Contemporanea VS Elettronica: Capitolo Primo

Autore: Gabriele Toma

26 Giugno 2017
Questa definizione di musica appare ad oggi l’unica capace di rendere pienamente comprensibili quelli che sembrano gli universi musicali dominanti nell’ambito della musica cosiddetta “colta”. I due differenti modi d’intendere la sperimentazione in seno all’arte musicale, che rappresentano i poli attrattivi di questo trittico di articoli, sono gli universi della musica strumentale contemporanea e quello della musica elettronica, lo stesso Berio si dedicò infatti ad entrambe.

Per esplorare al meglio questi campi, ho deciso di instaurare un dialogo franco e diretto con chi, della mia generazione, ha trovato nella musica il proprio sentiero, con particolare attenzione alle problematiche concrete che un musicista incontra, oggi più che mai, in questo arduo cammino. Tale dialogo/intervista sarà articolato in tre capitoli: rispettivamente sulla Contemporanea, sull’Elettronica e sulle analogie tra i due generi, nei quali la discussione si dipanerà attorno al fil rouge della sopracitata intervista a Luciano Berio.

I due mondi, che qui ci proponiamo di analizzare attraverso, ripetiamolo, testimonianze dirette di giovani musicisti, sono incarnati da Francesco Rizzo, 27 anni, laureato al triennio di musica elettronica e tuttora studente, sound designer, fonico e produttore, e Daniele Ciminiello, 26 anni, laureato in Pianoforte e in Composizione e tuttora frequentante il corso di alto perfezionamento tenuto dal M° Ivan Fedele presso l’Accademia di Santa Cecilia a Roma. Ragazzi spaventosamente preparati verso cui nutro profonda e sincera stima che ho avuto la fortuna di conoscere in quel di Lecce.

Il loro apporto, per i quali li ringrazio, oltre a rispecchiare lo spirito giovanile che anima la nostra rivista, ci consentirà di far conoscere a una parte del grande pubblico questi due universi estetici, spesso ignorati, e di fare luce sui frequenti pregiudizi e cliché che allontanano gli ascoltatori, uno su tutti la tanto criticata definizione di musica “colta”. In questo capitolo iniziamo da Daniele.

Ciao Daniele, dovendo dare una definizione del tuo universo musicale da dove partiresti?

Rinchiudere tutto ciò che mi circonda in categorie e appiccicare un’etichetta a ciascuna di loro è un atteggiamento che non mi appartiene. Il mio universo musicale comprende interessi molteplici che incarnano i miei tanti punti di vista sul mondo, spaziando dai grandi classici che ho studiato nei miei anni di formazione alla musica etnica, dalla musica medievale al blues, dal melodramma al rock, dalla musica contemporanea al jazz.

Mi ritengo curioso di tutto, esperto di nulla. Spesso, per farmi comprendere, sono costretto a utilizzare l’aggettivo “contemporanea” per definire il genere di musica “colta” che si scrive oggi. Quante cose saranno venute in mente al lettore con questo termine: dissonanza, “effetti strani”, incomprensibilità, tutto ciò che converge nell’espressione vernacolare “famolo strano” con cui spesso viene percepito questo mondo.

C’è sicuramente un primo grado di percezione che si sofferma sull’esteriorità e che in qualche modo porterà a evidenziare questi aspetti che sicuramente contraddistinguono questo genere da tutti gli altri, ma la musica contemporanea è un “non-genere”, nel senso che è un mondo incredibilmente vasto e vario perché si possa dare una definizione unitaria.

Due esempi possono essere Salvatore Sciarrino e Brian Ferneyough, agli antipodi dal punto di vista estetico, ma entrambi pilastri della musica contemporanea, due compositori che hanno trovato il loro personale modo di interpretare la contemporaneità. Un confronto immediato che proporrei è tra due brani per flauto solo, Morte Tamburo di Sciarrino e Cassandra’s dream song di Ferneyough.

Spesso i più convinti avversori della musica contemporanea sono gli amanti della musica classica, addetti ai lavori e non, che vedono in tutto ciò che è avvenuto nel mondo musicale a partire dal primo Novecento un deterioramento di quello che c’è stato prima. Anche questo purtroppo ha a che fare con un grado di percezione abbastanza superficiale, in quanto è chiaro che se pensando a un’opera di Beethoven ci si sofferma solo a ciò che viene più diretto e spontaneo, ovvero la melodia, e lo si prende come canone estetico assoluto, si troverà inaccettabile qualsiasi genere musicale che non fa dello sviluppo melodico uno dei suoi principali mezzi espressivi, quindi la musica contemporanea certo, ma anche la musica fiamminga del Quattrocento ad esempio, dove le cellule melodiche sono elementari e non subiscono particolari metamorfosi, mentre tutto il tessuto contrappuntistico ha una sua complessa evoluzione.

Sebbene sia assolutamente vero che alla base delle strutture formali di tutto il periodo della storia della musica che va dalla seconda metà del Seicento alla fine dell’Ottocento vi sia un processo di sviluppo tematico di stampo “narrativo” dove uno o più temi vengono elaborati e in un certo senso vivano una loro storia, non si può negare che ogni compositore abbia comunque creato un proprio mondo sonoro fatto di scelte timbriche, armoniche e stilistiche che in un certo senso conferiscono ad ognuno un proprio “sound”. Questo appare ancora più chiaro se pensiamo che questa musica (almeno fino alla prima metà dell’Ottocento) veniva eseguita in ambienti come chiese immense o enormi stanze semi-vuote di grandi palazzi, ben lontane dalla perfezione acustica delle nostre attuali sale da concerto, e che quindi aggiungevano una grande percentuale di riverberazione di cui un compositore dell’epoca non poteva non essere consapevole.

Oggi il nostro ascolto è viziato dalla tecnologia, le visualizzazioni su YouTube aumentano e i concerti dal vivo hanno sempre meno ascoltatori. Tutto questo porta a sradicare la musica classica dal proprio contesto storico, culturale e sociale e a renderla in un certo senso un oggetto di “culto”, da ammirare nella sua bellezza ormai universalmente accettata. Ma se prendiamo in considerazione quanto appena detto, troviamo molte affinità con la sensibilità attuale e comprendiamo che la musica di oggi è la naturale continuazione di quella di ieri.

“Con la cultura non si mangia” e “Non di solo pane vive l’uomo”. Quanto queste massime condizionano il tuo lavoro?

Beh possiamo dire che la seconda è un escamotage interiore per andare avanti nonostante la prima! Nel mondo musicale si ha spesso il risultato paradossale che livello e guadagno siano inversamente proporzionali. Con questo non voglio assolutamente fare una polemica contro la musica di largo consumo, in quanto viaggia su un altro binario, ha un altro mercato cui la musica contemporanea non può e non deve ambire, poiché il suo obiettivo non è il successo immediato, ma una ricerca continua e paziente che acquista valore col tempo.

Molti grandi compositori sono stati poco considerati in vita e compresi solo in seguito, perché nella loro musica hanno intuito soluzioni che per i loro contemporanei erano incomprensibili e che hanno invece poi tracciato un sentiero percorso nei secoli successivi. Si pensi ad esempio allo stesso Beethoven: era la vittima preferita dei teorici della sua epoca, primo fra tutti François-Joseph Fétis, che lo prendeva come esempio negativo nei suoi trattati e corredò addirittura i manuali scritti dallo stesso Beethoven di note critiche alquanto ostili, pregne di un dogmatismo scolastico chiuso al nuovo al punto da arrivare ad affermare “Beethoven non ha le idee chiare”. Per questi il sommo esempio da seguire era Luigi Cherubini, considerato il più grande compositore vivente.

Eppure la storia ha cambiato drasticamente le cose: di quei teorici ne ha sentito parlare solo qualche addetto ai lavori, Cherubini è considerato un grande compositore ma non certo uno dei più grandi mentre Beethoven è universalmente riconosciuto come uno dei più grandi geni (non solo musicali) che siano mai esistiti. Pertanto il problema del mercato evito di pormelo, scrivo quello che mi piace e cerco di farlo al meglio che posso.

È pur vero però che se “non si vive di solo pane”… senza pane non si vive! E qui arriviamo al problema del lavoro. Finora sono riuscito a “sopravvivere” facendo il mestiere del pianista accompagnatore, dando lezioni di musica, facendo semplici arrangiamenti per gente che si attribuisce il titolo di compositore perché magari l’esperienza esecutiva gli consente di scrivere melodie orecchiabili che poi a malapena sa armonizzare. Spesso mi capita che queste persone mi chiedano che musica scrivo e quando cerco di spiegarglielo o faccio sentire loro qualcosa non sanno dare una definizione a primo colpo, semplicemente perché non sanno cosa sia. Non l’hanno mai sentita prima e come la maggior parte degli esseri umani hanno paura del nuovo.

Il problema principale dell’arte in genere è infatti la mancanza di educazione che dovrebbe cominciare negli anni della prima formazione: non bisogna per forza apprezzare, ma riconoscere e rispettare sì. Questa disinformazione porta a situazioni come quella che ho vissuto in un concorso esecutivo in cui io e un mio amico ci esibivamo in duo sax e pianoforte eseguendo la Fantasia di Villa Lobos. Suonammo benissimo alla fase eliminatoria e arrivammo in finale, ma qui ci costrinsero a tagliare il pezzo al punto da eseguire solo l’ultimo movimento di soli 3 minuti perché essendo un pezzo moderno “la gente si sarebbe annoiata”, mentre consentirono agli altri concorrenti di esibirsi anche per 20 minuti con pezzi di Liszt e Chopin.

È chiaro che stiamo parlando di un caso di manifesta ignoranza nutrita di profondo pregiudizio isolato e assolutamente estremo nel suo genere, ma quest’”apartheid” nei confronti della musica e dell’arte contemporanea è radicato nell’élite di coloro che si ritengono detentori di un sapere senza comprenderlo veramente, e in un paese in cui quest’élite arriva ad insegnare convincendo le generazioni successive che “cultura” non vuol dire “coltivare” il sapere, vedendolo crescere ed evolversi, ma rappresenta un oggetto di culto da venerare con spirito assolutistico e dogmatico, un’affermazione del genere da parte di un ministro mi sembra una triste ma naturale conseguenza. Mi dispiace, ma non mi stupisce.

Daniele, cosa pensi della definizione “musica colta”?

Detto francamente, è un termine che detesto. Fa pensare che la musica di chi ha studiato in conservatorio sia migliore di quella di chi non ha studi accademici. Ma non è vero, la storia è piena di geniali autodidatti. Non esistono una musica colta e una musica ignorante. La musica è sempre una, semplicemente vive in contesti diversi che richiedono approcci differenti. Io non mi sento “colto” perché ho studiato in conservatorio. Certo, devo moltissimo agli insegnanti che mi hanno guidato in passato e che mi guidano tuttora nel mio percorso di apprendimento. Ma ho sempre affiancato all’attività di studio accademica anche esperienze esecutive in generi musicali ben diversi, perché ho sempre sentito l’esigenza estrema di soddisfare la mia curiosità e perché sono da sempre convinto che l’esperienza sia l’insegnante migliore che si possa avere.

Come guardi al mondo dei musicisti elettronici?

Guardo al loro mondo con estremo interesse e mi capita spesso di confrontarmi con loro. Tutti i musicisti di oggi, che siano compositori o esecutori, devono molto all’elettronica, perché ci ha permesso di analizzare il suono al microscopio, facendoci raggiungere un maggiore grado di consapevolezza. Quando elaboro una figura musicale tendo a pensarla come un evento sonoro che ha una sua metamorfosi nel tempo. È un tipo di approccio derivato dalle correnti compositive nate all’interno dell’Ircam (come lo spettralismo e il saturismo), cui sono vicino per formazione.

Ciò che probabilmente contraddistingue il mio pensiero musicale da quello dei compositori acusmatici è il fatto che io sono ancora legato al concetto di linguaggio musicale, mentre loro fanno del suo annullamento l’essenza stessa della loro poetica. Essi concepiscono l’ascolto come un’esperienza sensoriale da fare al buio, in silenzio, avvolti dal suono. Persi in questo viaggio, i cinque sensi comunicano fra di loro e il suono arriva a suggerire immagini, sensazioni tattili e addirittura olfattive. Ricordo in particolare un’esperienza d’ascolto in cui ad un certo punto del pezzo si sentivano dei ronzii di api (o almeno tali mi sembravano) e cominciai ad avvertire un senso di fastidio e dei brividi, dato che non ho un buon rapporto con gli insetti. L’annullamento del linguaggio nella musica acusmatica porta alla conseguenza che il suono rimanda sempre ad altro. È una concezione sicuramente affascinante, ma personalmente mi sento ancora legato a quegli aspetti grammaticali che formano il linguaggio musicale e che conferiscono alla musica una sua auto-referenzialità.

Daniele, cosa si intende di preciso con l’aggettivo “contemporanea”? Designa il periodo storico attuale? Ma non è un termine relativo? Tra vent’anni come si chiamerà la musica di oggi?

Ogni musica è o è stata contemporanea al suo tempo. È semplicemente una definizione cronologica, che diventa poi un termine di comodo per chi vuole semplicemente riconoscerla per evitarla, non per capirla veramente. È molto divertente leggere i trattati dei teorici del XV e del XVI secolo come Zarlino, Gaffurio o Vicentino e trovare riferimenti a “li compositori moderni”, che sono quelli che noi oggi definiamo “rinascimentali”, ma che erano i “contemporanei” di allora. Sono definizioni cronologiche indispensabili, in quanto ogni epoca musicale ha un suo mondo sonoro ben definito. Tra qualche anno i critici si divertiranno a riordinare tutto quello che stiamo facendo in categorie e inventeranno nuove definizioni, e il termine contemporanea definirà la musica del futuro.

Quali sono i tuoi riferimenti del passato?

Come ho accennato in precedenza, i miei interessi musicali sono estremamente variegati. In generale amo tutti quei compositori che sono riusciti a creare un proprio linguaggio originale, discostandosi dalle correnti dominanti nella loro epoca. Dovendone citare alcuni, non in ordine di preferenza ma in ordine puramente cronologico, voglio cominciare da Guillaume de Machaut (1300-1377), un compositore eccezionale, massimo esponente dell’”Ars Nova” francese. C’è una bellissima versione della sua Messe de Notre Dame eseguita dall’ensemble Organum, che adottano un timbro vocale non impostato, più naturale, ben diverso da quello che si sente nelle altre incisioni. Non so se questo sia filologicamente corretto (e sinceramente mi interessa molto poco), ma lo trovo estremamente interessante perché conferisce a questo capolavoro una grande modernità e un carattere che oserei definire “etnico”, dandogli nuova vita.

Proseguendo nel mio elenco un altro autore fondamentale per me è Girolamo Frescobaldi (1583-1643), un genio folle e visionario, un Bosch della composizione musicale. In particolare ho studiato alcune sue toccate per clavicembalo, dove troviamo una straordinaria arditezza armonica e un linguaggio originalissimo, ottenuto tramite l’applicazione dei principi della retorica musicale ad uno stile strumentale dal carattere improvvisativo. Sullo stesso filone, amo molto anche la musica di Michelangelo Rossi (1602-1656). Poi sicuramente voglio fare riferimento a Gesualdo da Venosa (1566-1613) e a Johann Sebastian Bach (1685-1750), uno dei miei amori dell’adolescenza e dei miei anni di studio del pianoforte. Ma ancor più di questi un autore che mi ha profondamente segnato è Domenico Scarlatti (1685-1757), un compositore assolutamente unico ed inimitabile. In particolare amo alcune sonate fra le meno conosciute del suo catalogo, come la Sonata in La minore K 175, nella quale all’estrema creatività linguistica e formale si aggiunge un’arditezza armonica che punta alla ricerca di soluzioni timbriche molto ricercate.

Proseguendo in questa carrellata voglio citare Ludwig van Beethoven (1770-1827), un altro dei miei amori dell’adolscenza, Robert Schumann (1810-1856), Max Reger (1873-1916), Igor Stravinsky (1882-1971),  Iannix Xenakis (1922-2001), György Ligeti (1923-2006) e Giacinto Scelsi (1905-1988). Poi ci sono alcuni musicisti appartenenti ad altri contesti musicali che però per me non sono assolutamente meno importanti e fra questi voglio fare riferimento a Frank Zappa (1940-1993), artista geniale che è riuscito a fare la sintesi di influenze provenienti da contesti musicali estremamente diversi, creando un suo stile originalissimo.

Come questi riferimenti concorrono a definire la tua estetica di compositore sperimentale del 2017?

Sinceramente non credo di aver maturato una concezione estetica ancora ben definita. Credo che nei miei lavori si possano avvertire influenze di tutti gli autori a cui ho fatto riferimento, nonché di altri generi musicali che ho assimilato sia con ascolti che con la mia attività di esecutore che spazia in contesti estremamente diversi. Amo sperimentare, mi sento in uno stato di ricerca costante e probabilmente quando smetterò di cercare smetterò anche di comporre. L’unica cosa che cerco di fare emergere in tutti i miei pezzi è la mia personalità, il mio gusto personale. Avevo un professore di francese alle scuole medie che diceva che in tutto quello che facciamo dobbiamo mettere la nostra griffe, cioè il nostro marchio, la nostra firma inconfondibile. Questa è una delle affermazioni che mi ha segnato di più e ne ho fatto una vera e propria filosofia di vita.

Allora passiamo al sodo: quali tuoi brani ritieni maggiormente rappresentativi del tuo stile?

Io partirei dai miei Tre studi sull’inquietudine, eseguiti per la prima volta il 25 novembre 2015 a Bari nella chiesa di Santa Teresa dei Maschi, durante il concerto finale della Masterclass tenuta da Stefano Gervasoni all’interno del festival Urticanti dalla violinista Teresa Dangelico. Ho scritto questo pezzo alla fine dell’estate 2015, in un periodo della mia vita particolarmente travagliato, che ha visto la fine di una relazione che mi ha segnato profondamente, in maniera indelebile. In questo periodo ho trovato conforto nella lettura. Due libri in particolare mi hanno aiutato a reagire: Finzioni di J.L. Borges e Il libro dell’inquietudine di Fernando Pessoa. Ed è stata questa seconda lettura a darmi l’ispirazione per questo pezzo. Il protagonista del libro, Bernardo Soares (alter ego di Pessoa) è perso nelle continue riflessioni su se stesso e sulla monotonia che sembra essere il centro di gravità attorno al quale ruotano i personaggi, i luoghi e le situazioni che caratterizzano la sua vita. Da qui questo continuo senso di inquietudine, che lo porta a guardare in continuazione il cielo immaginando una via di fuga impossibile da raggiungere. Riflesso in questo caleidoscopio di immagini, ho cominciato a immaginare delle figure mobili, incostanti, che ruotano su delle frequenze fisse, tendendo in continuazione verso l’alto. Dal punto di vista formale, ogni studio è una variazione di cellule melodiche caratterizzate da gesti esecutivi ed elementi timbrici fissi, che sono gli elementi primordiali che generano tutte le figure. Il termine “studi” sta quindi a indicare sia il modo in cui è trattato lo strumento, con una scrittura virtuosistica ed estremamente idiomatica, sia un mio personalissimo studio sullo strumento, sulle sue peculiarità e su come queste potenzialità possono stimolare la mia creatività.

https://www.youtube.com/watch?v=bTMMisftyF8

 

Un altro brano cui tengo molto è il mio Trio per violino, violoncello e pianoforte, eseguito il 7 maggio 2017 a Roma nell’Auditorium “Parco della musica”, Spazio Risonanze, da Riccardo Zamuner (violino), Altea Narici (violoncello) e Gesualdo Coggi (pianoforte). Questo Trio si propone come uno studio sulla direzionalità intesa come metamorfosi di una figura. Questa si compone di due elementi fondamentali: uno starter affidato al pianoforte che fa partire dei flessi realizzati dagli archi con rapidi glissandi. Questi elementi rimangono costanti per tutto il pezzo, sebbene man mano la clusterizzazione iniziale lasci il posto ad un campo armonico più definito ottenuto tramite una tecnica di derivazione spettralista e a ritmi più incisivi. Questo crea un’evoluzione anche nella struttura dialettica, che da un’impostazione iniziale di taglio orchestrale in cui il trio è trattato come un unico strumento giunge a definire un dialogo tra i tre strumenti che si scambiano le cellule in cui ormai è frammentata la figura.

https://www.youtube.com/watch?v=vHnAGoR_0O4

 

The shape of things to come è invece basato sull’idea di una figura che prende forma a poco a poco, partendo da tratti essenziali e stilizzati che man mano si compongono in qualcosa di più complesso e definito. Tale processo è applicato tanto a livello frequenziale quanto a livello esecutivo. La performance di questo lavoro viene a configurarsi come un rituale in cui ogni gesto ha un proprio significato e una propria storia, ma contemporaneamente fa parte di un processo più grande in cui la dimensione temporale viene percepita non come una successione di eventi su una linea continua, ma come l’ammirazione di un unico evento, un unico oggetto sonoro che viene prodotto dagli esecutori in tempo reale. Il brano è tratto dall’esecuzione in occasione del festival Contrasti di Trento, il 23 aprile 2017, da parte dell’ ensemble Moto Contrario.

https://www.youtube.com/watch?v=TssFfAIPJcM

 

In ultimo non posso non citare il mio Graffiti: questo pezzo è stato il primo che ho scritto dopo il diploma in Composizione. Dopo dieci anni di studio intenso sentivo l’esigenza di ripartire da zero, di mettere da parte tutta la tecnica che avevo imparato e di trovare delle mie soluzioni originali. Il punto di partenza è stato il mio strumento, il pianoforte, che ho cominciato a esplorare dall’interno. Fin qui niente di nuovo: c’è un’intera letteratura per pianoforte preparato ed io non ho inventato nessuna nuova tecnica. Ne ho semplicemente scelta una, quella per produrre gli armonici, e l’ho esplorata fino in fondo. Sul pianoforte gli armonici vengono prodotti premendo un nodo sulla corda con una mano (solitamente l’ottava) e suonando il tasto con l’altra. Partendo da questa modalità esecutiva standard ho cominciato a vedere cosa succedeva stimolando altri nodi, strisciando il dito sulle corde a diverse velocità, allontanando leggermente il dito dalla corda per farla rimbalzare su di esso. Ho constatato che mettendo la pece sulle dita (la stessa che usano gli strumentisti che suonano strumenti ad arco) aumentava notevolmente sia la qualità del suono che la facilità esecutiva. Creata una notazione ad hoc per indicare tutti questi gesti non convenzionali, ho costruito il pezzo partendo dai gesti più semplici mettendoli insieme per comporre man mano altre figure. È come se la forma del pezzo fosse la sua stessa composizione in tempo reale.

 

https://www.youtube.com/watch?v=Lt-d8VjV_20

È stato un ripartire dal semplice, dal graffito appunto, volendo fare un paragone con le arti visive. Il gesto esecutivo stesso rimanda simbolicamente al titolo: la tecnica della mano che “scava” la corda per produrre il suono è lo stesso della mano che scava la pietra per produrre un graffito.

Grazie Daniele per la tua disponibilità, abbiamo avuto modo di vedere uno scorcio dell’immenso mondo di un “non-genere” come la “contemporanea”.

Grazie a te! E complimenti al team di Quinte Parallele!

Il prossimo appuntamento è con il Capitolo Secondo di questa serie, in cui esploreremo il mondo della musica elettronica con il compositore Francesco Rizzo.

 

 

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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