Il quartetto n.8 op.110 di Šostakovič: storia e analisi di una musica brutta

“Ho composto questo quartetto ideologicamente condannabile e di cui nessuno ha necessità. Mi sono detto che se dovessi morire un giorno nessuno penserebbe a scrivere un’opera in mia memoria. Così ho deciso di scrivermela da solo. Si potrebbe mettere sulla copertina: “Dedicato alla memoria dell’autore di questo quartetto”.

Autore: Matteo Macinanti

27 Gennaio 2017

Ideologia, condanna, necessità, morte, memoria.
Basterebbero queste cinque parole, contenute nella lettera inviata all’amico Isaac Glikman il 19 Luglio 1960, per riassumere il Quartetto n.8 op.110 di Dmitrij Dmitrievič Šostakovič.


Il compositore si trovava in quel periodo in una città della Sassonia a 40 chilometri da Dresda, città in cui si era recato per visionare le riprese di un film del quale avrebbe dovuto scrivere la musica.
Šostakovič aveva avuto modo così di toccare con mano uno dei simboli più grandi delle distruzioni della Seconda Guerra Mondiale: Dresda, la città della Germania che tra il 13 e il 14 Febbraio del 1945 aveva subito uno degli attacchi aerei più efferati durante il periodo bellico.
L’avversione di Šostakovič per la musica da film lo accompagnava già da molto tempo e fu per questo che, ispirato dalla situazione favorevole e dalla bellezza della piccola cittadina dove soggiornava, decise di indirizzare la sua ispirazione verso un ottavo quartetto per archi.

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“Contro la sorte non c’è ricorso”

La guerra, con tutte le ferite traumatiche inferte al compositore e, di riflesso sulla sua musica, allora era finita da molto tempo ed anche Stalin, “l’uomo di acciaio”, era morto ormai da 7 anni; se il compositore però pensava di essersi liberato dall’oppressione psicologica che il Partito esercitava su di lui, dovette presto ricredersi: Chruščёv aveva sì avviato la cosiddetta destalinizzazione e lo stesso compositore pensava di poter tornare a “respirare liberamente, a pieni polmoni” , ma in poco tempo quest’ultimo si ritrovò a fare i conti con una nuova linea politica non molto differente dalla precedente sul piano della censura.
In questo contesto, il Segretario del Partito Comunista aveva caldeggiato la nomina di Šostakovič a Presidente dell’Unione dei Compositori della Russia ma per ottenere ciò era necessario che il compositore sottoscrivesse ufficialmente la sua adesione al Partito.
Numerosi furono i tentativi di Šostakovič di evitare questa nomina tanto sgradita, ma alfine, dopo essere riuscito per una volta a far saltare la cerimonia di adesione, fu costretto a leggere pubblicamente la dichiarazione appositamente preparatagli per l’occasione.
Fu in preda alle lacrime e alla disperazione che il compositore si sfogò con l’amico e confidente Glinkman dicendogli: “mi inseguono da molto tempo, mi perseguitano…”.
Depauperato ancora una volta della sua libertà creativa d’artista, è uno Šostakovič sconfortato quello che si appresta a comporre, in soli 3 giorni e di getto, il quartetto al quale affiderà tutte le sue amarezze dolorose di uomo e artista assoggettato alla volontà altrui (“Contro la sorte non c’è ricorso” disse all’amico, citando i versi di Puškin).
Ancora una volta, e forse più di tutte, il quartetto diventa così per il compositore russo il luogo in cui, lontano dalle ingiunzioni celebrative alle quali doveva obbedire (pur con molte riserve) nella creazione delle sinfonie, egli può dare libero sfogo al suo desiderio più intimo e profondo.



“Dedicato alla memoria dell’autore di questo quartetto”

“Provo eterno dolore per coloro che furono uccisi da Hitler, ma non sono meno turbato nei confronti di chi morì su comando di Stalin. Soffro per tutti coloro che furono torturati, fucilati, o lasciati morire di fame. Molte delle mie Sinfonie sono pietre tombali. Troppi della nostra gente sono morti e sono stati sepolti in posti ignoti a chiunque, persino ai loro parenti. Dove mettere le lapidi? Solo la musica può farlo per loro. Vorrei scrivere una composizione per ciascuno dei caduti, ma non sono in grado di farlo, e questo è il solo motivo per cui io dedico la mia musica a tutti loro”

Nonostante la dedica iniziale sia rivolta “aIle vittime della guerra e del fascismo” il quartetto n.8 si presenta come un’opera del quale il compositore si rivela allo stesso tempo destinatore e destinatario.
La volontà di calare la sua stessa esperienza di uomo e artista nella propria musica risulta patente dalle primissime battute del quartetto; scrive il compositore nella stessa lettera di presentazione del quartetto all’amico Glikman
“Il tema principale del quartetto sono le note D. Es. C. H., ossia le mie iniziali.”

Il filo conduttore che lega la totalità di questa composizione è difatti un tema di quattro note (Re, Mi bemolle, Do, Si) che, trasposte nella notazione tedesca, si identificano con le iniziali del nome dell’autore (DSCH).
Come già Bach aveva espresso il suo nome in termini di note musicali, così anche Šostakovič, fiero di poter apporre la propria firma nelle sue musiche, si servirà diverse volte di questo breve motivo lungo tutta la sua attività compositiva.
Se però, in queste numerose opere, la firma musicale del compositore appare talvolta come un lampo o comunque in modo fuggevole, nel quartetto n.8 questo motivo rappresenta le fondamenta sulle quali si erge una costruzione i cui mattoni sono bitumati con il grottesco, la violenza, il parossismo ed infine la morte.

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(la firma di Šostakovič nella grafia latina, musicale e cirillica)


Una sacra insalata a base di anamnesi e introspezione

L’intento del compositore che presiede alla creazione del Quartetto n.8 è pertanto una volontà di introspezione interna.
Nel fare questo il compositore non si limita però a tratteggiare semplicemente uno stato d’animo passeggero od una determinata situazione psicologica, ma, con un procedimento quasi psicanalitico, egli si volta indietro a guardare il suo passato e a ripercorrere la sua stessa vita attraverso gli episodi che più hanno segnato la sua esperienza di compositore sotto il regime stalinista.
Scrive il compositore:
Mi sono servito dei temi di alcune mie composizioni e del canto rivoluzionario “Vittima della terribile prigione”. I miei temi sono i seguenti: quelli della Prima e Ottava Sinfonia, del Trio, del Concerto per violoncello, di Lady Macbeth. Faccio allusione anche a Wagner (la Marcia Funebre del Crepuscolo degli dei), e a Čaikovskij (il secondo tema del primo movimento della Sesta Sinfonia). Sì, ho dimenticato la mia Decima Sinfonia. Una sacra insalata.

Percorriamo ora anche noi il sentiero di questa autobiografia musicale articolata in 5 movimenti, addentrandoci nei meandri più oscuri e intimi del genio compositivo di Šostakovič.


Primo Movimento. “E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore, fra i morti abbandonati nelle piazze sull’erba dura di ghiaccio”

Come si è già detto, il Quartetto inizia con la presentazione della “firma musicale” di Šostakovič.
Questo breve motivo ripiegato su stesso si presenta per la prima volta strisciando tra le quattro voci a diverse altezze fino ad arrivare ad una prima affermazione univoca e unisona.
Questa prima illustrazione del motivo DSCH in stile fugato può ricordare l’inizio del Terzo Movimento della Sinfonia n.9 di Beethoven: la musica del compositore pietroburghese rappresenta però una rilettura in chiave novecentesca, e certamente più aspra e terragna, della sonorità angelica e divina che traspare dai legni che danno inizio al movimento della Sinfonia di Beethoven.
Per restare sempre sul modello beethoveniano, non è fuori luogo citare come possibile ipotesto l’incipit del Quartetto op.131, costruito anch’esso in stile fugato a partire da un motivo di 4 note.

Subito dopo l’esposizione di questo micro-tema entriamo nel vivo di quella che abbiamo chiamato “autobiografia musicale”: la prima citazione che incontriamo fa riferimento alla Prima Sinfonia, la composizione preparata per l’esame finale del Corso di Composizione al Conservatorio che lo aveva reso celebre in poco tempo al panorama musicale europeo degli anni ‘20.
La melodia vivace e baldanzosa della tromba che sentivamo nella Sinfonia viene qui rappresentata nel suo stato “invecchiato” e “devitalizzato”, privata com’è della spensieratezza e dell’ardore giovanile.
Questo progressivo invecchiamento terminale appare chiaramente manifesto nel modo successivo di trattare l’organico cameristico: le dolenti discese e salite cromatiche del violino, che obbediscono al topos del dolore come successione per semitoni di note e che hanno l’aspetto quasi di un’ “antimelodia”, si stagliano sul panorama morto e arido che offrono gli altri archi i quali, suonando sulle corde vuote, non hanno possibilità di procurare nessuna vibrazione vitale al pianto del primo violino.
Dopo una riproposizione del motivo DSCH, la battuta 50 presenta un movimento ritmico (dattilo-spondeo: lunga,breve,breve-lunga,lunga) che troveremo in una veste completamente trasfigurata nel movimento successivo.
Su questa metrica il canto del violino sembrerebbe quasi assumere un’aria più speranzosa e meno affossata dove il cromatismo doloroso viene messo da parte, se solo non fosse che a questa apertura si oppone come un muro a 4 voci il solito motivo DSCH.
Ritorna così l’andamento cromatico che serpeggia ora al violoncello ora al violino e spazza via ogni illusione di possibile rinascita: come al desiderio di ricostruire la città di Dresda si oppone l’entità delle distruzioni, così alla ricostruzione di una identità libera e non più oppressa del compositore è di impedimento la stessa realtà dei fatti.
È qui però che Šostakovič ci stupisce: egli non si ferma alla sola visione passiva della propria desolazione ma, una volta ripresentato il tema “invecchiato” della Prima Sinfonia e il ritmo dattilo-spondeo, inserisce una marcia più alta e, con uno zoom che arriva dritto al suo cuore, esplode in un urlo nero in cui la speranza in questo momento risulta essere quanto di più lontano possibile si possa immaginare.


Secondo Movimento. “…al lamento d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo?”

Non c’è più spazio per le illusioni: Dresda, come il cuore del compositore, è un luogo completamente distrutto e privato della linfa vitale.
Il violino riprende il movimento ritmico dattilico del primo movimento e lo porta allo stremo in una fuga senza direzione e senza meta alla quale fanno da contrappunto gli accordi strappati (segnati con sfff: fortissimissimo sforzato), alcune volte sul battere e altre in controtempo, del resto dell’organico.
Se per caso ci fossimo scordati del motivo DSCH, Šostakovič ce lo ricorda presentandolo ormai sotto forma di schegge impazzite che partono in tutte le direzioni dall’insieme delle voci (battute 64-67) oppure come ripetizione parossistica e grottesca (b.69-75): mai come in questo momento la trasposizione musicale del nome, e quindi dell’identità, dell’autore è apparsa più ossessiva o inquietante.
L’atmosfera cupa e ottenebrata dal cromatismo più sfrenato acquista mano a mano potenziale elettrico e, dopo un terribile climax, esplode in un episodio musicale sul quale è il caso di soffermarsi.
Sugli accordi in terzine di viola e violoncello, che già di per sé emanano una potenza sonora di ripieno orchestrale, viene presentata una melodia dei due violini a due ottave di distanza costruita sulla scala orientale, e più propriamente ebraica, che Šostakovič aveva già usato nel suo Trio n.2 per Pianoforte, Violino e Violoncello.
Lungo e degno di approfondimento è il legame che lega Šostakovič alla cosiddetta musica klezmer, ossia la musica popolare degli ebrei dell’Europa dell’Est.
Basti dire per il momento che la presenza delle sonorità ebraiche, per quanto riguarda ritmo e costruzione di scale, risponde ad una precisa motivazione del compositore il quale aveva a cuore le sorti del popolo ebraico, vittima indiscussa dell’antisemitismo nazista come, è il caso di dirlo, di quello stalinista.
Il compositore, dando spazio nelle sue musiche ai suddetti influssi musicali ebraici, vuole legare la sua esperienza a quella del popolo ebraico: entrambi sono infatti assoggettati ad un potere più grande di loro e la loro condizione non permette nessun tipo di rivolta.


Dopo un’ulteriore ripetizione nevrotica di questa melodia e del motivo DSCH ripresentato  in modo sempre più esasperato, le voci cominciano a riaccumulare energia per mezzo di una salita cromatica verso le sonorità più acute, per poi rilasciarsi ancora nuovamente nella presentazione del tema ebraico ma, questa volta, a parti alternate, ossia con la conduzione affidata a viola e violoncello e gli accordi “orchestrali” ai due violini.
Con un taglio netto e deciso Šostakovič interrompe il secondo movimento e dà il via ad un altro Allegro (questa volta Allegretto) dove l’orrore e il terrore lasciano lo spazio al grottesco e al macabro.


Terzo Movimento. “Alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre cetre erano appese.”

L’immancabile motivo DSCH apre questo movimento con una sonorità decisamente aspra e stridula per lasciare immediatamente il posto ad un tempo ternario che invita alla danza.
È proprio un valzer mortuario quello che si svolge nel terzo movimento, costruito, anch’esso sul DSCH, ma suonato con note puntinate quasi in punta di piedi: piedi sì, ma di scheletri.
A questo, solo apparentemente innocente, valzer macabro, viola e violoncello presentano il sostegno del basso, desunto anch’esso dal tipico accompagnamento della fisarmonica o del violoncello proprio delle orchestrine klezmer.
La suddetta apparente innocenza viene smascherata quando i nostri scheletri danzanti inciampano sullo spostamento insensato d’accenti del violoncello (battute 42-45).
Dopo la ripetizione di questo valzer sghembo si profila uno scenario così orrendo che, a parere di chi scrive, rappresenta il momento più terrificante dell’intera composizione.
Già avevamo incontrato le corde vuote che avevano fornito un pedale desolante nel primo movimento ma, adesso, le corde vuote, simbolo di morte e di assenza di vibrazione vitale, vengono proposte alla melodia principale: il violino primo suona così tutte e 4 le corde vuote come per simulare un’accordatura con le profondità più infere dell’aldilà seguite da alcuni pizzicati acidi del secondo; si viene così a creare un urto dato dall’incontro straniante tra le componenti grottesche, macabre e tragiche, il tutto condito dal “sapore” in modalità maggiore delle note sol-re-la-mi.
Scrive il compositore nella già citata lettera di presentazione:

La componente pseudo-tragica di questo quartetto è tale che, mentre scrivevo, ho versato tante lacrime quanto la quantità di urina che si perde dopo una metà dozzina di birre. Ritornato in me, ho provato a suonarlo uno o due volte e ho ripreso a piangere. Ma questa volta meno a causa dello pseudo-tragico e più per lo stupore davanti alla magnifica integrità della forma.

A battuta 117 l’ambiente tramuta ancora: il tempo ternario viene cancellato dal 2/2 della viola che supporta in modo isterico una nuova riproposizione del DSCH in una salsa ancora klezmer e popolareggiante.
Lo scontro di metri pari e dispari viene annullato a battuta 151 da un nuovo episodio: l’atmosfera pestilenziale diviene momentaneamente diafana e quasi eterea e, sulle ripide scale cromatiche dei violini, il violoncello canta la sua melodia in un registro alto e poco spontaneo.
Riprende così il valzer degli scheletri ma questa volta fa da pedale un innaturale mi bemolle del violoncello.
Con la riproposizione degli elementi già trattati prima, e con la citazione dell’inizio del Concerto per Violoncello, questo movimento si avvia alla conclusione e, all’inserimento di una velocità superiore innescato al secondo movimento, avviene ora una decelerazione che prelude, senza soluzione di continuità al movimento successivo.


Quarto Movimento. “oscillavano lievi al triste vento.”


“È il KGB che bussa alla porta di mio padre”.

Pare che siano state queste le parole di Maxim Šostakovič quando gli venne chiesto cosa simboleggiassero i colpi pesanti che il padre aveva stampato all’inizio del quarto movimento.
Mentre il resto dell’organico prorompe in queste brusche percosse il violino primo si porta dietro dal movimento precedente un interminabile la# che, ad un ascoltatore contemporaneo abituato alle serie mediche televisive, potrebbe ricordare il segnale sonoro che indica il tracciato piatto di un elettrocardiografo di un moribondo al quale si cerca di applicare un defibrillatore.
A nulla servono gli interventi degli altri archi che nel frattempo mutano da un accordo dissonante ad uno inaspettatamente in fa# maggiore.
E così dopo gli inutili tentativi di rianimazione, il bordone del violino primo incomincia a muoversi, ma questo movimento nasconde invece una notizia peggiore: in modo stanco e privo di forze il violino accenna infatti alla melodia gregoriana del Dies Irae, la sequenza più nota della messa esequiale.
Una volta dissolta citazione, può iniziare di conseguenza il pianto robusto, logorante ed disperato del resto dell’organica.
Questa melodia ha una particolarità costruttiva davvero notevole: le 3 voci difatti hanno un andamento omofonico e omoritmico, ossia suonano le stesse note allo stesso ritmo.
Non c’è più spazio per l’armonia, per la costruzione di accordi dissonanti o particolari; no, ora si è al grado zero della propria esistenza.
Di qui non si può andare più in basso, ed è così che dopo un nuovo intervento dei colpi sul fortissimo (che sono una citazione sia del terzo movimento della Quinta Sinfonia, sia degli accordi orchestrali nella Marcia Funebre del Crepuscolo degli Dei wagneriano) appaiono due citazioni importanti: la prima, a battuta 76, viene dal canto rivoluzionario “Vittima di una terribile prigione”, allora noto a tutto il pubblico, del quale è inutile rimarcare il significato autobiografico; la seconda citazione invece inizia a battuta 132, ma è già introdotta dal cambio di tonalità che diventa maggiore.
Questa citazione viene affidata al canto del violoncello ed è ripresa in modo del tutto manifesto da un’aria, desunta dall’opera di Šostakovič  “Lady Macbeth del distretto di Mcensk”, che il personaggio Katerina indirizza a Sergei:

https://youtu.be/TcIg-avkBCg?t=7m10s

Sereza, mio caro!
Finalmente!
Non ci siamo visti in tutto il giorno, Sereza!
Mi è passato persino il male alle gambe,
e la stanchezza, e la pena,
tutto è dimenticato,
quando tu sei con me,
Sereza, Sereza!

Questo momento in maggiore rappresenta forse la prima boccata aria che ci possiamo permettere dopo 17 minuti circa di musica.
Ma, come nell’opera la nenia di Katerina viene interrotta bruscamente da Sergei il quale rinfaccia alla donna le sue colpe, anche nel quartetto questa improvvisa apertura speranzosa viene riaffossata prontamente dal bussare spaventoso alla porta.
Una nota a parte merita questa rievocazione dell’opera più famosa del compositore russo: difatti “Lady Macbeth” è la composizione più emblematica del travagliato rapporto tra Šostakovič e Stalin in persona.
Quest’ultimo, dopo aver assistito alla rappresentazione dell’opera che aveva già ottenuto un successo incredibile, se ne andò indignato in mezzo all’esecuzione: il giorno dopo sulla Pravda, il giornale ufficiale, apparve un articolo intitolato “Il caos anziché la musica” in cui le accuse erano tutte indirizzate al formalismo e alla “bruttezza” dell’opera di Šostakovič.
Lady Macbeth pertanto venne considerata “inadatta al popolo sovietico” e venne censurata per quasi 30 anni.

Dopo questa citazione che entra nel vivo della biografia dell’autore, il quarto movimento si avvia alla conclusione, non prima però di aver accennato ancora una volta al tema del Dies Irae.


Quinto Movimento. “E dalla notte, lugubremente listata di nero, scorreva, scorreva un rigagnolo di sangue purpureo.”

Caso più unico che raro, il quartetto di Šostakovič , dopo il Largo del IV movimento, presenta un ulteriore e finale Largo.
Questo dislocamento della disposizione dei movimenti secondo l’usanza alternata (Allegro, Adagio, Allegro, Allegro Finale) vuole sottolineare, nel caso non fosse stato colto, ancora una volta l’atmosfera profondamente pessimista che presiede alla composizione del Quartetto, ma obbedisce inoltre ad un criterio compositivo circolare: il Largo finale infatti presenta gli stessi elementi del Largo iniziale.
Non c’è direzione, non c’è metà, niente cambia e tutto resta uguale in uno stato di amorfismo piatto e incolore.

Solo un leggero movimento ondeggiante presentato per la prima volta a battuta 9 dal violoncello viene aggiunto ma altro non è che un’ulteriore sottolineatura di un moto vago  e senza direzione come di un legno che, appartenuto un tempo al telaio di una gloriosa nave, erra come naufrago nella vastità informe della massa oceanica.
Per un’ultima volta compare il nome del compositore ma questa volta si è davvero giunti alla fine e non c’è altro da aggiungere perché le forze hanno ormai lasciato definitivamente questo corpo invecchiato che, obbedendo all’indicazione “morendo” in partitura, si chiude nel silenzio del nulla di una morte atea.

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Il Quartetto n.8 op.110 venne suonato, come indicato dal compositore, al suo funerale e assunse così, oltre all’ampiamente discusso significato autobiografico, anche la forma di una lapide sonora, una pietra tombale conficcata nell’esistenza non priva di dolori di un uomo: Dmitrij Dmitrievič Šostakovič.

Matteo Macinanti

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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