Il Diavolo all’Opera: l’onesto Jago

La plus belle des ruses du diable est de vous persuader qu’il n’existe pas.
Charles Baudelaire, Le Spleen de Paris (1862).

Autore: Silvia D'Anzelmo

22 Dicembre 2016

L’ultima trasformazione delle rappresentazioni operistiche del diavolo è la più insidiosa di tutte proprio perché elimina ogni suo segno di riconoscimento:

Al diavolo non resta che tagliare ogni sia pur labile legame con il fantastico e il soprannaturale e intraprendere la strada dell’umanizzazione, incarnando il modello (…) dell’uomo insidioso e malefico: il traditore, l’ingannatore, il disonesto, il perfido, l’invidioso.

Marco Capra, Le rappresentazioni del diavolo

Questa trasformazione è perfettamente avvenuta nel personaggio di Jago che Verdi e Boito traggono da Shakespeare per la loro versione dell’Otello; lo Jago shakespeariano era l’evoluzione del villain del teatro elisabettiano che, da figura allegorica del vizio, si incarnava in personaggio. Egli contiene in sé i tratti della diversità mentale oltre che sociale ed è questa la fonte della sua eterna invidia per il prossimo ma anche del suo orgoglio; la sua diversità, infatti, è scaturigine di uno spiccato senso critico e della sua capacità di penetrazione dell’animo umano che gli danno la possibilità di rivalersi sugli altri, dominandoli.

L’idea del male che fin quasi alla fine dell’ottocento si era legata ad un’immagine fantastica e soprannaturale, umanizzandosi perde i suoi attributi esteriori e diviene cifra morale e psicologica; questo ci fa capire la differenza tra Jago, uomo malefico, e Mefistofele, diavolo antropomorfo che mantiene nel vestiario ma anche in elementi musicali e formali, gli indizi per decifrare la sua natura infernale. Le differenze sono percepibili anche con Barnaba, oramai umano ma perfettamente riconoscibile come uomo malvagio da tutti gli altri personaggi della vicenda. La diversità mentale e sociale dello Jago shakespeariano viene mantenuta da Boito e Verdi ma trasformata in eccezionalità della statura morale e serve a sottolineare in maniera lampante l’opposizione tra Otello e il suo alter ego: l’uno è l’eroe (im-)perfetto spinto verso l’ideale, l’altro è uno scellerato sospinto dal male. L’opera costruita da Verdi e Boito coglie le fila delle interpretazioni che durante l’ottocento si erano avute di Shakespeare e, in particolare, dell’Otello. La gloriosa stagione dei grandi attori, aveva permesso una approfondita riflessione teatrale sull’interpretazione dei personaggi di Otello e Jago; interessanti sono le considerazioni che l’attore Tommaso Salvini fa in “Di un’interpretazione dello Jago”:

È doloroso dirlo: eppure Iago è un carattere umano! Nulla ha del so-prannaturale, del diabolico, del mefistofelico. È un uomo ch’è nato pel male, come un altro nasce pel bene. Shakespeare volle simboleggiare in lui quanto l’uman genere riunisce di perversità simulatrice; e lo ha provveduto d’astuzia, d’ingegno naturale, di sagacia, di fiducioso aspetto e di maniere insinuanti, per condensare in lui la malvagità umana.

Ed è proprio questa l’immagine che Verdi si costruisce nella mente dell’uomo che potrebbe ingannar tutti grazie al suo fare indifferente e disinvolto, “questo prete cioè questo Jago dalla faccia da uomo giusto!” Egli doveva essere necessariamente affasciante ed elegante, un dandy altrimenti in nessun modo sarebbe riuscito ad ammaliare gli altri personaggi e a trascinarli nel suo gioco malato:

Ogni parola di Jago è da uomo, da uomo scellerato, ma da uomo. Deve esser giovane e bello, Shakespeare gli dà 28 anni (…) Dev’essere bello ed apparir gioviale e schietto e quasi bonario; (…) se in lui non ci fosse un grande fascino di piacevolezza nella persona e d’apparente onestà, non potrebbe diventare nell’inganno così potente come è.

Arrigo Boito, “Personaggi” in Disposizioni scenica per l’opera Otello

Shakespeare e l’esperienza dei grandi attori italiani sono sicuramente il punto di partenza per il lavoro di Verdi ma anche di Boito, poeta raffinato e attento traduttore, che aveva costruito il libretto basandosi su uno studio approfondito della tragedia originale seguita fedelmente fino ad arrivare alla vera e propria citazione letteraria. Due furono i principi che guidarono Boito nella rielaborazione del modello: da una parte la condensazione della ricca trama shakespeariana in qualcosa di più semplice e incisivo che tendesse al naturalismo; dall’altra, la cristallizzazione delle situazioni emotive in sezioni liriche in cui la musica potesse espandersi e delineare con maggiore potenza il dramma. Compositore e librettista utilizzarono Shakespeare ma, nonostante l’aderenza al testo, l’Otello di Verdi-Boito se ne discosta nel messaggio poiché specchio di una visione disincantata e nera della realtà italiana post-unitaria. Il rinnovamento del linguaggio verdiano è supportato dall’eccellente libretto di Boito che organizza con eleganza la transizione tra recitativi e pezzi chiusi tanto da renderla quasi impercettibile. La decostruzione graduale della scansione periodica si rivela in molti dettagli del libretto e sostiene la prosa musicale che diviene per Verdi il mezzo per designare in maniera pregnante la situazione drammatica. La parola non è più veicolo di comunicazione ma, attraverso l’uso che ne fa Jago, diviene il simbolo dell’ambiguità e del dominio dell’uomo sull’uomo; è proprio grazie alle sue parole, ai suoi discorsi o a quelli che lui suscita che l’azione viene indirizzata e mandata avanti tanto che possiamo parlare di Jago come il regista onnisciente dell’intera opera. Le sue trame malefiche sono impercettibili agli altri personaggi perché celate da una perfetta maschera di onestà che gli permette di avvelenare la vicenda fino a trascinarla di forza verso un finale catastrofico. Unici momenti in cui la sua vera natura malefica si svela a noi spettatori è nei preziosissimi a parte (già presenti in Shakespeare) ma soprattutto nel suo “Credo” scellerato che non dà nessuna giustificazione alle sue azioni ma ne spiega il significato.

Credo in un Dio crudel che m’ha creato
simile a sé, e che nell’ira io nomo.
Dalla viltà d’un germe o d’un atòmo
vile son nato.
Son scellerato
perché son uomo;
e sento il fango originario in me.
Sì! questa è la mia fé!
Credo con fermo cuor, siccome crede
la vedovella al tempio,
che il mal ch’io penso e che da me procede,
per mio destino adempio.
Credo che il giusto è un istrïon beffardo
e nel viso e nel cuor,
che tutto è in lui bugiardo:
lagrima, bacio, sguardo,
sacrificio ed onor.
E credo l’uom gioco d’iniqua sorte
dal germe della culla
al verme dell’avel.
Vien dopo tanta irrisïon la Morte.
E poi? – La Morte è il Nulla
e vecchia fola il Ciel.

Il metro satanico per eccellenza era considerato il quinario cioè un verso composto da cinque sillabe (non solo in opera, si pensi per esempio all’”Inno a Satana” di Giosuè Carducci) perché dava un andamento fortemente ritmato e violento; questa volta, però, Boito decide di lasciare da parte i quinari per il prosastico “verso da scena rimato” (qui endecasillabi, settenari e quinari disposti liberamente) già sperimentato nei monologhi di Barnaba, poiché era impossibile esprimere tanta violenza nichilistica stando attenti agli accenti così rigidi di quel metro; a livello lessicale, questo monologo richiama la Ballata del fischio di Mefistofele ma ne amplia in senso blasfemo l’impronta scapigliata. Boito prende, infatti, come punto di riferimento le quattro professioni di fede del Credo di Nicea e le capovolge totalmente tirandone fuori una versione satanica. Tra i punti salienti sicuramente la visione dell’uomo come scellerato che rispecchia l’animo scapigliato in forte contrapposizione alla visione romantica dell’uomo votato al bene, alla verità e alla giustizia; la spiegazione chiara e limpida che il male è da lui compiuto per una sorta di istinto naturale, per suo destino senza una giustificazione o una motivazione precisa. Queste dichiarazioni condensano l’anima scellerata di Jago e sono talmente importanti che Boito volle ribadirle nella nota sui personaggi che Giulio Ricordi antepose alla “Disposizione scenica”:

È un critico astioso e malevolo, vede il male negli uomini, in sé stesso: Son scellerato perché son uomo, vede il male nella natura, in Dio. Fa il male per il male. È un artista della frode.

A livello musicale, abbiamo in orchestra un boato iniziale che si poggia su unisoni (ossia due suoni uguali come do-do, re-re ecc.) la sonorità cava che da sempre nell’opera identifica l’aspetto satanico. Verdi imposta l’assolo come un declamato melodico flessibile e ruvido che identifica, da una parte, la vera natura violenta e malefica di Jago e, dall’altra, la maschera affascinante e melliflua che egli indossa: questi caratteri musicali dal II atto in poi invadono pian piano tutta l’opera, avvelenandola.

La capacità di Jago di penetrare nell’animo umano e attoscarlo è ben visibile dal dialogo con Otello che segue subito dopo il Credo: egli comincia a divorare a brani a brani “l’eroe trionfatore di Cipro” facendolo cadere nella sua rete d’inganni dal momento in cui pronuncia la frase “ciò m’accora”. Il loro confronto non è alla pari come nel caso di Mefistofele e Faust nella scena del Patto poiché Jago non è più un demonio, è del tutto umano e, da grande mago dell’inganno, riesce ad affabulare l’eroe senza che questi si renda minimamente conto del raggiro di cui è vittima. Bastano poche frasi, modi e melodie da onesto galantuomo e un fazzoletto ben collocato per far sì che l’eroe si sgretoli e cada in preda alle convulsioni, schiacciato letteralmente dal male: “Chi può vietar che questa fronte prema col mio tallone?” dirà Jago con Otello steso bocconi ai suoi piedi. Sintomo della forza pervasiva con cui la malvagità di Jago si impossessa dell’animo degli altri e in particolare di Otello è l’espandersi a dismisura dei suoi caratteri musicali che finiscono per configurare anche il Moro. La metamorfosi di Otello, stretto sempre più tra le grinfie di Jago, viene realizzata da Verdi tramite la progressiva perdita delle capacità di canto, di espressione attraverso la linea melodica, l’uso della sonorità cava degli unisoni e del cromatismo. Tutto questo è riscontrabile nel monologo affidato al Moro nel III atto, dopo il confronto spossante con la moglie che egli crede “impura” anzi che, nella sua mente, è già morta.

Dio! mi potevi scagliar tutti i mali
della miseria, – della vergogna,
far de’ miei baldi trofei trionfali
una maceria, – una menzogna…
E avrei portato la croce crudel
d’angoscie e d’onte
con calma fronte
e rassegnato al volere del ciel.
Ma, o pianto, o duol! m’han rapito il miraggio
dov’io, giulivo, – l’anima acqueto.
Spento è quel sol, quel sorriso, quel raggio
che mi fa vivo, – che mi fa lieto!
Tu alfin, Clemenza, pio genio immortal
dal roseo riso,
copri il tuo viso
santo coll’orrida larva infernal!

http://www.youtube.com/watch?v=kOuxpsgkyO8

Otello capisce di essere malato, ha un barlume di lucidità ma non riesce a reagire e si rivolge stancamente a un Dio assente. Egli ha perso ogni capacità di cantare e trascina ansante la sua supplica -mentre in orchestra un motivo di poche note si ripete incessante e ossessivo come un pensiero malato che torna sempre- fino al “Ma” che apre il ricordo del passato in cui amore e gioia erano ancora possibili, in cui egli era ancora l’eroe che con il canto dominava la tempesta e gli uomini (“Esultate!”). La malvagità di Jago lo ha pervaso completamente fino ad accecare la sua capacità di giudizio e di discernimento e questo lo ha portato alla morte interiore che, con violenza, travolge fisicamente Desdemona, la sua anima. La morte della coppia non è soltanto il finale tragico di un amore ma rappresenta anche la distruzione da parte di Jago “componente disgregante e irrazionale che l’uomo post-risorgimentale sente crescere in sé”, del sistema di valori ed ideali che essi rappresentano o meglio rappresentavano per la società italiana della prima parte dell’ottocento.

A guisa di conclusione
In conclusione a questa comparazione possiamo affermare che Mefistofele e Jago sono le due facce del demoniaco che dilagano nell’opera scapigliata italiana di fin de siècle mentre Barnaba ne rappresenta la chiave di volta. Mefistofele, capostipite dei successivi demoni, è ancora immerso in una realtà fantastica che lo rende perfettamente identificabile come essere soprannaturale: egli si muove tra gli angeli del paradiso, folletti, streghe, viaggia nel tempo e nello spazio grazie ad un magico tappeto e mantiene, anche fisicamente, alcuni dei suoi tratti infernali. Questo demonio tenta di nascondersi sotto spoglie umane indossando gli abiti del frate grigio e dell’elegante cavaliere ma la sua metamorfosi in uomo non è ancora del tutto avvenuta; egli, diavolo beffardo, si appoggia su atteggiamenti irriverenti e grotteschi che suscitano spesso il riso smorzando il carattere inquietante del tentatore infernale. Nel caso di Barnaba la metamorfosi fisica è completata, egli è del tutto umano ma, lombrosianamente, porta sul volto i tratti della sua malvagità interiore e della sua degenerazione morale. Per Jago la storia è ben altra: la metamorfosi è del tutto completa, egli è l’incarnazione umana del male universale sguinzagliato liberamente tra gli uomini che non hanno nessuna difesa, nessun indizio per smascherarlo. La sua bramosia di distruzione è inarrestabile e del tutto illogica, il suo carattere maggiore, per noi spettatori, è la sua scelleratezza ma per i personaggi che condividono con lui la scena è l’onestà. Questo ci fa capire perché le sue parole vengono credute e perché il suo piano malvagio ha tanto successo da centrare la meta e distruggere completamente ogni possibilità di ritorno alla luce o di giustizia sia umana che divina; questi due punti, già persi nella Gioconda, erano ancora presenti fermamente nella trama del Mefistofele che si conclude con il perdono divino, il ritorno alla luce di Faust e la distruzione del male che riporta ordine e serenità: tanta è la distanza tra uomini demoniaci e demoni antropomorfi ma, soprattutto, tra Jago e Mefistofele.

Silvia D’Anzelmo

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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