«Il concerto sono io». Liszt e le parafrasi per pianoforte, oltre moda e virtuosismo

Le parafrasi e le trascrizioni occupano una parte molto rilevante nel catalogo delle opere di Liszt.

Autore: Willy Bettoni

10 Maggio 2017

Se la massima parte delle parafrasi su melodrammi italiani sono cadute nell’oblio (molto ingiusto per molte di esse), è spesso perché quegli stessi melodrammi erano usciti dal repertorio, considerati com’erano vecchiotti e fuori moda. Ma oggi che grandi cantanti italiani come la Callas o la Tebaldi o Di Stefano e altri hanno riportato quei lavori alla luce, […], queste trascrizioni e parafrasi sembrano in procinto di essere giudicate con severità molto minore. Alcuni giovani pianisti non temono di includerle nel loro repertorio, e un certo numero tra essi ne ha già registrato incisioni per nulla tediose e capaci di mostrare quanto grande era stata l’ingiustizia dei nostri padri.

Molto spesso sono pagine di altissimo livello; altre volte si appiattiscono verso il semplice pezzo virtuosistico di scarso interesse musicologico. Bisogna però ricordare che abbiamo a che fare con un corpus che si aggira intorno alle 350 opere, quindi qualche piccola caduta di stile è perdonabile. D’altronde credo sia a tutti ben noto che la produzione di Liszt, che consta di circa 1400 numeri, è capace da una parte di elevarsi sino a toccare le più alte vette della musica e dall’altra di abbassarsi a livello di puro esibizionismo, di cliché. Tuttavia, credo sia necessario fare dei distinguo non solo all’interno della produzione nel suo insieme, ma anche all’interno dei vari generi usati da Liszt, e andare alla ricerca del motivo profondo che spinse il compositore ungherese a scrivere parafrasi durante tutto il corso della sua vita. Quindi, anche le prime opere di questo genere (come Reminiscenze dalla Lucia di Lammermoor del 1835), che Michele Campanella dice essere collocate «nel più tipico ed effimero costume dell’epoca», tradiscono a mio avviso l’ideale estetico di Liszt e la sua concezione dell’arte e dell’artista nella società. Non è un caso che alcuni suoi scritti “teorici” su questo tema, come De la situation des artistes et de leur condition dans la societé o Lettres d’un bachelier es musique prendano corpo proprio in questi anni. Non da ultimo si deve ricordare che sempre agli anni ’30 risale il suo avvicinamento al sansimonismo e la sua amicizia con Lamennais e, quindi, la fusione di questi due elementi nella mente del nostro che lo portarono a sviluppare un pensiero cristiano-socialista. Risale sempre a quegli stessi anni il brano dal titolo Lyon, primo numero della raccolta Album d’un voyageur (titolo poi scomparso dalla raccolata Années de pèlerinage), ispiratogli dalla sedizione degli operai della omonima città. Come sempre Liszt, che da lontano appare al pubblico come un funambolo del pianoforte, da vicino si mostra in tutta la sua complessità tanto da costringere chiunque vi si avvicini ad abbandonare le proprie certezze e ad approcciare le sue opere con spirito aperto e con occhio attento a tutto ciò che faceva parte del mondo del compositore, arte, cultura, società e religione. D’altronde egli stesso amava definirsi «un saltimbanco, mezzo francescano e mezzo zigano». Per comprendere la sua opera dobbiamo essere anche noi pronti a lanciarci verso l’ignoto, come le mani dei musicisti zigani che Liszt tanto ammirava.

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Prima di procedere oltre credo sia necessario sollevare una questione terminologica che, lungi dall’essere un ozioso sofismo, può gettare nuova luce sul modo di intendere queste composizioni. Si parla spesso di “parafrasi” e “trascrizioni”, eppure questi lavori lisztiani portano spesso il titolo di “reminiscenze”. Ora, i termini “parafrasi” e “trascrizioni”, pur significando in origine cose differenti, assumono nel corso del XIX secolo uno stesso significato. Ma è il termine “reminiscenza” che è in grado di illuminarci sul contenuto di tali lavori. Le parafarsi lisztiane, così come quelle di altri compositori a lui contemporanei, nascono da improvvisazioni. Nel corso del XIX secolo, con la nascita delle sale da concerto e dei recital si viene creando anche una nuova prassi. Ed è proprio Liszt, come ricorda Piero Rattalino, a dare vita e forma a questa nuova consuetudine:

Le trascrizioni, le parafrasi e le fantasie da melodrammi assicurarono in primis il successo di una iniziativa rivoluzionaria, il recital, perché fino al 1839 non era stato concepibile che un pianista si presentasse da solo di fronte ad un pubblico pagante. Anche se decideva di suonare in una sala non grande (400-500 posti) il pianista si faceva affiancare da un cantante o da uno strumentista, e se suonava in un teatro non poteva far a meno dell’orchestra. Liszt si presentò invece nel giugno del 1839, da solo, di fronte ad un pubblico pagante che era convenuto nel palazzo dell’ambasciata di Russia a Roma e, scrivendo alla principessa di Belgiojoso, parafrasò orgogliosamente il motto di Luigi XIV: “Il concerto son io”. L’anno dopo, a Londra, inventò anche il termine nuovo, recital, anzi recitals on the piano, recitazioni al pianoforte, mettendo in programma musiche originali per pianoforte, trascrizioni da pezzi sinfonici, trascrizioni da Lieder e parafrasi da melodrammi. Il suo intento era chiarissimo: il suo programma era simile a quello dei concerti che si tenevano in teatro, ma invece di un centinaio di esecutori c’era sul palco un solo eroe che sfidava il drago, il Pubblico.

Anche Heinrich Heine ci dà testimonianza di questa nuova prassi scrivendo, nel 1841, che «Liszt ha già tenuto due concerti nei quali, contrariamente ad ogni convenzione, ha suonato senza altri musicisti, completamente solo». Il pianista-compositore, quindi, presentava al pubblico non solo le sue composizioni originali e le opere dei grandi maestri del passato, ma una parte parte del concerto era dedicata ad una improvvisazione su temi non originali, molto spesso suggeriti dal pubblico. Questi temi erano il più delle tratti da arie d’opera. Le sale da concerto in cui si esibiva il pianista ungherese non erano certo come quelle cui siamo abituati noi oggi, templi dove si consuma il sacro rituale del concerto. Liszt era una sorta di rock star e il pubblico, specialmente quello femminile, si abbandonava spesso ad atti di isteria collettiva, come testimoniano vari articoli apparsi suoi quotidiani parigini (ed europei) dell’epoca. Anche sul suolo italico Liszt riscosse enorme successo; tuttavia, durante uno dei concerti che tenne alla Scala tra 1837 e il 1838, fu costretto ad improvvisare sul tema “architettonico”, suggeritogli da qualche ascoltatore burlone, “il Duomo di Milano”, dopo un intero concerto basato su improvvisazioni brillanti su temi da Bellini e Donizetti, proprio per incontrare il favore del pubblico del tempio della lirica.

Tralasciando questo piccolo aneddoto, le parafrasi di Liszt nascono da improvvisazioni fatte in concerto, le quali venivano poi rielaborate nella calma delle sue residenze. A questo punto sorge l’obbligo di introdurre il termine “reminiscenza”, il quale, stando alla definizione che ne danno i dizionari, ha i seguenti significati: a. Il ricordarsi in modo vago e impreciso di una cosa quasi dimenticata; b. Nel linguaggio filologico e critico, passo o luogo di un’opera letteraria o teatrale, musicale, cinematografica, in cui l’autore riecheggia più o meno consapevolmente immagini o forme stilistiche, o anche contenuti, di altre opere (fonte: Treccani). Sono reminiscenze appunto perché, da un lato, sono il frutto del ricordo delle improvvisazioni del pianista, che di fronte al foglio pentagrammato non può certo ricordare ogni singola nota suonata in concerto; dall’altra sono reminiscenze proprio perché nascono dal ricordo dell’opera parafrasata. Per questo motivo, a volte, i temi sono spezzati, sovrapposti, invertiti e, soprattutto, variati nel ritmo e nelle armonie. Diventano altro da sé, pur mantenendo forte il legame con la loro origine.

Qui però sorgono dei problemi tanto per il pianista che si trova ad affrontare questo repertorio, tanto per il musicologo che si trova tra le mani un’enorme mole di parafrasi senza saper bene come inquadrarle all’interno della produzione lisztiana. Vanno questa affrontate e studiate come semplici brani di bravura e come semplice intrattenimento per le masse in visibilio, dei brani, per così dire, legati al loro tempo e che oggi non hanno più valore? O, al contrario, rappresentano una delle facce del Giano bifronte Liszt? Per lungo tempo, grossomodo tra la fine del XIX secolo e per un’abbondante metà del XX, le fantasie drammatiche di Liszt vennero considerate solo per il loro valore documentario e sparirono dal repertorio pianistico. Solo alcuni concertisti (Cherkassky, Wild, Bolet), ricorda ancora Rattalino, proseguirono nella pratica di presentare questi brani al pubblico, ma per questa loro adesione ad una prassi ormai desueta furono considerati dei nostalgici e degli incolti. Dal punto di vista del pianista che oggi si trova ad affrontare le parafrasi lisztiane, queste opere presentano un’enorme difficoltà, non solo tecnica, ma anche di interpretazione, come sottolinea giustamente Michele Campanella.

[…] Per Liszt vale una verità universale: una cattiva esecuzione danneggia la composizione. Scontato, mi si dirà. Non proprio, se si pensa che cattiva esecuzione, nel caso di Liszt, significa normalmente incapacità di comprendere le ragioni dell’autore e conseguente utilizzo del brano per una mera, volgare esibizione di bravura digitale. In alcuni stili artistici, il liberty ad esempio, la distanza tra l’estrema finezza e il cattivo gusto è minima. Nel nostro caso l’interprete lisztiano ha, nell’indagine artistica ed estetica che sta alla base delle migliori parafrasi, una parte di decisiva importanza e mai come in Liszt (ma potrei citare anche Saint-Saéns) tale scelta appare facile, mentre invece si richiedono strumenti culturali sofisticati.

A questo punto si dovrebbe aprire una lunghissima parentesi sul concetto di virtuosismo e sulle differenze tra l’accezione moderna e quella di due secoli fa, ma non è questo il luogo per dare l’avvio ad un discorso tanto impegnativo. Inoltre, Liszt ebbe una vita lunga ed estremamente intensa, unita ad una insaziabile fame di cultura e, per quanto la sua preparazione fosse lacunosa, questa contribuì alla formazione di uno spirito aperto e disposto ad abbracciare le più svariate mode e correnti filosofiche dell’epoca: lo Zeitgeist in senso hegeliano si fonde con il più superficiale esprit du temps in una persona sola, la quale, sotto l’influsso di questi due aspetti, assume naturalmente caratteristiche di camaleonte. Per questo avvicinarsi alle parafrasi come se fossero un corpo unico e compatto è, tanto per il musicista, quanto per il musicologo, uno degli errori più grossolani che possano essere commessi. La mancanza di una prospettiva storicistica, lamentata già da Campanella, rischia di creare una categoria “parafrasi per pianoforte” in cui tutte le opere sono trattate allo stesso modo. Ma Liszt scrisse parafrasi a partire dagli anni ’30 e fino agli anni ’80 dell’Ottocento. Anche ad un ascolto molto distratto appare evidente che la lisztiana Lucia di Lammermoor (1835) si pone quasi agli antipodi, dal punto di vista stilistico, rispetto al Simon Boccanegra (1882). E questo non solo perché Donizetti non è Verdi, ma anche, anzi soprattutto perché il Liszt degli anni ’80 non è il Liszt degli anni ’30.

Qui, però, nasce un altro problema che coinvolge tanto il musicista quanto il musicologo. Se lo stile compositivo delle parafrasi cambia nel tempo nei suoi elementi costitutivi, cambia cioè l’approccio pianistico, perdendo lo slancio funambolico in favore di una più attenta ricerca timbrica e armonica, e questo già a partire dagli anni ’40 e poi, più concretamente dal periodo di Weimar, quello che lo studioso si trova di fronte sarà un’opera di Verdi trascritta per pianoforte, o è un’opera di Liszt, che prendendo in prestito temi altrui, crea, per esempio, la sua Aida? E qui risiede la difficoltà e al tempo stesso l’enorme ricchezza di queste composizioni. Le scelte che il pianista o il musicologo andranno ad operare sono in grado di cambiare radicalmente la concezione dell’opera facendola oscillare costantemente tra la categoria di “opera originale” e la categoria di“trascrizione”. Questo problema è egregiamente espresso da Campanella, che osserva:

La capacità miracolosa di Liszt di aderire al testo da parafrasare fa sì che le composizioni su tema non originale siano nella maggior parte del catalogo un’insuperabile sintesi critica dell’opera prescelta, attraverso la quale possiamo persino intravedere l’immagine di tale opera ai tempi di Liszt, la sua ricezione – basti citare il caso delle Reminiscenze dal Don Giovanni di Mozart. Ma, paradossalmente, tutte le pratiche di trascrittore recano il suo marchio inconfondibile: la Pastorale trascritta per pianoforte è di Beethoven o di Liszt? Il testo è di Beethoven ma essa suona opera di Liszt. A tal punto Liszt è il pianoforte.

Massimo esempio di questa problematica credo sia il Simon Boccanegra, ultima parafrasi composta da Liszt, un’opera nella quale risuona Verdi, ma in cui tutto è Liszt, ed è il Liszt degli anni ’80, ormai lontano dal pianismo acrobatico e in cui tutto suona moderno e profetico.

Per concludere voglio lanciare un appello ai pianisti che si trovano ad affrontare questo repertorio. Se da una parte la musicologia sta tornando ad analizzare queste opere con mente finalmente sgombra da pregiudizi, nell’ambito del concertismo prevale ancora una concezione precipuamente funambolica di questi lavori. Invito perciò gli interpreti ad analizzare caso per caso le parafrasi in modo da far emergere il loro carattere autentico, senza dimenticare, però, che di improvvisazioni si tratta e che, quindi, possono spesso essere trattate come linee guida per ulteriori rivisitazioni, come ci ha magistralmente insegnato uno dei più grandi interpreti lisztiani di sempre, György Cziffra, qui di seguito impegnato in una strabiliante interpretazione del Valzer sul Faust di Gounod.


Willy Bettoni

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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