Guardare l’opera: “La clemenza di Tito” di Mozart

Nel 1791, l’anno della sua morte, Mozart ricevette tre importanti commissioni, assai diverse tra loro ma ciascuna a suo modo significativa nello sconfinato catalogo del genio salisburghese.

Autore: Roberto Imparato

24 Febbraio 2017

La prima proposta fu quella dell’impresario Emanuel Schikaneder, già direttore del Theater aufderWieden a Vienna, che in Maggio sottopose all’attenzione di Mozart il libretto sul Flauto Magico, scritto di suo pugno ed improntato a quegli ideali umanitari e di ricerca della verità che sono poi il fondamento dell’antica massoneria, di cui Mozart stesso faceva parte. Pochi mesi dopo, precisamente a Luglio, è il maggiordomo di un certo conte Franz Walsegg a bussare alla porta del maestro, offrendogli di comporre, dietro compenso stabilito dallo stesso compositore, una messa da requiem. Walsegg, è cosa ormai nota, era un musicista facoltoso e dilettante che commissionava ad altri partiture di vario genere, per poi spacciarsi come l’autentico compositore. Il Requiem richiesto a Mozart era stato concepito per la sua defunta moglie, e Walsegg stesso ne diresse l’esecuzione nella chiesa dei Cistercensi di Vienna, due anni dopo la morte di Mozart, il 14 Dicembre 1793. L’impegno più demandante dei tre, tuttavia, si presentò nel mese di Agosto: Leopoldo II Asburgo Lorena sarebbe stato incoronato re di Boema a Praga, il 6 Settembre; poco prima i rappresentanti degli stati boemi avevano firmato con l’impresario Domenico Guardasoni un contratto per un’opera celebrativa dell’avvenimento, che sarebbe stata messa in scena il giorno stesso dell’incoronazione. La scelta del libretto fu quasi obbligata, e ricadde su un testo scritto da Metastasio nel 1734: La Clemenza di Tito, un dramma solenne di argomento romano sulle virtù di Tito, sovrano illuminato che in nome dell’amicizia rinuncia all’amore e perdona la congiura ordita da Sesto per amore di Vitellia. Il lavoro era stato invero commissionato a Salieri, all’epoca ritenuto il massimo compositore vivente in Austria, ma questi lo aveva rifiutato per ragioni ignote. Il tempo per completare la commissione era dunque poco, e Mozart vi lavorò alacremente, ultimando la partitura (se è vero quanto dice Niemetscheck) in soli diciotto giorni. Il compositore si recò subito a Praga con la moglie Costanza, l’allievo Süssmayr, che scrisse alcuni dei recitativi secchi dell’opera poi revisionati dal maestro, e il clarinettista Anton Stadler, il quale avrebbe ottenuto una parte di rilievo nell’orchestra.

Les Puritains Tito in una scena da La Clemenza, Opera de Paris, Novembre 2013.

Mozart aveva accettato il lavoro con entusiasmo, e, abbiamo detto, non si risparmiò affatto nella sua stesura, prendendo appunti perfino in carrozza e nei brevi momenti di sosta; ma non bastò tanta solerzia a soddisfare il pubblico praghese, che accolse freddamente la linearità asciutta e classicheggiante de La Clemenza. Tutt’altro, tanto che le cronache della serata raccontano del commento regale ma ben poco raffinato dell’imperatrice Maria Luisa, figlia del re di Napoli, che bollò l’opera come una «porcheria tedesca in stile italiano». Seppure La clemenza di Tito abbia, per così dire, “recuperato terreno” nel breve termine, il numero delle sue rappresentazioni è andato via via diminuendo fin quasi a scomparire; viepiù onorevole, allora, il compito dei musicologi e dei direttori d’orchestra (Riccardo Muti è tra questi) che hanno ridato nuova vita a quest’opera di bellezza lancinante. Se è vero infatti che nei suoi stilemi espressivi La clemenza getta lo sguardo indietro, al vecchio mondo dell’opera seria, è vero pure che nelle sue strutture fluide presagisce già le soluzioni che saranno poi di Beethoven e Weber. Rispetto alla sublime trilogia dapontina, che oltre a fornire un’immagine fedele del tempo in cui fu scritta si caratterizza per il dinamismo dell’azione scenica, La Clemenza di Tito è un’opera più statica, è in fondo l’avvicendarsi dei fatti intorno a Tito, motore immoto e illuminato dell’intera storia; questa è perlomeno la critica che da più parti vi venne e viene mossa. Sorprenderebbe molti lettori allora sapere che a quasi sessant’anni dalla sua nascita, il libretto di Metastasio (in origine scritto per festeggiare il nonno di Leopoldo II, Carlo VI: si trattava quindi di un soggetto di famiglia!) non fu assunto sic et simpliciter, ma fu “ridotto a vera opera”, ed è lo stesso Mozart ad annotare la cosa nel suo catalogo personale, dal poeta di corte dell’Elettore di Sassonia, il signor Caterino Mazzolà. I tempi gloriosi dell’opera seria erano inevitabilmente trascorsi, e un testo come quello metastasiano, pur di pregevolissima fattura, era, se vogliamo dirla così, “invecchiato male”. Come il più abile dei sarti Mazzolà aggiunge allora qualcosa e taglia qui e là; in particolare è l’inserimento di ensembles(duetti, terzetti, concertati) l’elemento più innovativo: ammodernamento di uno schema che fin dai tempi di Caldara si basava sulla rigida alternanza di recitativi ed arie solistiche. Un restauro del genere, s’intende, ha un prezzo, e non da poco. Ne fanno le spese luoghi giustamente famosi come il recitativo di Tito (III, 7), già lodato da Voltaire ed ora mutilato in più parti, e l’aria “Se mai senti spirarti sul volto”, che aveva una sua importanza nella versione di Gluck della Clemenza, e che viene trasformata ora in un terzetto, assicurando certamente maggior fluidità alla scena, ma attenuandone anche il potenziale drammatico.

Allestimento de La Clemenza a La Monnaie, Bruxelles, 2013. Allestimento de La Clemenza a La Monnaie, Bruxelles, 2013.

Esiste, accanto alla strada del magniloquente e dello sfarzoso (che pure è prediletta da certo pubblico), la via meno battuta della sobrietà e del rigore. Che non è assenza di emozioni, ma la lezione quanto mai attuale della levità, la quale, al pari della pesantezza, ha le sue onorevoli ragioni. Tutto questo ci sembra possa applicarsi a ragion veduta a La Clemenza, che è il frutto del lavoro di cesello di Mozart e Mazzolà (il primo sulle ‘trasparenze’ della scrittura e dell’orchestrazione, il secondo sui preziosi versi metastasiani), un blocco di marmo trasformato nelle mani del Maestro in un capolavoro di immortali bellezze michelangiolesche. Per cercare di capirne di più, conviene partire proprio dalle difficoltà incontrate dal poeta veneto nella stesura del libretto, e conviene farlo dal baricentro fisico e drammaturgico dell’opera: il finale del primo atto. Il celebre quintetto con coro «Deh, conservate, o dei», è infatti la chiave di volta della nuova veste confezionata da Mazzolà per il vecchio dramma settecentesco. Il concertato viene costruito tramite l’ingresso progressivo in scena di tutti i personaggi tranne Tito, del quale si annuncia peraltro a questo punto l’assassinio. Tutto il cast commenta così il misfatto dal proprio, personalissimo punto di vista; e le loro linee si uniscono alla voce flebile del coro, che dietro le quinte lamenta cupamente la morte del sovrano illuminato; sullo sfondo, brucia il Campidoglio a vive fiamme. Facciamo ordine: Mazzolà ha ridotto i tre atti originari a due, e sul finire del primo atti ha inserito il concertato composto dal quintetto in scena e dal coro che commenta l’omicidio da dietro le quinte. Così facendo però, venne a mancare un evento drammaturgicamente cruciale che potesse concludere in modo adeguato l’atto I. Ecco allora brillare il genio di Mozart: prima musica in maniera sublime il concertato, conferendogli quel carattere di anti – climax (dopo l’Allegro iniziale, il carattere corale delle voci emerge soprattutto all’altezza del successivo Andante, durante il quale giunge la notizia della morte dell’imperatore) che imprime una brusca frenata al ritmo drammatico, creando un atmosfera‘galleggiante’ su cui si conclude così l’atto in un’aura di mistero; poi ha l’intuizione scenografica di rendere visibile un passaggio che in Metastasio è solo narrato, quello cioè dell’incendio del Campidoglio. E così, nello stesso teatro che aveva battezzato l’episodio finale di Don Giovanni, col protagonista scaraventato negli inferi dal convitato di pietra (si legga il Da Ponte: «foco da diverse parti» e «il foco cresce»), divampano ora le fiamme che avvolgono il colle romano (si legga Metastasio: «Annio che fai?/Roma tutta è in tumulto; il Campidoglio/vasto incendio divora»); sfondo visivamente potentissimo alla vicenda umana e musicale,consideratala dinamica (pianissimo) cui sono ridotte orchestra e voci sulla scena, al calar del sipario.

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Il secondo atto si apre con un recitativo secco, che ci svela fin da subito che Tito è scampato alla congiura, ed è ancora in vita. Saggia decisione drammaturgica, nonché fonte di sconcerto per protagonisti e pubblico, i quali avevano concluso l’atto precedente credendolo morto. L’incanto melodico di Mozart si posa, in quest’atto, soprattutto sulla figura di Sesto, protagonista prima del terzetto «Quello di Tito è il volto» con Publio e lo stesso Tito, e subito dopo dell’aria-rondò «Deh, per questo istante solo», in cui egli accarezza il pensiero di morire, pur di non soffrire oltre per le pene inflitte all’amico Tito. Se però i versi finali del terzetto (“Chi more/non può di più penar”) ottengono l’assenso musicale dell’orchestra, non altrettanto si può dirsi per quelli che concludono il rondò (“Tanto affanno soffre un core/Né si more di dolor!”), che invece vengono presentati in una veste musicale contraria al loro significato. Citiamo Raffaele Mellace: “La melodia da rondò di Sesto fa la sua comparsa da un ‘altrove’ di siderale lontananza, come una voce di quasi metafisica gratuità, estranea a ogni dolore, che pare risolto in un gioco di innocenza primigenia. Un ritorno alle origini vicinissimo a certe atmosfere del Flauto magico e ad altre melodie del Mozart estremo”. Vale la pena soffermarsi anche su un’altra cifra significativa della partitura, e in particolare su due scelte timbriche di rilievo: l’una ricade sul clarinetto, l’altra sul suo ‘fratello’ dal suono profondo, il corno di bassetto (parente prossimo del clarinetto contralto, ma con cameratura più stretta ed estensione più ampia nel registro grave). Il primo spicca, nell’atto I, nell’addio di Sesto a Vitellia, l’aria «Parto, ma tu ben mio», dove col sul timbro vellutato e suadente racconta del dominio fatale degli affetti sulla volontà umana, in magnifico stile concertante; il corno di bassetto si afferma invece in uno dei punti più conosciuti della partitura, l’aria «Non più di fiori», con la quale Vitellia rinuncia al soglio imperiale pur di salvare Sesto. Dopo una prima sezione dal sapore liederistico si passa, in quest’aria dell’atto conclusivo, ad una seconda parte caratterizzata da un’intensa articolazione vocale, contrappuntata dalla linea scura del corno di bassetto. Come ha scritto Giovanni Ballola, questo muggisce cupo come il Minotauro del labirinto di Borges, facendo eco con la sua voce sinistra all’indugiare della voce nel registro basso, lì dove la melodia rassomiglia a quella dell’aria-rondò di Sesto: idea fissa e pervasiva della morte come meta ultima e fonte di redenzione d’ogni peccato.

 

 

L’orchestra della Clemenza, rispetto a quella dell’altro capolavoro serio mozartiano (Idomeneo, re di Creta, 1781), si caratterizza per le dimensioni più ridotte, che l’avvicinano paradossalmente agli organici strumentali delle opere buffe scritte in collaborazione con Da Ponte; tolto il succitato corno di bassetto, essi sono infatti praticamente gli stessi. La raffinatezza timbrica però, svolge ora l’insostituibile funzione di ‘umanizzare’ con estrema delicatezza la rigida sacralità del dramma metastasiano. I corni, oltre al consueto rinforzo armonico nel registro centrale, sostengono la voce di Publio dell’unica aria solistica del personaggio («Tardi s’avvede»), in cui il basso ricorda machiavellicamente a Tito che a pensar male degli altri si fa peccato, ma spesso ci si indovina. Le trombe, da par loro, vengono impiegate in particolare nelle scene di giubilo collettivo, quei momenti intrisi tanto di semplicità popolaresca quanto di autentico ed intenso sentimento religioso. Con mirabile perizia, ai legni è demandata la funzione di intensificazione espressiva, che privilegia il ricorso a un florilegio di combinazioni timbriche sempre differenti, più che l’uso di timbri ‘puri’. Si vedano, in tal senso, gli accostamenti di flauti e fagotti nell’aria di sortita di Vitellia «Deh, se piacer mi vuoi», che tradiscono il tono falsamente condiscendente del soprano, nell’impasto del fagotto con un altro strumento ad ancia doppia come l’oboe nella seconda aria di Tito «Ah, se fosse intorno al trono», dal ritmo marcato. Come già accaduto nella trilogia dapontina, quindi, la struttura dialogica della scrittura di archi e legni ‘vivifica’ in mille modi la partitura.

La Clemenza di Tito è un’opera dalle molte anime. Senza dubbio si tratta di un testo politico; anzitutto perché, in un momento storico difficile come la Rivoluzione francese, che da lì a poco avrebbe fatto saltare più di una testa, si prefigge l’arduo compito di esaltare l’ideale di magnanimità e saggezza, di clementia in sostanza, di un sovrano come Leopoldo II, che primo al mondo adottò gli ideali di Cesare Beccaria con la promulgazione del Codice leopoldino (il quale abolì d’un colpo lesa maestà, confisca dei beni, tortura e pena di morte). Ma la drammatizzazione delle virtù del princeps è essa stessa scuola politica, e delle migliori: la lezione machiavellica che il sovrano impartisce a sé stesso osservando le proprie qualità riflesse in uno specchio (non a caso Seneca nel suo De clementia: “Scribere de clementia, Nero Caesar, institui, ut quodam modo speculi vice fungerer”). Ma la Clemenza, ci ricorda il regista Luca Ronconi, è un’avventura interiore prima ancora che un complotto di palazzo, ed è un racconto d’amore e amicizia. La congiura ordita da Vitellia e Sesto contro Tito, che lei ama senza essere ricambiata, ha poco dell’atto, diciamo così, terroristico. Sta tutta nelle ragioni del cuore. Il quintetto finale del primo atto diventa la storia cantata di cinque amici; come in un sottile gioco di fili invisibili, si spostano gli equilibri e mutano i rapporti di forza, al divenire uno di loro imperatore. Ed è paradossale, allora, che nell’opera forse meno amata tra quelle della maturità di Mozart, si trovi un’umanità così viva e potente. La si avverte ad esempio nel recitativo accompagnato di Tito, in cui Cesare invidia al povero villanello il conoscere le intenzioni di ciascuno, senza dovere prima affannarsi a dimostrarne la veridicità, «mentre noi» – lamenta – «fra tante ricchezze sempre incerti viviam». È una scelta difficile e sempre attuale, ne conveniamo, quella tra il cuore e la ragione, come sa Publio, che nel terzetto con Sesto e Tito ricorda come in quest’ultimo “Mille diversi affetti guerra fanno”.  Ci sembra opportuno allora concludere questo articolo con le parole di un grande critico musicale come Paolo Isotta, che mettendo a confronto tra loro l’Idomeneo e la Clemenza, scrisse: “Tra le due opere la differenza fondamentale è questa, che nella prima l’elemento drammatico è molto più spinto e corrusco, mentre nella seconda la luce è uniformemente e dolcemente diffusa come su di una superficie marmorea. L’ambizione della perfezione classica e l’atmosfera neoclassica vi formano un tutt’uno. Ma l’elemento tragico, in stile sublime, vi è così presente che noi daremmo tutto il flauto magico in cambio del Finale I della Clemenza […].”. E lo faremmo perché, al pari del resto dell’opera, ha qualcosa di imponderabile, commovente, umano.

Roberto Imparato

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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