Rigoletto: vent’anni di Romanticismo in Europa, da Hugo a Verdi

 Verdi e Hugo sotto il segno della censura: l’interesse per il ‘brutto’ come categoria edificante

 

Autore: Emanuele Franceschetti

19 Dicembre 2016

Con la pubblicazione del dramma Hernani, nel 1830, può ritenersi avvenuta– pur con la cautela con la quale ogni periodizzazione andrebbe effettuata- la nascita del Romanticismo Francese. Le prefazioni con le quali Hugo introduce i suoi lavori riescono a diventare dei veri e propri casus belli: la questione estetico-politica (che è anche universale, spirituale e sociale), è destinata a non rimanere isolata e circoscritta.  Il dramma, e l’arte tutta, secondo Hugo, devono aderire alla complessità del reale, esser capaci di un linguaggio libero e universale, moderno: il bello cui Hugo mira non sarà il bello formalizzato, marmoreo e silente del classicismo, ma un bello caratteristico, poliforme, integrale.


In Hernani sarà perentorio: il Romanticismo dovrà equivalere al liberalismo nella letteratura. Non più Corneille, ma Shakespeare, come nume tutelare.
L’idea di un teatro che sappia realizzare un’estetica meno aurea e più reale, bendisposta verso la commistione linguistica, libera dai vincoli delle unità aristoteliche, persino capace di accettare e riprodurre la categoria del ‘difforme’, conduce inevitabilmente a Le roi s’amuse, pièce del 1832. Triboulet, buffone deforme nella cui caratura fisica sembrano prender vita le cattive affezioni e le brutalità della corte di Francesco I, è parte attiva di un contesto sessualmente perverso e moralmente decaduto. Il meccanismo in cui è coinvolto finisce però per trascinarlo nelle sue stesse pieghe: abiezione per abiezione, il rapimento della figlia Blanche da parte dei cortigiani e il proposito di vendetta di Tribouet d’assassinare Francesco I, spingono dritto nel baratro un dramma di cattive intenzioni, cattivi costumi e cattivi proponimenti. Blanche, che del Re era davvero innamorata, preferirà sostituirsi a lui nell’ingranaggio imbastito dal padre per assassinarlo, diventando vittima dello stesso universo di insensata violenza e prevaricazione che Triboulet pareva voler punire, in una radicale ri-presa di coscienza di sé e del proprio mondo. Quanto entra in scena in Le roi s’amuse è, secondo Hugo, morale. Morale perché aderente al vero, alla realtà effettiva delle cose, non idealizzato. L’abiezione morale dei cortigiani e le difformità cui il fato condanna gli individui sono, se così possiamo esprimerlo, natura ( ‘’cosa bella e grande è veder spiegarsi con sì maestosa ampiezza dinanzi a noi un dramma in cui l’arte sviluppa con potenza la natura’’). Nella rappresentazione in scena del brutto e dell’immorale c’è tutta la vis anarchica e morale di Hugo.
Giuseppe Verdi, che in quegli stessi anni stava terminando il proprio apprendistato, e che di lì a breve sarebbe stato consacrato come il grande padre del teatro in musica dell’Ottocento italiano, sceglierà in più d’un’occasione testi di Hugo per la riduzione a libretti per le proprie opere. Dopo Ernani (1844), sarà proprio Rigoletto (1851) a segnare una svolta radicale nel suo percorso compositivo e drammaturgico.

Le diverse declinazioni del Romanticismo in Verdi

Quella dell’unità stilistica ipoteticamente riscontrabile nell’opera di Verdi è una questione lungamente dibattuta in ambito critico e musicologico. Lungamente e- forse- vanamente, se è vero, come nota acutamente Massimo Mila, che l’arcata cronologica sui cui Verdi vive ed agisce rende la sua opera difficilmente analizzabile alla luce di un unico punto di vista, pensando, quindi, che da Oberto a Falstaff un’unica linfa ispiratrice abbia mosso la penna del maestro. Ci sono, in Verdi, invece, tanti ‘momenti’, quante sono, di volta in volta, le personali svolte artistiche ed umane, i ripensamenti e le incertezze, le conquiste tecniche e linguistiche, i mutamenti d’obiettivi e punti di vista: Verdi, vive –quasi- tutto l’Ottocento, cavandone fuori un lavoro sontuoso, poliforme, diversificato, intuendo i cambiamenti politici e letterari, rendendosi sempre, quindi, un acutissimo ‘radar’ del proprio tempo. Alcuni esempi e precisazioni possono essere utili, in questo senso.
Nabucco, opera del 1842 su libretto di Temistocle Solera, che sembra offrire a Verdi un primo successo reale dopo anni di fallimenti artistici e drammi personali, è, come si suol dire, un lavoro ‘corale’. L’affresco di una collettività in lotta per la libertà in un preciso contesto storico: un lavoro palesemente influenzato dal grand opèra, dove l’afflato ‘romantico’ è tutto nel prorompere della vox populi che grida contro la vessazione babilonese. La vicenda umana, individuale, all’interno, seppur non marginale, non rappresenta il focus dell’opera, che si snoda tutta attraverso meccanismi di attacco e difesa, tradimento e punizione, illuminazione e redenzione, senza che i protagonisti ‘ricevano’, da parte della partitura verdiana, un trattamento che li elevi a figure complesse, multiformi, centripete. Nelle opere degli anni Quaranta, dopo Nabucco (siamo già nel cuore dei celeberrimi ‘anni di galera’), l’ ‘’occhio di bue’’ dei drammi verdiani si concentra tutto su un personaggio, eroe o anti-eroe attorno al quale la vicenda ha modo di dipanarsi e gli altri personaggi, al massimo, arricchire la narrazione accrescendone la complessità. Ernani, Giovanna d’Arco, Attila, sono lavori frutto di tale ispirazione.
Verdi, come già si scriveva precedentemente, pur non essendo uomo di lettere, nella sua caccia perenne di una materia letteraria convincente ed idonea (è già pienamente ‘uomo in carriera’, e il lavorìo frenetico al pianoforte per poter portare a termine con puntualità i propri lavori, e è affiancato sempre, se non superato, da quello di ricerca di nuovi soggetti e –spesso- di nuovi librettisti) si dimostra un acuto conoscitore della sua epoca. I soggetti di questi anni attingono tutti – e già questo la dice lunga sulla sensibilità estetico-letteraria del compositore di Busseto- da lavori di Schiller, Shakespeare, Byron, Hugo. Non è esagerato affermare che le scelte di Verdi si configurano come un potenziale ‘termometro’ del mondo letterario di metà Ottocento: il teatro che prende vita nelle mani di Verdi (ma anche: il teatro cui Verdi si rivolge) è il teatro Romantico. La presenza costante di Shakespeare, inoltre, tanto in Verdi (continua, seppur talvolta solo in nuce, nei pensieri e nei progetti) quanto in Hugo (che lo menziona nei suoi scritti), è un altro indicatore rilevante di quale fossero gli autori ritenuti modelli, archetipi: Shakespeare, su tutti. Il quale, se autore ‘romantico’ non poteva esserlo cronologicamente, era invece il modello di un teatro liberato dalle briglie delle unità e del buongusto settecentesco. Verdi, più d’ogni altro, sarebbe stato affascinato dai drammi ‘totali’ Shakespereani, indagatori senza precedenti del baratro e delle contraddizioni umane. Shakespeare, per Verdi, sarebbe stato il sigillo della maturità (oltre ad un precedente autorevole come Macbeth), con opere definitive come Otello e Falstaff. Ora, negli anni quaranta, Verdi stava ancora camminando magnis itineribus sulla via del perfezionamento compositivo e drammaturgico.
La grande svolta dei primi anni cinquanta, quando prende vita la ‘trilogia popolare’ (altrove anche ‘trilogia romantica’), è anche ed indubbiamente il frutto di una maggiore distensione, di una minor compressione del lavoro, che certo permettono a Verdi di lasciar maturare in lui con più naturalezza il senso musicale, i caratteri, la ‘tinta’ del lavoro in corso. L’apprendistato è definitivamente compiuto. Rigoletto e Traviata (più del Trovatore) incarnano un Romanticismo maturo, complesso, tutto tagliato su una conflittualità ora più che mai interna, intima, totale, che rende i personaggi lontani da modelli standardizzati di tiranni liberticidi ed eroi appassionati. La metà ‘tonda’ dell’Ottocento, va ricordato, è l’epoca di Dickens, Dostoevskij, Balzac: rispetto alla Germania, che sembra aver esaurito le possibilità della grande narrazione (c’è addirittura chi parla di un grande vuoto tedesco tra Goethe e Thomas Mann), altrove la tensione letteraria è tutta volta allo studio reale ed integrale dell’uomo, dei suoi turbamenti interiori, delle sue crisi psicologiche e relazionali. Si può dire che Rigoletto e Traviata non giungano ad esiti così diversi dagli altri capolavori europei coevi: e se nel secondo caso possiamo addirittura parlare di dramma borghese, con la sua articolata ed affascinante dialettica ‘ragioni del cuore-morale dominante’, nell’altro ci troviamo davanti ad una cupa e spettacolare raffigurazione del dolore e della solitudine, acuiti e drammatizzati dalla compresenza di ruoli inconciliabili; il buffone e il padre, lo schernitore e il giustiziere, il deforme e lo strenuo difensore della dignità di Gilda. Su tutto avrà però ragione la maledizione scagliata addosso a Rigoletto poco dopo l’apertura del sipario: facendosi vero motore dell’opera (lo stesso Verdi avrebbe voluto intitolarla ‘’La maledizione’’), garantisce l’impunità del libertino (il Duca di Mantova) e costringe  Rigoletto ad un macabro pianto sul corpo della figlia Gilda, sacrificatasi proprio per la salvezza del Duca, cui erano rivolte le mire di vendetta di Rigoletto. Il Triboulet messo in scena e musicato da Verdi è un doppio-moderno di un vecchio eroe Romantico. Come i suoi predecessori, incarna una disperata rivolta contro la Natura: ma l’abiezione ‘antropofaga’ di un mondo ingovernabile, di cui lui stesso è stato parte da sempre, finisce per ripiegarglisi addosso. L’avverarsi della maledizione è l’approssimarsi, inevitabile, del baratro.

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Rigoletto, uomo ‘integrale’: Verdi drammaturgo dell’individuo

Una delle caratteristiche pregnanti del teatro verdiano è l’attitudine a non offrire un punto di vista unico ed inequivocabile allo spettatore-ascoltatore. Il teatro di Verdi, sostanzialmente – ma questo risulta chiaro solo ad un’osservazione lucida e più approfondita- non giudica. Essendo teatro del conflitto (e quindi, per sua stessa vocazione, Romantico), è anche teatro della pluralità dei punti di vista. E gli stessi personaggi, si è già evidenziato, sono individui ‘plurali’, multiformi, complessi. Rigoletto è certo il più rappresentativo di questa categoria. Quando, sulle prime, lo vediamo dimenarsi grottescamente e deridere le vittime del Duca, lo riceviamo nel nostro immaginario come soggetto deplorevole, come un essere abietto, una sorta di infido Leporello. Eppure, subito dopo la maledizione di Monterone, lo ritroviamo di notte, aggirarsi da solo e in preda ad un delirio ossessivo che è paura mista a rabbia, rassegnazione e speranza, slancio amoroso e disperazione. Dal punto di vista strettamente musicale, è in corso il superamento della composizione a forme chiuse (recitativi, ariosi, cabalette, cavatine, etc.), stratagemma compositivo che all’altezza di Rigoletto sembra aver già esaurito, nella storia del teatro in musica, tutte le sue possibilità. Con Rigoletto Verdi inizia a sperimentare una prosa musicale uniformante, non frammentata in numeri ma strettamente organica alle esigenze sceniche e teatrali. Merita di essere riportata per intero una riflessione del solito Mila:

(in Rigoletto) ..la verità artistica coincide con la verità umana, è quella verità: non un accento fuori posto, non una delle tante ripetizioni che appaio ridicola e ingiustificata. […] Per la prima volta l’ispirazione di Verdi non è passeggera e limitata al patetico di una situazione, ma investe tutta la vita di un personaggio.

La secolare e mai risolta querelle su quale delle due muse dovesse essere al servizio dell’altra, sembra naturalmente risolversi utilizzando un’espressione un po’ maldestra, in un reciproco ‘servizio’, in una comunione d’intenti. La questione potrebbe essere così sintetizzata: il dramma ‘di parola’ suggestiona il compositore, donde scaturisce un materiale musicale non volto a decorare o edulcorare il testo, quanto ad inglobarlo in un nuovo organismo in cui la musica possiede un valore semantico e drammatico altrettanto importante di quello del libretto. E’ noto, anzi, che nel corso dell’Ottocento, e definitivamente con Verdi, il compositore vada acquisendo una preminenza autoriale ben superiore a quella del librettista (Rigoletto è un’opera di Giuseppe Verdi su libretto di Francesco Maria Piave, non viceversa!): è alla musica, ormai, che è affidata la drammaturgia. A tal proposito Verdi è sempre lì a sorvegliare il librettista, affinché il materiale testuale sia plasmato di volta in volta in maniera coerente al pensiero e all’ispirazione della sua musica. La celeberrima espressione ‘parola scenica’ rivela proprio la necessità di possedere un testo che, ove necessario, possa sacrificare la sua stessa poesia per il bene della partitura. Almeno un momento dell’opera merita di essere menzionato e approfondito, in quanto particolarmente significativo per tale compenetrazione: è quello che corrisponderebbe, seguendo la numerazione del libretto di Piave, alle scene settima e ottava.
E’ notte: Rigoletto ha appena ricevuto la maledizione di Monterone. E’ avvolto nel suo mantello, crede d’esser solo, all’esterno. C’è invece Sparafucile a seguirlo (il Saltabadil di Hugo), personaggio che si rivelerà poi decisivo per gli esiti del dramma. E’ uno dei momenti più intensi e complessi dell’intera opera: Rigoletto affronta e subisce, nell’arco di pochi minuti, tutte le ‘affezioni’ cui la sua condizione lo hanno, suo malgrado, costretto. Ripete a se stesso, cadenzandola sul motivo ritmico ‘della maledizione’ (sorta di impronta digitale musicale altamente semantizzata, associata proprio all’anatema ricevuto da Monterone) la frase ‘Quel vecchio maledivami!’: l’orchestra imbastisce una sonorità cupa, sotterranea, notturna, con violoncelli e contrabbassi. Un dialogo tra strumenti ‘bassi’, proprio nel momento in cui Sparafucile (assassino di professione, e quindi figura oscura, infernale) entra in scena ed inizia il breve dialogo con Rigoletto: ecco che l’orchestra, discretamente, interpreta esattamente lo svolgimento dell’azione. Il dialogo con Sparafucile serve a mettere al corrente Rigoletto della possibilità che il criminale, volendo, gli offrirebbe: uccidere, dietro compenso, il Duca, che Sparafucile stesso immagina inviso a Rigoletto per ragioni di gelosia. Il gobbo è stato visto continuamente avvicinarsi all’abitazione di una fanciulla (che noi sappiamo essere figlia, e non amante di Rigoletto!): nonostante il movente sia diverso da quello apparente, il risultato è lo stesso. Rigoletto capisce che c’è un’effettiva eventualità di mettere la figlia Gilda al riparo dalle perversioni del Duca e dei cortigiani (desiderio che, vedremo, si rivelerà vano). Sparafucile esce di scena: il monologo che segue, tragico e struggente, è l’ammissione di Rigoletto della sua infelicità, del suo iniquo ruolo a corte, della sua condizione eternamente subalterna. Dopo aver ripetuto ancora, come in un delirio sussurato a se stesso ‘Quel vecchio maledivami!’, ecco il grido rabbioso ‘O uomini!…o natura!..vil scellerato mi faceste voi!..’, pronunciato mentre l’orchestra, evolvendosi parallelamente al suo slancio, si esalta in serpentine ascendenti e discendenti degli archi, quasi a rimarcare il caos, l’infuocato turbamento interno.
Ma nell’inferno del buffone-padre c’è ancora, e solamente, un’oasi di speranza, un rifugio ultimo: Rigoletto è vicino all’abitazione di Gilda, unica gioia di un uomo senza salvezza. ‘Ma in altr’uomo qui mi cangio’: ecco la parola scenica, la frase-giuntura che sola sa contenere tutto il motivo del dramma, l’embrione essenziale. Rigoletto non è solo il buffone che sopravvive umiliandosi per il divertimento della corte, delle cui lascivie è stato parte attiva. Rigoletto è anche un padre. In quella paternità così accorata e pronunciata, che sembra offrirgli un riscatto, in quella paternità rivelata d’un tratto allo spettatore nell’avvicinarsi di Rigoletto alla casa di Gilda, in quel cambiamento (‘..qui mi cangio’), l’armonia cambia, lasciando brillare in partitura un nuovo accordo, inatteso. Segue, fulmineamente e senza soluzione di continuità, l’arrivo di Gilda stessa, accompagnato da un allegro brillante e luminoso, che non nasce dalla conclusione del precedente ‘recitativo’ (è un termine di comodo, per indicare tutta la precedente sezione appena descritta) di Rigoletto, ma vi si giustappone, sorprendendolo, quasi interrompendolo: il flusso musicale verdiano segue totalmente l’azione, la accompagna, la interpreta, la rispetta. La drammaturgia verdiana è una drammaturgia dell’individuo e della situazione, che dell’individuo e della situazione cerca (e riesce) di rivelare le fibre più intime. La musica, probabilmente, in questo caso riesce nel suo obiettivo più alto: dire quello che le parole, da sole, non riuscirebbero a comunicare.

Emanuele Franceschetti


 

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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