Francesco Cavalli e l’opera a Venezia

Cavalli veramente in Italia  non ha pari, e per esquisitezza di canto, e per valore del suono dell’organo e per le rare di lui composizioni.

Doglioni, 1655

Autore: Silvia D'Anzelmo

3 Aprile 2017

La figura di cui voglio parlarvi in questo breve articolo è quella di Francesco Cavalli: ingegno multiforme tanto apprezzato dai suoi contemporanei quanto poco conosciuto oggi; Cavalli –al secolo Caletti– comincia giovanissimo la sua educazione musicale sotto la guida del padre, per poi trasferirsi a Venezia al seguito del suo mecenate Federico Cavalli da cui prenderà il cognome per cui lo conosciamo. La Venezia musicale del XVII secolo era dominata da una figura di spicco come Claudio Monteverdi che decise di concludere la sua carriera nella Serenissima poiché offriva libertà impensabili in altri centri italiani; questo grande musicista, allora direttore della cappella marciana presso la quale Cavalli venne impiegato, si interessò al giovane divenendone guida artistica e sostegno alla carriera: grazie a lui, Cavalli ottenne molti incarichi prestigiosi come quello di organista di SS. Giovanni e Paolo e primo organista di San Marco. Sotto la guida di Monteverdi, Cavalli comincia ad ampliare la sua formazione e i suoi interessi: egli fu cantore, organista e compositore di varie musiche dalla sacra, all’operistica fino alla strumentale; quello su cui vorrei concentrarmi, però, è il Cavalli operista perché riserva vari aspetti estremamente interessanti su cui soffermarsi.

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Innanzi tutto, va considerato il fatto che siamo agli albori del melodramma e, soprattutto, del suo approdo a Venezia dove venne traghettato, tra gli altri, proprio da Monteverdi. L’arrivo del teatro musicale a Venezia crea delle grandi trasformazioni nel genere operistico poiché esso va a inserirsi in un sistema di sale aperte al pubblico con ingresso a pagamento, un sistema che possiamo definire “democratico” e “moderno”, totalmente assente in altri contesti. Il compositore, dunque, non era soggetto alla volontà e ai gusti del singolo mecenate ma doveva soddisfare le richieste di un pubblico pagante altamente stratificato a livello sociale e culturale e questo crea delle peculiarità nei libretti e nella musica delle opere veneziane, particolarità che ritroviamo immortalate nelle opere di Francesco Cavalli.

Esempio emblematico è La Didone musicata da Cavalli su testo di Gian Francesco Busenello poeta aristocratico e dottore in legge, pienamente aderente alla cultura scettica ed eclettica di Venezia. Egli decide di fare della narrazione virgiliana una tragicommedia poiché

chi scrive sodisfa al genio, e per schiffare il fine tragico della morte di Didone si è introdotto l’accasamento con Iarba

la tragicommedia, genere totalmente irregolare rispetto ai canoni classici, è specchio dei gusti del pubblico veneziano che apprezza sopra ogni cosa la varietà: l’unità è bandita per l’eterogeneità e l’unica cosa che davvero si deve evitare è la noia per il pubblico pagante, per cui librettista e compositore devono ingegnarsi a trovare effetti arditi che muovano l’ascoltatore alla partecipazione e lo fanno intervenendo su vari livelli, dagli accorgimenti più sottili a quelli macroscopici.

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Il libretto che Busenello scrive per  La Didone è, in effetti, molto vario per la scelta del genere e per il trattamento del soggetto ma, al tempo stesso, dietro questa varietà troviamo una certa simmetria sia nella sistemazione dei nuclei drammatici che nella versificazione con una alternanza tra porzioni di testo legate da rima e sezioni totalmente libere. La realizzazione musicale di Cavalli si poggia proprio sulla varietà macroscopica impostata da Busenello portandola a livello microscopico della strutturazione musicale: il compositore, spesso, rifiuta le occasioni forniteli dal librettista per distinguere nettamente tra recitativo –in presenza dei versi liberi- e aria –in presenza di versi rimati; egli decide di usare il recitativo come centro espressivo che si increspa a maggior liricità la dove il musicista scorge una valida motivazione psicologica più che una forma metrica adeguata. Spesso dal recitativo Cavalli “cava” dei versi che vengono musicati con maggiore liricità o, al contrario, in corrispondenza di versi rimati il musicista procede in stile recitativo trattando in maniera ariosa solo alcuni incisivi versi appunto le cavate. Un esempio per tutti, è il Prologo affidato a Iride personificazione dell’arcobaleno e messo degli dèi, in particolare di Giunone che rammenta agli spettatori ciò che è accaduto prima della vicenda narrata nell’opera. Busenello struttura il testo in forma strofica organizzandolo in cinque quartine di endecasillabi in rima ABBA offrendo quindi a Cavalli lo spunto per musicare questa sezione in maniera lirica -gli dà l’opportunità di scrivere un pezzo chiuso ossia un’aria. Il musicista però lascia cadere il suggerimento e decide di musicare il testo in maniera del tutto personale eliminando due strofe (la III e la IV) e rimanendo in un più sobrio e sentenzioso stile recitativo che si increspa all’arioso solo nella II quartina l’arietta che viene ora a trovarsi in posizione centrale.

LA DIDONE (Clement Hervieu Leger 2011)

Dunque, Cavalli non sottolinea la separazione chiara fra le due sezioni, egli concretizza così quella varietà che il librettista è riuscito a realizzare nell’impostazione generale dell’opera; entrambi prediligono la varietà, l’eterogeneità e la mancanza di netti confini e chiare delimitazioni ma in ambiti differenti: macroscopico Busenello, strutturale Cavalli. Per lui la forma chiusa non corrisponde necessaria mente ad un’aria ma varie possono essere le risposte del musicista che nella Venezia della metà del XVII secolo puntava gran parte della propria riuscita presso il pubblico nella libertà della realizzazione musicale del testo poetico.

Silvia D’Anzelmo

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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