Il diavolo all’opera. “Mefistofele: il diavolo cavaliere”

Com’è inesauribile il tipo di Faust, così pure è inesauribile quello di Mefistofele. Mefistofele è antico anch’esso come la Bibbia e come Eschilo, Mefistofele è il serpente dell’ Eden, è l’avvoltojo di Prometeo. Mefistofele è il dubbio che genera la scienza, è il male che genera il bene. Da per tutto ove trovi lo spirito di negazione c’è Mefistofele. Mefistofele è l’incarnazione del No eterno al Vero, al Bello, al Buono.

Arrigo Boito, Prologo in Teatro (1868)

Autore: Silvia D'Anzelmo

13 Novembre 2016

In questa seconda sezione della rubrica “Il diavolo all’opera” varrà presentata in maniera più dettagliata la costruzione del personaggio di Mefistofele dell’opera omonima scritta da Arrigo Boito nel 1867 e poi rimaneggiata più volte. Il compositore riprende il Faust di Goethe rielaborando la storia con una irriverenza spavalda tipica del clima scapigliato di cui faceva parte.

Mefistofele è il tentatore spavaldo e sicuro di sé che si fa beffe del cielo e del “Vecchio Padre” perché si sta avventurando a un “rude gioco”, la scommessa con cui si disputeranno l’anima di Faust. La sua baldanzosa sicurezza è data dalla natura dell’uomo che “tanto è fiaccato” dal vizio da non destare quasi l’interesse del diavolo alla tentazione; ma queste sono le parole del mentitore, la realtà è che egli fa appello a tutti gli attributi iconografici del demonio ottocentesco per affascinare la sua vittima e trascinarla nella perdizione eterna. A differenza dell’iconografia cristiana più antica in cui il demonio è raffigurato come un essere mostruoso e ferino la cui bruttezza esteriore è specchio della malvagità incattivita dell’angelo precipitato dal cielo, nell’Ottocento il diavolo diviene simbolo dell’ingegno, della scienza e del progresso; la sua figura si ingentilisce eliminando gli aspetti grotteschi per una versione antropomorfizzata che, nell’immaginario operistico, corrisponde proprio a Mefistofele: il “diavolo cavaliere”, secondo le parole del musicologo Marco Capra.

Questo gentiluomo altero ma inquietante con il mantello, la spada al fianco e le brache aderenti si lascia da parte il “diavolo annerito” macilento e dimesso per un aspetto che sottolinea la sua natura aristocratica e altezzosa. Tutte queste caratteristiche rispondono all’immagine che Boito ha voluto dare al suo demonio, immagine cristallizzata nelle “Avvertenze per i cantanti” di Giulio Ricordi:

Il corpo. Magrissimo, alto, snello, elegante. Tiene spesso una gamba accavallata all’altra anche quando è in piedi. S’appoggia col gomito al suo spadone massiccio che tocca terra. Ha i gesti angolosi. Le unghie delle mani sono assai lunghe. Magrissime, affilate, veri artigli, nervose, inquiete.

Il vestiario ricco e l’aspetto distinto non coprono però del tutto la natura satanica del personaggio, a chi ha la fortezza interiore per saper guardare sono lasciati alcuni indizi per riconoscere nel cavaliere il demonio. Oltre alla “barbetta caprina che si divide in due punte sulla gola” si trovano alcuni elementi del vestiario estremamente eloquenti come l’opposizione di due colori in contrasto nelle righe della giubba o delle braghe, o le penne nel cappello indice delle corna ferine che Mefistofele vorrebbe nascondere . È questo spiraglio sulla sua vera essenza che mette in guardia le nature più scaltre come Faust (“I patti, e parla chiaro”). o salva in extremis dalla perdizione quelle più ingenue come Margherita, rendendo Mefistofele il “diavolo vincente” ma non vincitore; nelle Avvertenze per i cantanti lo troviamo scritto a chiare lettere:

Carattere. Mefistofele è una personificazione del Male, Mefistofele anela senza posa ad un fine che non può mai raggiungere. L’ideale del Male è più raggiungibile di quello del Bene. Mefistofele vuole il Male, e per sua propria impotenza e suo malgrado finisce per aiutare l’opera del Bene. Da qui una perenne rabbia soffocata, che si palesa in sarcasmi, in sogghigni, sotto una apparenza di freddezza glaciale e d’indifferenza. L’ironia è il fondo del suo carattere (…)

Oltre all’aspetto esteriore, il diavolo è configurato da elementi formali, stilistico lessicali e ovviamente musicali su cui mi soffermerò in due dei monologhi che Boito affida a Mefistofele. Inizierò ovviamente dalla presentazione del demonio nel consesso angelico del Prologo in cielo, durante la quale Dio e il diavolo stipulano la loro scommessa sull’anima di Faust.

Ave signor. Perdona se il mio gergo
si lascia un po’ da tergo
le superne teodíe del paradiso;
perdona se il mio viso
non porta il raggio che inghirlanda i crini
degli alti cherubini;
perdona se dicendo io corro rischio
di buscar qualche fischio:
il dio piccin della piccina terra
ognor traligna ed erra,
e, al par di grillo saltellante, a caso
spinge fra gli astri il naso,
poi con tenace fatuità superba
fa il suo trillo in erba.
Boriosa polve! tracotato atòmo!
Fantasima dell’uomo!
E tale il fa quell’ebra illusïone
ch’egli chiama ragione.
Sì, maestro divino, in buio fondo
crolla il padron del mondo,
e non mi dà più il cuor, tanto è fiaccato,
di tentarlo al peccato

http://www.youtube.com/watch?v=lTP_gsP7e2c

Il monologo del diavolo è composto da 11 coppie di versi legati da rima baciata – gergo:tergo, paradiso:viso e via dicendo- e formati da versi endecasillabi e quinari (composti rispettivamente da undici e cinque sillabe) che, solitamente, all’interno di un’opera caratterizzavano il recitativo ossia la parte di canto più distesa e vicina al parlato; nonostante questo, non dobbiamo credere di avere davanti un semplice recitativo: il personaggio malefico stimola Boito ad una caratterizzazione ben più variata di quella che si potrebbe ottenere con un pezzo chiuso – ossia un’aria- o con un recitativo convenzionale. Il discorso che Mefistofele rivolge al “maestro divino” subisce un trattamento speciale, diverso rispetto a quello del recitativo ma che non si identifica precisamente con l’aria. L’ingresso del diavolo è preparato da un breve inciso orchestrale caratterizzato dal pizzicato saltellante degli archi inframmezzato da fagotti e corni e da acciaccature di ottavino e flauti che rappresenta una sorta di carta d’identità del personaggio e che lo accompagna nei momenti salienti dell’opera; Boito voleva richiamare alla mente il tintinnio di sonaglio che, nelle vecchie legende, annunciava l’arrivo di Mefistofele . Dopo il beffardo saluto “Ave Signor” che riprende in maniera irriverente il ben più ossequioso omaggio degli angeli e dei cherubini a Dio, si snodano i primi 8 versi del monologo che ne caratterizzano il preambolo accompagnato da una musica guizzante scaturita dal motivo d’ingresso; il discorso va avanti con un declamato melodico a metà tra il semplice parlato e il canto spiegato, che si increspa qua e là sottolineato dall’orchestra come nel caso del trillo che mima il frinire del grillo per poi concludere più avanti con lo stesso motivo iniziale. Il “gergo” di Mefistofele non coincide con “le superne teodìe del paradiso” e non può farlo poiché veicolatore di forze irriverenti e dissacranti, sintomo della hybris scapigliata del personaggio, cioè dell’insolenza spavalda che accetta di buon grado “il rischio/ di buscar qualche fischio”: dietro l’atteggiamento provocatore e grottesco di Mefistofele, infatti, si nasconde Boito e la sua voluttà aristocratica di essere fischiato dal pubblico. Il fischio è suono di per sé inarticolato e inumano, spoglio della qualità comunicativa del canto, incapace di sposarsi a concetti verbalizzabili, attributo quindi alle forze negative e irrazionali. Questa “sonorizzazione del demoniaco” tornerà nella “Ballata del fischio” con cui Mefistofele è costretto a rispondere alle incalzanti domande di Faust:


Son lo spirito che nega
sempre, tutto; l’astro, il fior.
Il mio ghigno e la mia bega
turban gli ozi al creator.
Voglio il nulla e del creato
la ruina universal.
È atmosfera mia vital
ciò che chiamasi peccato,
morte e mal!
Rido e avvento  questa sillaba:
«No.»
Struggo, tento,
ruggo, sibilo.
«No.»
Mordo, invischio,
fischio! fischio! fischio!
(fischia violentemente colle dita fra le labbra)

IIº
Parte son d’una latèbra
del gran tutto: oscurità.
Son figliuol della tenèbra
che tenèbra tornerà.
S’or la luce usurpa e afferra
il mio scettro a ribellion,
poco andrà la sua tenzon,
v’è sul sole e sulla terra
distruzion!
Rido e avvento  questa sillaba:
«No.»
Struggo, tento,
ruggo, sibilo.
«No.»
Mordo, invischio,
fischio! fischio! Fischio!

In questa ballata, come in Ave Signor e nella Ballata del Mondo nel Sabba romantico, Boito utilizza due strofe di versi simmetrici intervallate dai potenti e isolati “No” che irrompono nella regolarità. Questo tipo di configurazione metrica richiede necessariamente un rivestimento musicale che segue in maniera puntuale le due strofe e il compositore può farlo organizzando questo brano come aria bipartita, ossia divisa in due sezioni. Molto interessante è la varietà ritmica e dinamica: si passa da un tempo concitato dell’ Allegro focoso, al più calmo Poco trattenuto per arrivare all’Allegro sostenuto che conduce all’apice della componente nichilistica e veemente del brano rappresentata dal fischio.

Nonostante le grandi innovazioni apportate da Boito, Mefistofele ha ancora la tendenza ad esprimersi con una certa regolarità metrico-ritmica che lo lascia un po’ in ombra rispetto alle grandi sperimentazioni che il poeta-compositore attuerà nella costruzione dei successivi personaggi diabolici. Egli è un diavolo che tenta di nascondersi sotto spoglie umane ma i cui attributi satanici sono talmente caratterizzanti che lo sbugiardano immediatamente davanti a colui che dovrebbe adescare nelle sue reti. Faust, infatti, riesce prima a smascherare il frate grigio perché accompagnato da motivi orchestrali ascendenti e discendenti che ricordano le spire infernali; e poi l’elegante cavaliere che appare nella sua camera, grazie al motivo del campanello. Faust quindi non si trova totalmente in balia del fascino di Mefistofele anzi stipula con lui un patto che può essere considerato alla pari dato che è lui stesso a definire parte delle condizioni (“Se tu mi doni un’ora di riposo/ in cui si acqueti l’alma…se avvien ch’io dica/ all’attimo fuggente: arrestati sei bello!/ allor ch’io muoia e m’inghiotta l’averno”); questa mancata presa del diavolo sulla sua preda è ben visibile anche dal fatto che i motivi musicali a lui associati non investono la sfera musicale di Faust con l’eccezione di “Fin da sta notte” in cui Doktor, coscientemente, si concede di stare al gioco con il demonio . Mefistofele si configura infine proprio con quella “parte vivente/ di quella forza che perpetuamente/ pensa il Male e fa il Bene” . È grazie a lui che Faust, incalzato da un’infinita sete di conoscenza che si volge al bene e al male senza una precisa meta, dopo aver saggiato che il Reale è dolore e l’Ideale è sogno, si volge sicuro a Dio e finalmente dichiara “Sacro attimo fuggente,/ arrestati, sei bello!/ A me l’eternità”.

Silvia D’Anzelmo

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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