Guardare l’opera: Lohengrin di Richard Wagner

Qual è il ruolo giocato dall’artista nell’ottocento, in un’epoca in cui la produzione di beni materiali e la logica economica vengono valorizzate al massimo? Quale posizione occupa rispetto al gruppo sociale: è un insider o un outsider?

Autore: Silvia D'Anzelmo

21 Ottobre 2016

Seguendo le riflessioni estetiche di Richard Wagner all’interno dei suoi scritti teorici come “Das Kunstwerk der Zukunft” (1849) ma soprattutto attraverso la figura di Lohengrin è possibile indagare la posizione occupata dall’artista intorno alla metà dell’ottocento, scoprendo nel divieto imposto dal Cavaliere del Cigno alla sua amata –“mai devi domandarmi”- la tragedia dell’artista moderno.

 “Gli artisti” secondo Wagner sono “mortali cui è stata concessa la grazia del fuoco dell’intuizione divina”, sono coloro che, “sostenuti dalla fede del Genio in sé, la cui forza non è da alcuni eguagliata”, con straordinaria sofferenza dispiegano gli enigmi dell’esistenza per rivelarla all’umanità. Per Wagner, infatti, “Il bisogno più urgente e più forte dell’uomo perfetto e artista è di comunicare se stesso in tutta la pienezza della sua natura all’intera comunità”: l’artista che “nella solitudine silenziosa” fa nascere la sua opera sente l’impulso divino alla comunicazione e ha bisogno della comunità degli uomini per suffragare il suo ruolo di guida. Il problema di questo uomo perfetto descritto da Wagner, che poi è il problema dell’artista moderno, sta proprio nel suo rapporto con la società, egli spera che gli uomini, rapiti dall’incanto, gli conferiscano onore e gloria ma, il più delle volte, rimane aspramente deluso e, soprattutto, incompreso: “l’artista, se gli domanderete se la maggior parte degli uomini d’arte ha capito i suoi sforzi migliori, risponderà alla vostra domanda con un profondo sospiro”.

Wagner è pienamente consapevole di questa dialettica di attrazione e repulsione che egli stesso in quanto artista sente nei confronti della società moderna la quale, attraverso la scienza e la logica del guadagno, ha separato l’uomo dalla natura, dal “puramente umano”, e mutato profondamente l’estetica artistica: “Ecco l’arte del nostro mondo civilizzato! La sua vera essenza è l’industria, il suo fine morale il guadagno, il suo pretesto estetico la distrazione delle noie”. Questa “massa orrenda” di uomini ottusi non è in grado di comprendere il valore geniale dell’artista che pur disprezzandola, per il momento, ne rimane fortemente avvinto; la verità è che egli necessita di una massa adorante di fedeli che riconosca la sua divinità, la sua esistenza è nulla senza di lei anche se la maledice perché lo fraintende costantemente: egli soffre a causa sua ma, allo stesso tempo, vive in lei. Dove si colloca, dunque, questa figura di artista? Egli è parte della società moderna, dell’ordine borghese o, piuttosto, se ne pone fuori presentandosi come figura liminare, essere tra uomo e dio, un eroe, un genio?

L’artista ottocentesco è una figura fortemente ambigua, costantemente insoddisfatto dalla società borghese poiché gli impone le proprie esigenze dettate dalla moda e non dalle necessità artistiche, egli si sente sopraffatto e risponde innalzandosi come un dio creatore di un’arte assoluta e totalmente libera. L’artista vorrebbe che gli uomini si inginocchiassero davanti al suo altare per oltrepassare i limiti della loro ben misera realtà quotidiana guidati dall’incanto per la bellezza; al tempo stesso, egli è tenacemente alla ricerca della comprensione da parte della comunità della quale vuole sentirsi partecipe poiché, dice Wagner, “chi è isolato non è libero…è limitato e suddito in seno all’indifferenza; libero è l’uomo sociale perché l’amore lo rende…indipendente”. Il bisogno di amare è insito “nell’anelito vitale dell’uomo” poiché “solo ciò che si ama si può comprendere e amare significa riconoscere altri e, nello stesso tempo, riconoscere se stessi.”

A ben vedere questa urgenza della comunicazione e della comprensione attraverso l’amore è la stessa che troviamo alla base della tragedia di Lohengrin, quell’essere puro che “ricercava la donna che credesse in lui” poiché “l’unica cosa che lo poteva redimere dalla sua solitudine, che potesse saziare il suo desiderio era amare, essere amato, essere compreso attraverso l’amore”. Il Cavaliere del Cigno è l’essere sublime che discende dalla sua “solitaria, deserta beatitudine” chiamato dalla necessità: il cuore confuso di Elsa è bisognoso di aiuto, sono le sue grida di soccorso che lo attirano fuori dalla comunità degli eletti del Graal; ma il semidio che vuole farsi uomo attraverso l’amore non sa che egli, artista assoluto, rimarrà incompreso da tutti perfino da Elsa, lo spirito a lui più affine, poiché è un unicum, un’anomalia che nessuno può veramente afferrare; allora, sconsolato e affranto, sarà costretto a far ritorno a Monsalvato nella cerchia dei suoi pari, i Cavalieri del Graal, che somigliano tanto alla “comunità degli artisti” cui Wagner, in  “Das Kunstwerk der Zukunft“, affida il compito di “realizzare intelligibilmente questa vita nell’opera d’arte”: l’artista è l’unico a possedere il lume divino della rivelazione ma questo dono non riesce più a trasmetterlo nella società che comincia a percepirlo come un estraneo da ignorare o venerare per cui il genio è costretto a rifugiarsi tra i suoi simili serbando in sé i suoi misteriosi segreti. L’artista sta pian piano scivolando fuori dal consorzio sociale, non è più parte integrante del gruppo come accadeva nelle società antiche a cui gli intellettuali del periodo, come Wagner o Friedrich Nietzsche, fanno accenno tentando di sviare gli uomini dalla strada che hanno intrapreso poiché li sta portando lontani da ciò che è necessario e naturale, rendendoli estranei a se stessi: “è l’anima dell’industria che uccide l’uomo per usarne come una macchina, è l’anima del nostro stato, che non riconosce all’uomo alcuna dignità per dargli quella di essergli suddito…Chi potrà redimerci da quest’estrema miseria? La necessità…il bisogno vero…tutti uniti proclameremo l’alleanza della sacra sofferenza, e il bacio fraterno che consacrerà quest’unione sarà l’opera d’arte comune dell’avvenire”.

Wagner, dopo aver letto il poema epico Parzival di Wolfram von Eschenbach, medita lungamente e pian piano si impossessa del personaggio di Lohengrin fino a riempirlo completamente: il Cavaliere del Cigno è figura dell’artista innocente “puro nell’intimo del cuore” come il compositore stesso crede di essere poiché sente di aver “operato sempre per altri, e non per” se, e le sue “sofferenze ne sono testimonianza” come lo è la sofferta fuga di Lohengrin dal consorzio delle genti. La storia del Cavaliere del Cigno, secondo Wagner, “non deriva soltanto dalla concezione cristiana, è invece un poema antico come l’uomo” il suo dramma è puramente umano per questo la sua figura viene calata in un’atmosfera mitica e aleatoria a cui si contrappone la precisione degli eventi storici che scandiscono le vite degli altri personaggi. Il compositore, nell’approntare il libretto di quest’opera romantica, segue il percorso inverso rispetto alla storicizzazione subita dalla leggenda durante in medioevo, lasciando solo l’ambientazione al tempo di Enrico I l’Uccellatore e delle guerre di Ungheria (X secolo) come riferimento agli eventi realmente accaduti. Nonostante questo, un’irriducibile dicotomia separa il mondo terreno della storia rappresentato dal consorzio sociale con le sue regole irrigidite in ottuse convenzioni e impersonato dalla coppia Ortrud-Friedrich von Telramund “impersonificazione della borghesia reazionaria”, rispetto al mondo sacro e sublime dal quale discende l’essere puro per congiungersi alla sua donna, Elsa. La separazione dei due mondi è avvertita così profondamente perché il compositore la sovraccarica concettualmente e ne delinea musicalmente i contorni in maniera netta e incontrovertibile. Nel Lohengrin, Wagner non utilizza una trama di motivi tanto fitta e indistricabile da porsi come base strutturale dell’opera stessa – quelli che saranno i leitmotiv per le opere successive come “Tristan und Isolde” o “Götterdämmerung”; il compositore decide di affidarsi a pochi motivi melodici chiaramente definiti così da poter rendere immediato il legame con l’immagine che veicolano e il loro riconoscimento ogni qualvolta risuonino in orchestra.

Già solo prendendo in considerazione il Preludio che apre l’opera ci rendiamo conto di quanto attentamente Wagner costruisca il mondo sonoro cui appartiene il Cavaliere del Cigno: un magico velario di diafane note svela un mondo di estasi mistica, il suono etereo dei violini, utilizzati nel registro più acuto, evoca il fluttuante motivo del Graal che si espande sempre più dandoci la meravigliosa percezione di uno spazio infinito. “Questo Preludio – narra Franz Liszt – è una specie di formula magica che, come una misteriosa iniziazione, ci prepara alla comprensione di cose inconsuete, aventi un significato che trascende la nostra vita terrena. Racchiude in sé e rivela l’elemento mistico sempre presente e sempre nascosto nell’opera: segreto divino, forza soprannaturale, legge suprema del destino dei personaggi e della successione degli eventi cui stiamo assistendo”.

Posta a metà tra i due mondi, quello della storia e quello del mito, scopriamo Elsa che vive in una realtà di sogno totalmente aliena a tutto e a tutti; ella è l’unica a metà tra questi due mondi inconciliabili ma, invece di partecipare a entrambi, ne rimane esclusa poiché incapace di comprenderli a pieno e quindi di viverli. La sua innocenza quasi fanciullesca è l’esca che attira l’essere puro ma è anche la trappola che la rende vittima della coppia Ortrud-Telramund i cui raggiri la porteranno a perdere il bene più prezioso: l’amore. La povera Elsa, infatti, viene ingiustamente accusata dalla coppia Ortrud-Telramund di aver ucciso il fratello Gottfried poiché “sperato ell’ha che, suo fratello estinto, signora di Brabante ella sarìa” donando il trono alla “secreta fiamma” che “certo nutre in cor”. La sua figura “rapita in sogni arcani” è presentata da un tema melanconico esposto dalle sonorità meste dell’oboe e del corno inglese a cui si uniscono poi flauti, fagotti e clarinetti: questa impronta sonora ci restituisce l’immagine di una fanciulla esangue, immersa in un’atmosfera onirica la cui innocenza che “brilla di candor”, osservata dagli occhi razionali della società borghese appare quasi folle. Le sonorità che la caratterizzano non hanno nulla a che vedere con il mondo della realtà mentre hanno molto in comune con i timbri diafani del tema di Lohengrin e del motivo del Graal. Convocata dal re Heinrich der Vogler per difendersi dall’accusa di fratricidio, Elsa invoca “un guerrier” che “nessun al mondo eguaglia” che ella vide nel “soave incanto d’un sogno”: “quel cavalier ognor” il suo “campion sarà”. Al terzo appello dell’araldo del re, sulle acque del fiume Shelda appare Lohengrin nella sua argentea armatura, a bordo di una navicella trainata da un cigno: il cavaliere difenderà Elsa dall’accusa orrenda, a lei si consacrerà come sposo fedele ma “un sacro giuro” la fanciulla deve serbar: “mai devi domandarmi né palesar tentarmi dond’io ne venni a te, né il nome mio qual è“. Sonorità stranamente minacciose e cupe accompagnano le misteriose parole che esprimono la domanda proibita, il divieto d’amore tema antico come il mondo eppure sempre estremamente fascinoso in quanto rappresenta una contraddizione in termini: amare è conoscere ma se la conoscenza è interdetta lo è anche l’amore. Il problema qui, la fonte di tutto il dramma sta nella doppia natura uomo-dio di Lohengrin: egli vuole essere amato come un uomo e non venerato come un dio per questo tenta di nascondere la sua identità non facendo altro che incuriosire Elsa “la quale con chiara coscienza va alla propria rovina per causa dell’ineluttabile essenza dell’amore; questa donna, che proprio quando sente con più folle adorazione, vuole tutto distruggere se non può possedere l’intero amante”. Il loro amore è puro, fuori dalle convenzioni sociali come lo sono Elsa e Lohengrin stessi ma è proprio questa visione dell’amore come bene supremo, idealizzato che lo rende irrealizzabile nella società in cui i due personaggi tentano di vivere venendone ricacciati una ai margini, l’altro totalmente fuori. Il loro amore si annienta nel momento cui Elsa tenta di esprimerlo e concretizzarlo attraverso la conoscenza dell’identità del cavaliere del cigno; sconsolato Lohengrin si rende conto dell’illusione che stava vivendo: egli voleva essere compreso e amato tenendo nascosta la sua identità “eppure ineliminabile è l’aureola traditrice della sua natura sublime; egli non può non apparire mirabile; lo stupore della comunità, il veleno dell’invidia gettano la loro ombra fin dentro il cuore della donna innamorata; dubbio e gelosia gli testimoniano ch’egli non è compreso bensì soltanto venerato, e gli estorcono l’ammissione della sua divinità, con la quale recede annichilito nella sua solitudine”.

Al polo opposto rispetto alla coppia luminosa degli innocenti, ci sono Ortrud e Telramund che è mero strumento nelle mani della moglie, i quali incarnano la borghesia con le sue convenzioni, le sue dinamiche di potere e politica che non hanno nulla a che fare con l’amore; come lo stesso Wagner dice: “Ortrud è una donna che non conosce l’amore. Con ciò tutto è detto. Sua natura è la politica. Un uomo politico è ripugnante, ma una donna politica è atroce. Questa atrocità io dovevo rappresentare. Essa è una reazionaria, una donna rivolta esclusivamente all’antico e perciò nemica ad ogni novità”. La malvagità di Ortrud, doppio oscuro di Lohengrin, vien fuori apertamente nel duetto che apre il II atto: ella irretisce il marito, guida i suoi pensieri fino a condurlo nel vortice di odio e malvagità della vendetta che deve distruggere la gioia di Elsa e del suo Cavaliere. La musica che segue il pensiero di Ortrud è cupa, nervosa non ha nulla dell’eterea naturalezza che caratterizza il motivo del Graal o le sonorità associate alla coppia Lohengrin-Elsa. Ortrud svela a Telramund che quell’essere sovrumano, quel dio che, disceso in mezzo a loro, tutti hanno preso a venerare è fragile come un fanciullo: “s’egli è costretto il ver suo nome a palesar, svanisce a un tratto la possa arcana che un sacro incanto donato gli ha”. Alla terribile coppia avvinta dal potere basta insinuare il dubbio in Elsa, avvelenare il suo cuore e l’amore, la possibilità portata dall’artista-dio di costruire una nuova comunità legata dalla necessità e dalle leggi dello spirito viene spazzata via dalla logica del guadagno e del potere che sempre vinceranno l’innocenza dell’arte: la speranza di Lohengrin è una chimera, un bel sogno presto divorato dall’avidità e dalla gelosia.

Seguendo l’infelice cammino della tragedia di Lohengrin sembra che il divorzio tra l’artista moderno e la società è oramai inevitabile: Wagner parla chiaro, finché ci sarà una società basata sulla logica del guadagno, del potere e guidata dalle leggi della scienza sarà impossibile creare una comunità di uomini uniti nella necessità e nell’amore che rende l’uomo partecipe eliminando egoismi e solitudini; ma la società che l’uomo borghese stava costruendo seguiva una traiettoria diametralmente opposta nella quale l’artista non era compreso se non come gingillo prezioso per allietare ore di noia o genio sublime ai cui piedi prostrarsi. L’artista sta recidendo i legami con la comunità degli uomini “normali”, i “profani” con i quali non riesce più a comunicare da pari a pari, a farsi comprendere a svelare ciò che davvero è essenziale come accadeva un tempo: ora è solo una vox clamantis in deserto per l’umanità volta a tutt’altri uffici.

Silvia D’Anzelmo

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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