede deputata per uno studio dedicato approfonditamente a Büchner e i musicisti, basti ricordare il Wozzeck (1925) di Alban Berg, che sancisce la penetrazione a pieno titolo della poetica del drammaturgo assiano anche nell’immaginario dei compositori. E proprio ad un compositore, muovendo da tale necessaria ‘sinossi’ introduttiva, rivolgiamo ora la nostra attenzione.

Appena venticinquenne, ma già entrato a pieno titolo nel novero dei compositori più promettenti formati tra le file della seconda avanguardia, Wolfgang Rihm sceglie come materia letteraria per la sua nuova opera proprio la breve novella di Büchner del 1835, fulminante fotogramma del declino psichico di Jakob Lenz. Tale partitura, riteniamo, deve essere colta, nel suo profilo drammaturgico e nei ‘motivi’ poetici da cui muove, come un’interazione a tre, quasi ci si trovasse di fronte un gioco di scatole cinesi. Mettendo mano alla novella büchneriana, coadiuvato dal librettista Michael Fröhling, Rihm compie così un ‘doppio’ recupero: il poeta livone dello Sturm und drang viene qui ri-evocato proprio grazie all’ ‘intercessione’ del lavoro di Büchner, che si rende medium narrativo; entrambi, Büchner e Lenz, diventano nell’opera di Rihm come un grido lontanissimo, liberato dall’impedimento del tempo e riportato alla luce e all’ascolto collettivo. Il lavoro, composto tra il 1977 e il 1978, e rappresentato per la prima volta allo Staatsoper di Amburgo nel 1979, è concepito come ‘opera da camera’ –in riferimento al tipo di ensemble prescritto-, e suddiviso in dodici quadri e un epilogo. Gli accadimenti, esattamente come in Büchner, sono quasi inesistenti: il sipario si apre nel pieno della crisi nevrotica di Lenz, e tutte le scene non sono che ‘stazioni’, ‘dilatazioni’, di un unico motivo germinale, quello della follia. I piccoli movimenti e le piccole azioni non hanno alcun significato all’interno di un meccanismo narrativo praticamente assente: ogni scena, a partire dalla prima, contiene già tutto il nucleo drammatico, concentrato nel declino psichico di Lenz e da questo stesso gridato ‘all’esterno’, con l’evocazione di voci ossessive, fantasmi-proiezioni della sua mente ormai irrimediabilmente turbata. . Gli unici ad ad interagire con Lenz sono Oberlin, che fa del suo meglio per avvicinarlo alla pace tramite la preghiera e la predicazione, e lo scrittore Kaufmann. Con il quale, nel testo originario di Büchner, Lenz intratteneva un breve dialogo sull’arte, celebre proprio per la sua funzione di dichiarazione di poetica di Lenz, e -indirettamente- di Büchner stesso. Kaufmann, nella partitura di Rihm,  tutt’al più un personaggio irridente e sgradevole, col quale il poeta non riesce affatto ad interagire in maniera costruttiva. Nulla, insomma, sembra poter alleviare il delirio di Lenz: nemmeno quella Friederike, (storicamente corteggiata sia da Lenz che da Goethe. A proposito di motivi di dissidio tra i due..) continuamente rimpianta ed evocata, ma presente in scena solo sotto forma di ossessione, di ombra.

Consideriamo ora qualche elemento strutturale e drammaturgico. Anzitutto: l’opera ha forma frammentata e articolata per brevi ‘fotogrammi’ giustapposti, paradossalmente persino invertibili o rimescolabili, evidente ‘traccia’ della lezione di Büchner (Woyzeck) e dello stesso Lenz. Nonché, naturalmente, del Wozzeck berghiano. E ancora (non possiamo che procedere per ‘punti’, per ovvia necessità di sintesi!): Rihm utilizza tutta la tavolozza delle possibilità vocali per il ‘suo’ Lenz, dal parlato, all’urlo, all’intonazione ‘lirica’, allo sprechgesang di schoenberghiana memoria. L’intera gamma degli affetti è esperita attraverso tutte le possibilità della voce: anche qui è evidente la lezione di Berg, che nel 1925, parlando del suo Wozzeck, difendeva l’idea che il teatro musicale fosse ancora ‘al servizio della voce umana’. Posizione che, se per Berg significava una energica dichiarazione di rivalsa verso chi considerava distruttiva e ‘degenerata’ la nuova atonalità, per Rihm diventa una scelta quasi in controtendenza, in anni non certo luminosissimi per il teatro musicale e per la legittimità del concetto di stesso di espressività. Un occhio all’utilizzo dei materiali musicali: Rihm, nella sua libera a-tonalità, mai (in questa partitura) abbinata a ‘macchinazioni’ dodecafoniche, fa spesso uso di materiali ricorrenti. Si consideri, su tutti, il primissimo accordo ad apparire, da subito e sempre associato a Lenz, una sovrapposizione di quinta diminuita e semitono (Si/Fa/Sol bemolle):

Tale accordo viene continuamente riproposto, ma non in senso ‘leitmotivico-wagneriano’. Viene invece scomposto, sbriciolato, reso irriconoscibile e via via legato al contesto timbrico, situazionale, come in questo frammento in cui è distribuito alle voci del coro, che rappresentano –come già detto- una proiezione dell’inconscio di Lenz, che non necessita di essere rievocato da un motivo identificatore, proprio perché pervade già di sé l’intera partitura.

Citazioni e riferimenti (l’uso di un clavicembalo in momenti di quasi ‘vecchio-recitativo secco’, reminiscenze tonali, indicazioni espressive con riferimento al Lied, una dichiarata citazione schumanniana, solo per citare alcuni casi) non sono utilizzati da Rihm col fine del pastiche, della giustapposizione di materiali: sono invece scelte dettate sempre da fini narrativi. Il motivo del violoncello inserito da Rihm nella settima scena (si badi: ad accompagnare voci di bambini, sempre e ancora proiezioni della psiche di Lenz) è ripreso esattamente dalla dodicesima scena d’infanzia di Schumann.

Sembra una chiara traccia dell’associazione, operata da Rihm, tra il sonno della giovane creatura di Schumann e il ‘sonno’ della ragione del poeta Lenz. Un abbandono, insomma, un oblio evocato anche tramite la reminiscenza di un universo poetico ormai perduto per sempre, richiamato con una citazione pianistica d’epoca romantica, certo più vicina allo Jakob Lenz storico di quanto non lo fosse Wolfgang Rihm. Il precipizio in cui Lenz si trova non ha bisogno di attraversare chissà quali itinerari e saliscendi. E’ già nel suo apice, lì dove lo spettatore lo sorprende all’inizio dell’opera ed esattamente lì dove, dopo dodici brevi stazioni di una via crucis della ragione, il poeta si congeda dalla scena e dalla partitura. I tentativi di ammansirlo e di ristorarlo con la preghiera da parte di Oberlin non sono valsi a nulla. Lenz evapora via dalla scena, quasi come se il suo martirio dovesse proseguire altrove, lontano dallo spettatore. Musicalmente, Rihm costruisce un climax discendente per la conclusione del lavoro. Lenz pronuncia, prima gridando e poi, via via, svanendo in un soffio di voce, sempre più esile, ripetendola per ben sedici volte la parola konsequent (conseguente), mentre l’orchestra, in pianissimo, muore sullo stesso accordo ascoltato in apertura e sempre associato a Lenz. Il riutilizzo del materiale ha ancora una volta una funzione di logica costruttiva e narrativa: un suono che muore –così come era apparso- senza che la dissonanza e la tensione lì contenuta trovino alcuna risoluzione. Una definitiva negazione del senso che accompagna il bisbiglio finale del poeta.

In questo lavoro di Wolfgang Rihm ci sono, condensati mirabilmente, i motivi ricorrenti –non quelli musicali, stavolta- ‘principali’ della sua ispirazione. Motivi che spesso, grazie anche all’attitudine di Rihm a scrivere di sé e della propria musica, sono stati da lui stesso palesati. Due, in particolare, ci sembrano significativi. Il primo, più efficace se lasciato nel suo idioma originale, in tedesco: Nachleben. Il perdurare, la persistenza di una tradizione, che viene ripensata, ri-collocata, ma che il compositore non deve negare, distruggendola: deve invece considerarla la propria storia, l’insieme dei codici cui attingere. In Rihm, come abbiamo visto, la storia parla, sopravvive, manifesta tracce di sé. Tanto nei personaggi e nelle fonti letterarie scelte, quanto nei modelli musicali di cui le sue opere palesano l’influenza. Senza che questo diventi scimmiottamento, retour à.., o imitazione. Il fare musica di Rihm è –come lui stesso ha ribadito più volte- un ‘fare musica all’indicativo’. Come interpretare quest’espressione, è un rischio che scegliamo di cogliere volentieri: una musica assertiva, consapevole della propria lingua e delle proprie capacità espressive, dei propri tumulti. Ostile alle etichette e alle classificazioni, così come alle (sterili) severità di certe avanguardie.

lasciar germogliare la conoscenza, dimenticare in quanto parte integrante del
sapere, sottomettersi a una nuova costellazione, slegare, conoscere, sciogliere,
fraintendere- tutto questo delinea all’inizio del lavoro artistico una rete di relazioni e
tensioni dalla quale si innalza una disposizione creativa: una sostanza di possibilità
direzionali costantemente in movimento, oscillante

 Emanuele Franceschetti

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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