Il Diavolo all’Opera: Barnaba il cantastorie

Chi si attende che nel mondo i diavoli vadano in giro con le corna e i buffoni con i campanelli, ne diventerà sempre preda e lo zimbello.

Arthur Schopenhauer

Autore: Silvia D'Anzelmo

6 Dicembre 2016

La figura del diavolo manovratore affina le sue subdole arti e si va perfezionando concretizzandosi in Barnaba, prima compiuta realizzazione dell’uomo demone. Ancora una volta è Arrigo Boito a delineare la figura del demone immondo, anche se in questo caso solo a livello testuale: con lo pseudonimo di Tobia Gorrio, il poeta appronta il libretto de “La Gioconda” che verrà poi musicata da Amilcare Ponchielli tra il 1874 e il 1876; Boito si ispira al dramma “Angelo, tyran de Padoue” di Victor Hugo facendo vari cambi come lo spostamento dell’ambientazione da Padova a Venezia.

A differenza di Mefistofele, diavolo antropomorfizzato che tenta di nascondere sotto vestiti di cavaliere la sua vera natura, Barnaba è oramai umano e il suo carattere di dimonio non è più legato al soprannaturale ma è eminentemente morale: egli è un personaggio cinico e malvagio che tiene in mano le redini dell’azione; Tuttavia, questo “satanasso” è ancora perfettamente riconoscibile come personaggio negativo e perverso da tutti coloro che tenta di insidiare: la compiuta trasformazione si avrà solo con l’“onesto” Jago il quale raggira e avvelena gli animi senza che venga messa minimamente in dubbio la sua buona fede. Per quel che riguarda Barnaba “il cantastorie” la situazione è ben diversa: egli nasconde dietro gli abiti dimessi e la chitarra la sua vera identità di spia crudele e spietata che tutto sa e controlla per conto del governo veneziano ma questo “possente Demone del Consiglio dei Dieci” non riesce a celare la sua “funesta […] faccia da mistero” dietro un fascino garbato e seducente. Gioconda, Enzo, Laura e tutti i personaggi travolti dalle macchinazioni di Barnaba cedono ai suoi ricatti ma sono perfettamente consapevoli di trovarsi di fronte a qualcosa di misterioso e malvagio, di fatti il lessico con cui gli si rivolgono è connotato in maniera fortemente negativa e legato alla sfera del demoniaco. Per Enzo, Barnaba è un “lugubre benefattor” di cui accetta l’aiuto per incontrare la sua amata Laura ma di cui non si fida, anzi, sente fortemente il bisogno di proteggersi tanto da maledirlo con violenza (“e tu sii maledetto”); Laura, da parte sua, è turbata dalla “sinistra voce” del cantastorie che le sorride “d’un infernal sorriso”; Gioconda, addirittura, scorge in lui l’incarnazione del male ed è tanto agghiacciata dalla paura di dover rivedere “l’orribile sua faccia” che si rivolge alla “Vergine santa” per allontanare da lei quel demonio. Fin qui, dunque, l’incarnazione del male segue la teoria lombrosiana della fisiognomica secondo la quale l’aspetto esteriore è impronta visibile di una degenerazione interiore, solo con Jago le cose cambieranno radicalmente.

Nonostante siano allertati dal suo aspetto satanico e terribile, tutti i personaggi cadono nella “ragna” tessuta da Barnaba il cantastorie poiché la geometria drammatica de “La Gioconda” non si fonda su alti valori morali o su ideali ma è mossa dalle pulsioni irrazionali: risulta facile, allora, per l’incarnazione del caos demoniaco dominare la scena e guidare l’azione verso la catastrofe totale. Barnaba è un attento osservatore che legge nel cuore degli uomini e non fa altro che spingerli verso la concretizzazione dei loro desideri e dei loro impulsi, volgendo tutto questo a proprio vantaggio, come egli stesso ammette: “Va! Corri al tuo desio:/ spiega le vele in mar,/ va. Tutto il trionfo mio/ negli occhi tuoi mi appar”. Lo scopo di Barnaba, infatti, è quello di riuscire a possedere la bella cantatrice errante che porta il nome dell’opera, “sovr’essa stendere la man grifagna” e, per farlo, manovra attentamente le fila dell’azione provocando una reazione a catena grazie alla quale Gioconda è costretta a finire tra le sue braccia. Rifiutato dalla giovine, la spia giura di “schiantarle il core” e, aguzzato l’ingegno, trova il modo di arrivare a lei distruggendo tutti i suoi sostegni psicologici: egli tenta di far accusare la cieca madre di stregoneria e spinge il suo amato Enzo tra le braccia di un’altra donna, Laura, poiché “Enzo morto era poco, [l]o voll[e] traditor”. Il suo piano è quasi perfetto, quasi però, infatti l’agile farfalla gli sfugge proprio in chiusura d’opera: Barnaba ha disposto tutto, la sua “opra fatal” sta per compiersi ma la libido irrazionale acceca anche l’abile manovratore tanto da non fargli capire di essere stato raggirato da Gioconda che si suicida pur di non concedersi a lui;  a questo punto non gli resta che sfogare la sua controversa e violenta libido sul cadavere della giovane “e gridandogli all’orecchio” rivela di averle affogato la madre il giorno prima ma Gioconda “non ode più” e questo provoca in lui “un grido soffocato di rabbia”. Quest’ultima brutale vendetta rivela l’essenza più oscura del personaggio che opera il male per il male, per il puro gusto di farlo senza uno scopo né una direzione precisa: “Mi paventa…un genio arcano/ verso il mal…mi trascina”.

Il ritratto di questo scellerato è completato dalle sue parti monologate che impiegano una forma metrica, un lessico e una caratterizzazione musicale comuni quale cifra del suo essere demoniaco. Il primo monologo di Barnaba lo incontriamo praticamente in apertura d’opera, nella scena II, per cui è il primo personaggio che ci viene presentato come a sottolineare la sua importanza in quanto guida malvagia e subdola dell’azione; Boito sperimenta la duttilità del “verso da scena rimato” ossia l’alternanza di versi endecasillabi e settenari solitamente utilizzati per il recitativo ma qui legati da rima baciata (Cuccagna: ragna), oppure alternata (file: sottile) che li ibrida e li concede maggiore liricità; a differenza della caratterizzazione metrico-musicale di Mefistofele, in questo caso ritroviamo una maggiore libertà che anticipa la rivoluzione assoluta operata nella caratterizzazione del personaggio di Jago. La descrizione di se stesso è attenta e puntuale, abbiamo già tutti gli elementi per comprendere la statura morale del cantastorie che “tesse la sua ragna” nascosto tra le colonne dei palazzi veneziani; egli ci svela la sua copertura da menestrello e la sua vera natura di spia del governo e, in chiusura del monologo, rivela qual è il suo più profondo e bramoso desiderio: “cogliere una certa vaghissima farfalla”. Ponchielli riesce a cogliere gli spunti del testo e soprattutto della sua metrica per cui associa una musica estremamente libera a questi versi caratterizzando il demoniaco con una serie di rapide figure puntate e discendenti degli archi gravi, elemento che tornerà più volte associato al personaggio.

E mentre s’erge il ceppo o la cuccagna,
fra due colonne tesse la sua ragna
Barnaba, il cantastorie; e le sue file
sono le corde di questo apparecchio.
Con lavorìo sottile
e di mano e d’orecchio
colgo i tafàni al volo
per conto dello stato. E mai non falla
l’udito mio. Coglier potessi solo
per le mie brame e tosto
una certa vaghissima farfalla!

Altro monologo violento e demoniaco è “O monumento” che si ispira all’arioso di Mefistofele “Ave signor” ma con maggiore mobilità metrico musicale; mentre inizialmente Barnaba descrive se stesso, in questo caso presenta l’assurda strutturazione del governo veneziano rivolgendosi al “monumento” simbolo di Venezia ossia il leone in un’alternanza di endecasillabi e settenari con l’esclusione di un unico quinario tronco circa alla metà del discorso. La scena è introdotta dalle sonorità cupe degli ottoni in fortissimo a cui poi si aggiunge il resto dell’orchestra in una melodia che sembra bloccata e procede su gradi congiunti, ossia suoni molto vicini tra loro, senza grandi impennate; man mano che il discorso di Barnaba va avanti e sale nella descrizione della gerarchia in cui si articola il potere a Venezia, si crea una climax lessicale e musicale fino ad arrivare all’apice che coincide con il suo supremo detentore: “più possente di tutti, un re: la spia”, ossia egli stesso.

O monumento!
Regia e bolgia dogale! Atro portento!
Gloria di questa e delle età future;
ergi fra due torture
il porfido cruento.
Tua base i pozzi, tuo fastigio i piombi,
sulla tua fronte il volo dei palombi,
i marmi e l’ôr.
Gioia tu alterni e orror con vece occulta,
quivi un popolo esulta,
quivi un popolo muor.
Là il doge, un muto scheletro
coll’acìdaro in testa;
sovr’esso il Gran Consiglio,
la signoria funesta;
sovra la signoria,
più possente di tutti, un re: la spia.
O monumento! Apri le tue latèbre,
spalanca la tua fauce di tenèbre,
s’anco il sangue giungesse a soffocarla!
Io son l’orecchio e tu la bocca: parla.

Con il personaggio di Barnaba aggiungiamo un altro tassello a quella che è la caratterizzazione operistica del demoniaco la quale va pian piano affinandosi; le strutture così come le tematiche di base sono simili ma, pian piano, il meccanismo si perfeziona finché il male diventerà irriconoscibile anzi estremamente affascinante e perciò capace di avvelenare non solo l’azione ma ogni parametro operistico.

Silvia D’Anzelmo


Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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