Il diavolo all’opera

Noi siamo figli dei padri ammalati;
aquile al tempo di mutar le piume
svolazziam muti, attoniti, affamati,
sull’agonia di un nume.

Emilio Praga, Preludio (1864)

Autore: Silvia D'Anzelmo

30 Ottobre 2016

Le parole di Emilio Praga esprimono in maniera emblematica la condizione di smarrimento dei poeti scapigliati legati ai romantici “padri ammalati” di cui vorrebbero continuare il canto dei valori e degli ideali ma, rimasti ormai senza piume, son costretti ad un affamato silenzio. La modernizzazione economica e sociale dell’Italia post-unitaria aveva liquidato rapidamente il ruolo risorgimentale degli intellettuali costringendoli in un cantuccio in cui essi rifiutano di stare ribellandosi alle tendenze borghesi della società e della cultura contemporanea. Il loro atteggiamento nei confronti della modernità è però duplice e contraddittorio poiché, mentre da una parte sono spinti verso un provocatorio realismo che, in nome della fedeltà al vero, si compiace di mettere in risalto gli aspetti più torbidi e repellenti della realtà (la malattia, il deforme, il macabro); dall’altro sono sospinti dall’attrazione per il fantastico e per l’ignoto che si propone di esplorare le pulsioni della psiche umana non potendo più cantarne gli ideali perduti irrimediabilmente. La ribellione degli scapigliati che, nell’ordinata e moralista realtà dell’Italia postunitaria, manifestano insofferenza per le convenzioni borghesi e desideri di innovazione, interessa non solo la letteratura ma si allarga a macchia d’olio verso le altre arti, inglobando il costume e la vita sociale fino ad arrivare ad attrarre a sé il melodramma.

L’incidenza di questi nuovi temi scapigliati nell’opera italiana (scelte tematiche ed elementi della fabula, situazioni d’intreccio, scelte lessicali nel libretto e formali nella musica) ha efficacia almeno per un ventennio, indicativamente dal primo Mefistofele (1868) a Otello (1887), opera che riutilizza e riassume molti degli elementi in questione. 

Antonio Rostagno

Il cambiamento più importante riguarda la geometria drammatica perché trascina dietro di sé tutta una serie di altre trasformazioni; nel melodramma romantico le azioni dei personaggi sono sospinte e motivate dalla veicolazione di grandi ideali e dei valori che non trovano più riscontro all’interno della società e della psicologia collettiva post-unitaria; il simbolo di questa perdita è la mancanza di motivazioni all’interno dei libretti scapigliati, la “logica dell’illogicità” che porta al trionfo del personaggio manovratore, personificazione del demoniaco, carnefice che trascina alla rovina le sue vittime per il solo gusto di far del male .

Punto di partenza e modello per tutte le altre figure demoniache che avvelenano l’opera di fine ottocento è il diavolo in persona, Mefistofele, cui Arrigo Boito decide di dedicare un’opera ispirandosi principalmente al Faust di Johann Wolfgang von Goethe. Mefistofele, nella versione boitiana, diviene un vero e proprio personaggio scapigliato dissacrante, contestatore e anticonformista, spesso caratterizzato da atteggiamenti goliardici ed eccentrici; nonostante questo, non si deve pensare a Mefistofele come un autoritratto di Boito piuttosto egli va a configurare una parte della sua anima divisa tra “luce ed ombra”: la parte del “vermo immondo”, del “chèrubo caduto” che con “la bestemmia…irride al suo tormento”. Mefistofele è quindi l’incarnazione dello scetticismo e della negatività che affida la sua massima ribellione al valore lacerante e irridente del fischio. Controparte e completamento dell’animo boitiano è l’erudito e creativo Faust il “demone che sale, / affaticando l’ale, / verso un lontan ciel”; egli rappresenta la scienza è, infatti, assetato di sapere e in costante ricerca di un appagamento profondo rivolto alla dimensione metafisica ma non ingenuamente e passivamente credente; è attirato dualisticamente verso il bene e il male, verso il reale rappresentato dal breve e drastico connubio amoroso con Margherita ma anche verso l’ideale identificato nel Sabba classico, senza trovare realmente pace in nessun “dolce pomo dei vizi” offertogli da Mefistofele. Solo alla fine dell’opera nel momento del perdono divino egli riesce finalmente a proferire le parole “arrestati sei bello!” che sentenziano la sconfitta di Mefistofele, in fin dei conti, povero diavolo beffardo e beffato. Egli quindi è sì un manovratore ambiguo ma non abbastanza bravo da ingannare lo scaltro Faust e vincere la scommessa contro Dio ed è per questo che, nella sconfitta, torna il fischio irriverente e goliardico attraverso il quale viene smorzata la forza satanica di Mefistofele volgendola in comica e grottesca.

La figura del demone-uomo manovratore va pian piano perfezionandosi: nella seconda tappa di questo viaggio infernale incontriamo la figura di Barnaba della “Gioconda” scritta dalla coppia Ponchielli-Boito. Il meccanismo drammaturgico scapigliato si affina e si perfeziona in questa seconda opera in cui l’agire dei personaggi non è minimamente guidato da giustificazioni di ordine morale né tanto meno ideale: solo pulsioni e istinto  rimangono a tenere banco; è facile allora per Barnaba, il cantastorie che cela la sua vera identità di spia del Consiglio dei Dieci, condurre il dramma secondo la logica della violenza cieca e irrazionale: per la prima volta appare nel teatro musicale il male per il male, senza alcun senso logico. Il suo lessico è oramai quello tipico della malvagità così come la musica che lo presenta ma siamo ancora lontani dalla forma finale che il male assumerà nella figura di Jago.

Ben altra, infatti, è la malvagità che ci troviamo davanti seguendo i malefici tutti umani di Jago il più noto tra gli scellerati d’opera. A differenza di Mefistofele, prototipo diabolico, e di Barnaba, Jago di Verdi-Boito coglie le fila di venti anni di sperimentazione legate alla costruzione di figure demoniache e si identifica quindi come l’apice di questa climax satanica. La sua immagine è configurata in maniera così forte sia dal punto di vista ideologico-letterario sia dal punto di vista musicale che per molto tempo gli autori pensarono di renderlo il protagonista di quello che poi sarà l’“Otello”; il capolavoro disperato di Verdi-Boito si discosta concettualmente da Shakespeare perché piantato radicalmente nella realtà italiana dell’epoca di cui doveva gridare, nella maniera più cruda e disincantata, la totale perdita dei valori e degli ideali. La vicenda di “Otello” sarà proprio la caduta dell’eroe che perde se stesso perché si lascia guidare dalle sue passioni invece che dalla ragione incapace di distinguere tra bene e male. Jago è quindi il demonio tutto umano che attenta alla disfatta dell’uomo avvelenandolo, egli è il motore dell’azione e il regista di tutta l’opera che spinge Otello ad una folle gelosia e al suo totale annullamento fisico, psicologico e musicale.

Tanto la gelosia, quanto l’annullamento del canto melodico, si dimostrano simboli analoghi, sebbene attivi a diversi livelli, della fragilità dell’uomo non più ancorato a grandi valori indiscutibili, perché posti al di là del bene e del male, che avevano caratterizzato l’opera e la letteratura italiane ante-scapigliatura.

Antonio Rostagno

Silvia D’Anzelmo

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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